Intelletto possibile/intelletto
agente
L’intelletto secondo
Aristotele. Che cos’è l’intelletto?
Nel De anima Aristotele non dà definizioni
di questa facoltà, ma ne fa emergere
le caratteristiche sulla base del confronto
con il senso (De anima, III, 4): in analogia
a questo, egli rileva le caratteristiche proprie
della parte passiva dell’intelletto che
è ricettivo della forma (intellegibile),
quindi in potenza alla forma stessa, così
come il senso è in potenza al sensibile;
questo significa che per conoscere una cosa
bisogna avere la capacità di conoscerla,
esserne cioè conoscenti in potenza. La
natura di tale intelletto è ‘di
essere in potenza’ ed è detto perciò
intelletto potenziale: non è ragionevole
secondo Aristotele che sia mescolato al corpo,
perché in tal caso ne assumerebbe le
qualità; si tratta invece di una facoltà,
che, a differenza del senso, non ha organi.
Caratteristica propria dell’intelletto
è l’impassibilità, che fa
sì che questo non si corrompa, cosa che
invece accade al senso, dopo l’azione
di un sensibile troppo intenso (suono forte,
luce abbagliante ecc.).
Veniamo ora al celebre passo di De anima., III,
5, dove Aristotele afferma che c’è
una componente attiva dell’intelletto:
detto da Aristotele ‘produttivo’
-nous poieticos- viene, definito ‘attivo’
da Alessandro di Afrodisia, che lo identificò
con Dio, ed è oggetto di una lunga ed
importante tradizione di studi nel mondo arabo,
che prima dei latini ebbe accesso al De anima.
In età medievale, l’intelletto
produttivo aristotelico è definito ‘intellectus
agens’, da cui l’italiano ‘intelletto
agente’. L’intelletto agente è
ciò che fa diventare una conoscenza in
potenza, conoscenza in atto, è cioè
l’elemento di attività che permane
sempre identico a se stesso, conosce tutto,
ed è immortale e, rispetto all’anima
umana, proviene dall’esterno, quasi un
principio divino.
In parallelo, l’intelletto ‘potenziale’
o ‘passivo’ di Aristotele è
spesso definito dai medievali ‘intellectus
possibilis’ (la possibilità o potenzialità
di divenire tutte le cose), da cui l’espressione
italiana ‘intelletto possibile’.
Esso non va confuso con la nozione di ‘intellectus
passibilis’, che si trova presso alcuni
autori ad indicare la più alta potenza
di natura organica posseduta dagli esseri viventi,
spesso assimilato alla cogitativa, che pertiene
alla facoltà sensitiva.
La distinzione tra intelletto
agente ed intelletto possibile nella tradizione
peripatetica e araba. L’interpretazione
data da Alessandro di Afrodisia (vissuto sotto
Settimio Severo, II-III sec. D.C.) dell’intelletto
aristotelico influenzerà i pensatori
medievali. L’intelletto attivo, o agente,
è identificato con il primo motore immobile
di Metafisica XII: Alessandro accentua dunque
il carattere di separatezza e il fatto di ‘provenire
dall’esterno’ (i medievali diranno
“ab extra”) di cui De Generatione
animalium, 2.3 736b27-29: “Dunque è
da concludere che solo il pensiero proviene
dall’esterno, e che esso solo è
divino”. L’intelletto potenziale,
o materiale, che inerisce l’essere umano
non è altro che l’attitudine a
possedere la capacità di conoscere. La
perfezione di tale attitudine si ottiene con
l’esercizio e l’abitudine all’attività
intellettiva (lo sforzo individuale è
necessario per progredire nella conoscenza):
questo è l’intelletto in abito.
I due intelletti potenziale e in abito sono
forma del corpo e muoiono con esso. Immortale
e separato è solo l’intelletto
agente: Alessandro è celebre per aver
sostenuto la mortalità dell’anima
individuale e la divinità dell’intelletto
agente. La parafrasi di Temistio del De anima
aristotelico è il commento più
antico pervenutoci (quello di Alessandro d’Afrodisia
è un trattato; scrisse anche un commento
che andò perduto). Egli rifiutò
l’interpretazione alessandrina dell’intelletto
agente=Dio, affermando che questo deve in qualche
modo inerire l’individuo, poiché
l’attività conoscitiva concerne
l’essere umano che pensa quando vuole.
Tommaso
d’Aquino utilizzerà questo
argomento contro la lettura averroista che i
maestri di arti latini promuoveranno nella seconda
metà del XIII secolo.
La tradizione filosofica islamica offrì
nel suo insieme un contributo speculativo enorme
al mondo latino in relazione al tema
gnoseologico, in particolare sull’intelletto
agente: le raffinate sintesi di Avicenna
e del Commentatore per antonomasia di Aristotele,
Averroè,
furono studiate attentamente nonostante le interdizioni
che ne vietarono la lettura alle Università.
Il primo ingresso della
concezione aristotelica dell’intelletto
nell’Occidente latino. Già
prima della definitiva integrazione del De anima
nel programma
di studi della Facoltà di arti i
maestri latