| Anima e corpo
 Il pensiero medievale eredita dall’antichità 
        classica la partizione dell’essere umano 
        in due elementi costitutivi principali, dei 
        quali il primo è concepito per lo più 
        come una natura spirituale intelligente (l’anima) 
        destinato al governo dell’altro, di natura 
        materiale (il corpo). Questa duplicità 
        è da sempre avvertita dall’essere 
        umano che, riflettendo sulla propria natura, 
        già alle origini della speculazione filosofica, 
        constatava da un lato la sua capacità 
        di conoscere il mondo, possedendone un’idea, 
        un concetto, dall’altro si scopriva inevitabilmente 
        immerso nello stesso mondo oggetto della sua 
        conoscenza, corpo tra corpi. Su questa duplice 
        considerazione dell’essere umano, presentata 
        dagli autori greci e latini con variazioni assai 
        considerevoli, si innesta la tradizione speculativa 
        cristiana, che vi scorge la possibilità 
        di giustificare razionalmente le verità 
        di fede che riconoscono nell’uomo la natura 
        a immagine e somiglianza di Dio, ma al tempo 
        stesso mortale, salvifica e peccatrice.
 
 La nozione di spiritus. 
        L’approccio antropologico di tipo dualistico 
        pone tuttavia con urgenza il problema relativo 
        alla modalità di interazione dei due 
        principi, assolutamente eterogenei tra di loro: 
        nella riflessione medievale, contestualmente 
        alla ridefinizione della relazione anima/corpo, 
        compare un terzo elemento, ovvero lo ‘spirito’. 
        La nozione di spiritus, già enunciata 
        nella speculazione agostiniana, dove il senso 
        privilegiato è quello di mens, anima, 
        sostanza incorporea (che permane e si radica 
        nel pensiero occidentale), ricorre già 
        nei trattati altomedievali, e, in epoca scolastica, 
        specialmente in campo medico 
        ed in quello della filosofia 
        naturale, assume un significato più 
        vicino al tema stoico, ripreso in età 
        ellenistica da Galeno, del pneuma, principio 
        intermedio tra anima e corpo, tra spirituale 
        e materiale. (TESTO)
 
 Anima e corpo secondo 
        Agostino. Fra i padri della Chiesa, Agostino 
        di Ippona è l’autore che più 
        influenzerà la speculazione filosofica 
        e teologica successiva sulla natura umana, affermando 
        la trascendenza e l’immaterialità 
        dell’anima e la sua superiorità 
        gerarchica rispetto al corpo. Portavoce in gioventù 
        di un dualismo antropologico più radicale, 
        mitigato in età matura, Agostino ben 
        rappresenta l’ambivalenza del cristiano 
        che intende privilegiare l’aspetto spirituale 
        dell’uomo pur non riducendo la corporeità 
        a principio puramente negativo, opera del maligno. 
        La complessità del suo pensiero, ben 
        presente in epoca altomedievale insieme a quello 
        di altri autori, più legati ad una concezione 
        nettamente dualistica (come per esempio Ambrogio), 
        giungerà fino alla piena scolastica, 
        dove, tuttavia, riscuoterà particolare 
        successo uno scritto a lui attribuito, il De 
        spiritu et anima, composto nel XII secolo in 
        ambiente monastico e per lungo tempo creduto 
        dagli studiodi opera di Alchero di Clairvaux.
 
 Il dualismo alto medievale 
        e la riflessione monastica. La lettura 
        del corpo formulata nel corso dell’alto 
        medioevo dagli autori di ambiente monastico 
        ne fa un elemento oscuro, che appesantisce, 
        o imprigiona, l’anima umana nel mondo 
        terreno, conducendola verso il peccato. Il dominio 
        dell’anima sul corpo, dello spirituale 
        sul materiale e della volontà sull’istintuale 
        è il fine ultimo del buon cristiano, 
        che, prima ancora dei segni della bontà 
        divina, sembra portare in sé le tracce 
        della colpa originaria, che ne fa un discendente 
        di Adamo. L’accentuazione di questa concezione 
        pessimistica della materia e del corporeo è 
        strettamente collegata alla nozione cristiana 
        del peccato originale, che ha immesso nell’essere 
        umano l’elemento di imperfettibilità 
        e corruttibilità. Nel IV libro del De 
        Divisione naturae Giovanni 
        Scoto Eriugena concepisce il corpo umano, 
        dopo il peccato del primo uomo, come un’ombra 
        che impedisce all’anima di elevarsi alla 
        contemplazione delle cause superiori, interposta 
        tra l’attività conoscitiva umana 
        e l’intellegibile a lei superiore. Il 
        peccato originale non ha però corrotto 
        la natura dell’anima umana, il cui fine 
        è quello di compiere il ritorno a Dio 
        e far realizzare, attraverso la conoscenza, 
        il reditus delle cose create all’Uno. 
        (TESTO) Ancora sul ruolo del peccato originale 
        nella vicenda umana universale insiste un’autrice 
        di ambiente monastico, più tarda, Ildegarda 
        di Bingen. Secondo la profetessa tedesca, 
        il corpo umano non ha di per sé connotazione 
        negativa, perché è creato da Dio 
        in concordia profonda con l’anima; esso 
        è divenuto fragile ed esposto alla corruzione 
        solo dopo l’abbandono del paradiso terrestre. 
        Di questa armonia originaria rimangono tuttavia 
        tracce nella condizione naturale umana: distinguendosi 
        dal dualismo pessimista della tradizione altomedievale, 
        Ildegarda ritiene che l'anima, che è 
        definita, con un termine intraducibile, ‘viriditas’, 
        ossia forza vitale, provi piacere nel cooperare 
        con il corpo. (TESTO) Del resto, l’oscillazione 
        tra un atteggiamento assolutamente negativo 
        nei confronti del corpo, inteso come carcere 
        dell’anima, ed una concezione che invece 
        ne stempera le valenze più pessimistiche, 
        facendone uno strumento di espiazione e perciò 
        di redenzione dai peccati, è una caratteristica 
        propria del pensiero monastico medievale.
 
 Il dualismo radicale. 
        Fuori dai monasteri, ma all’interno del 
        medesimo orizzonte culturale del XII secolo, 
        periodo ricco di fermenti e di sperimentazioni 
        di nuove forme di organizzazione religiose e 
        sociali, si sviluppa un movimento di vaste dimensioni, 
        quello dei Catari, 
        condannato dalla Chiesa come eretico ed oggetto 
        di una dura repressione all’inizio del 
        secolo successivo (1209), che sostiene un dualismo 
        estremo tra anima e corpo. In opposizione a 
        questo movimento eretico, e quindi contro la 
        radicalizzazione del dualismo istituito tra 
        bene e male, spirito e materia, anima e corpo, 
        si schiererà gran parte degli intellettuali 
        cristiani dell’epoca. Anche in questo 
        senso va letta una certa rivalutazione della 
        corporeità che è tipica di molte 
        elaborazioni prodotte tra il 1100 e il 1200.
 
 La concezione ermetica 
        dell’anima e la scuola di Chartres. 
        In questo periodo di rinnovamento fioriscono, 
        presso la scuola 
        di Chartres, nuovi scritti prevalentemente 
        a carattere naturalistico, in cui, sulla scorta 
        della lettura di testi 
        ermetici (in particolare l’Asclepius), 
        si teorizza un rapporto armonico tra anima e 
        corpo. La presenza della corporeità nell’essere 
        umano assume caratteri positivi poiché 
        essa è il mezzo con cui egli può 
        operare sulle cose sensibili. Nel celebre testo 
        ermetico, infatti, l’uomo è provvisto 
        di un corpo perché possa prendersi cura 
        del creato: per questo motivo è addirittura 
        superiore alle creature spirituali. Questo ruolo 
        privilegiato dell’essere umano, in età 
        medievale, è ribadito, tra gli altri, 
        da Bernardo 
        Silvestre nella Cosmographia, che nell’elogiare 
        la nobiltà della sua natura, ribadisce 
        la concordia dei principi che lo costituiscono.
 
 La ricezione del De 
        anima. Alla seconda metà del XII 
        secolo si fanno risalire anche le traduzioni 
        dei volumi di filosofia naturale che trasformeranno 
        profondamente le prospettive dei pensatori del 
        secolo successivo. Proprio in quegli anni si 
        colloca l’attività di traduzione 
        che rese disponibili in latino il De anima di 
        Aristotele e i Parva naturalia (ad opera di 
        Giacomo da Venezia, ad eccezione del De memoria 
        e il De somno, nello stesso periodo da autori 
        non identificati), scritti consacrati da Aristotele 
        proprio alle modalità di interazione 
        tra anima e corpo nello svolgimento di attività 
        fisiologiche dei viventi. Ancor prima di Aristotele, 
        grazie alla collaborazione di Domenico Gundissalino 
        (o Gundissalvi) con l’ebreo Avendaut (Ibn 
        Daud), il mondo latino conobbe la traduzione 
        del Liber de anima seu Sextus de naturalibus 
        di Avicenna, 
        libro del Kitab al-Sifa, mentre solo intorno 
        agli anni ’20 del Duecento, Michele 
        Scoto fornì la versione latina del 
        Grande commento al De anima di Averroè: 
        si tratta di due testi che, insieme al De anima 
        di Aristotele, apriranno la via ad una riflessione 
        antropologica su basi totalmente nuove.
 
 L’anima come forma 
        e perfezione del corpo. A seguito del 
        decadimento delle condanne 
        formulate nel 1210 e 1215, il processo di 
        assimilazione della concezione aristotelica 
        dell’anima occupò tanto gli artisti 
        quanto i teologi. Interrogandosi sulla validità 
        della definizione aristotelica, che intende 
        l’anima come forma del corpo (TESTO) entrambi 
        si posero nella prospettiva di inaugurare una 
        nuova concezione dell’essere umano, che 
        non più inteso come‘anima che regge 
        un corpo’, ma un’unità di 
        due elementi, corpo vivificato e principio vivificatore, 
        che si saldano nella determinazione della specie 
        umana. La problematica più delicata, 
        relativa allo statuto dell’intelletto, 
        sarà oggetto di accese discussioni specialmente 
        nella seconda metà del secolo, quando 
        si delineerà quell’uscita dall’eterodossia 
        da parte di alcuni maestri di arti, nota agli 
        storici della filosofia con il nome di ‘averroismo 
        latino’. Nella formulazione di questo 
        nuovo modello antropologico, è possibile 
        riscontrare, in tutto il XIII secolo, un’oscillazione 
        tra un atteggiamento che mira ad una sostanziale 
        integrazione del pensiero aristotelico entro 
        il quadro neoplatonico-avicenniano (in cui è 
        centrale la nozione di anima umana come sostanza, 
        in perfetto accordo con l’immortalità 
        attribuitale dalla tradizione giudaico-cristiana 
        e musulmana), e il tentativo, sulla scorta del 
        testo aristotelico, di concepire una relazione 
        tra anima e corpo caratterizzata da una reciprocità 
        dei due termini, nella costituzione dell’unità 
        del vivente. L’aristotelismo compare quindi 
        in modo molto mediato, accostato a fonti agostiniane, 
        o di ispirazione neoplatonica (come nel caso 
        del Liber de causis), che ne mitigano le conseguenze 
        teoriche: porre il rapporto anima/corpo nei 
        termini di forma/materia significherebbe infatti 
        superare i termini di un dualismo che appare 
        l’unico modo per garantire all’anima 
        una sorte che non sia strettamente correlata 
        a quello del corpo, destinato alla dissoluzione. 
        Questa tensione tra dualismo e ilemorfismo 
        di matrice aristotelica rimane irrisolta nei 
        testi a carattere naturalistico, ovvero commenti 
        al De anima di Aristotele che cercano di fondare 
        la nuova scientia de anima, ma se ne trova testimonianza 
        anche nei trattati e nelle Summe dei teologi 
        che operarono nello stesso periodo, da Filippo 
        il Cancelliere a Guglielmo 
        di Alvernia, dal primo magister francescano 
        di teologia, Alessandro 
        di Hales, a Giovanni 
        de La Rochelle. Tra le numerose definizioni 
        dell’anima che ricorrono nei loro testi 
        (nelle opere di Filippo e Giovanni si trovano 
        veri e propri elenchi che attestano la ricchezza 
        dei materiali e delle idee circolanti in quegli 
        anni) i maestri di teologia accolgono solitamente 
        quella di anima come perfezione del corpo e 
        sostanza, cioè entità separata 
        e immortale che vivifica a muove il corpo.
 
 La semplicità 
        vs. composizione dell’anima. Un 
        altro tema di discussione in questi anni di 
        continue rielaborazioni concerne la semplicità/composizione 
        dell’anima. Sulla scorta del Fons Vitae 
        di Avicebron, 
        alcuni autori, sia alla facoltà di arti 
        che a quella di teologia, ipotizzarono che l’anima 
        risultasse da una composizione di materia spirituale 
        e forma; questa concezione, che diventerà 
        caratteristica della scuola francescana, è 
        un’applicazione della più ampia 
        tesi dell’ilemorfismo universale e sarà 
        criticata da Alberto 
        Magno e Tommaso 
        d’Aquino. Nel ribadire l’assoluta 
        semplicità ed immortalità dell’anima, 
        i due domenicani, tentano, con la strumentazione 
        logico-concettuale a loro disposizione, un’assimilazione 
        completa della biologia e della psicologia aristotelica 
        nei quadri del sapere cristiano, che si va delineando 
        come una varietà di scienze, tra loro 
        ordinate gerarchicamente, che hanno al vertice 
        la teologia.
 
 L’unicità 
        vs. pluralità delle forme. La 
        fine del secolo XIII vide i medievali discutere 
        intorno alla questione dell’unicità/pluralità 
        delle forme. Per unicità della forma 
        sostanziale (tesi sostenuta da Alberto Magno 
        e Tommaso d’Aquino) si intende quella 
        tesi secondo la quale la forma animatrice gerarchicamente 
        superiore alle altre (l’anima razionale 
        dell’essere umano) sussume in sé 
        tutte le funzioni proprie delle forme inferiori 
        (vegetativa e sensitiva). La tesi opposta, quella 
        della pluralità delle forme, tipica della 
        facoltà di arti della prima metà 
        del secolo e, più in generale, della 
        scuola francescana, sostiene invece che le forme 
        che si succedono nel corpo permangano in esso 
        didtinte essenzialmente tra di loro. La tesi 
        dell’unicità della forma sostanziale 
        fu tra le 219 proposizioni condannate nel 1277, 
        per cui il dibattito sembrò orientarsi 
        verso la soluzione francescana della pluralità 
        delle forme (Pietro 
        di Giovanni Olivi, Riccardo di Mediavilla, 
        Giovanni Peckham), nonostante la difesa dei 
        domenicani successori di Tommaso d’Aquino, 
        primo fra tutti Egidio 
        Romano.
 
 L’unità 
        funzionale complessa dell’essere umano. 
        Il dibattito sul modo con cui l’essere 
        umano, nonostante sia articolato in una molteplicità 
        di componenti, costituisce un’unità, 
        occupa i più grandi autori della fine 
        del secolo XIII e del successivo. Duns 
        Scoto provvederà, con lo strumento 
        che gli è più proprio, quello 
        della distinzione, a formulare una soluzione 
        al problema, sostenendo che l’essere umano 
        risulta dell’unione del corpo, a sua volta 
        informato dalla forma corporeitatis, (quella 
        forma che, dopo la morte dell’uomo consente 
        al corpo di permanere) con l’anima, che 
        lo vivifica. In questo senso, l’unità 
        dell’essere umano non è da intendersi 
        nei termini di unità semplice, ma come 
        quella risultante da un’articolazione, 
        che è il segno più immediato della 
        complessità che caratterizza il vivente. 
        Ancora in questa direzione si muoverà 
        Guglielmo 
        di Ockham, che vede l’essere umano 
        come il composto di corpo, forma della corporeità, 
        forma sensitiva e forma intellettiva, un insieme 
        molteplice e articolato di componenti che, interagendo 
        tra di loro, costituiscono un’unità 
        funzionale complessa.
 
 Gli sviluppi successivi. 
        Tra la fine del XIV e il XV secolo permane nell’università 
        medievale l’attività di commento 
        delle opere naturali di Aristotele. Alla scuola 
        padovana si innesta una tradizione di studi 
        sul De anima improntati alla lettura averroista 
        che proseguirà nei secoli successivi; 
        nel solco di tale tradizione si pone la speculazione 
        vigorosa e innovativa di una delle figure più 
        significative del Rinascimento italiano, quella 
        Pietro Pomponazzi. Accanto al filone di studi 
        sull’aristotelismo il Quattrocento vede 
        il fiorire, anche al di fuori dell’istituzione 
        universitaria, di traduzioni dal greco che rendono 
        disponibili il Corpus hermeticum e Corpus platonico, 
        prima inaccessibili. Sulla scorta di tali materiali 
        Marsilio Ficino e Nicola 
        Cusano formuleranno la tesi propria dell’Umanesimo 
        sulla centralità dell’essere umano 
        nel creato. (PB)
 
 Bibliografia
 
 Traduzioni
 PS. GIROLAMO, CASSIODORO, ALCUINO, RABANO MAURO, 
        RATRAMNO, INCMARO, GODESCALCO, L’anima 
        dell’uomo. Trattati sull’anima dal 
        V al IX secolo, a cura di I. Tolomio, Milano, 
        Rusconi 1979.
 Tommaso d'Aquino, Commentario al De anima, traduzione, 
        studi introduttivi e note di Adriana Caparello, 
        II voll., Roma, Edizioni Abete 1975.
 Le questiones de anima di Biagio Pelacani da 
        Parma, a cura di Graziella Federici Vescovini, 
        Firenze, Olschki 1974.
 
 Studi
 Anima e corpo nella cultura medievale, a cura 
        di C. Casagrande e S. Vecchio, SISMEL-Edizioni 
        Il Galluzzo, Firenze 1999 (Millennio Medievale, 
        15).
 
 |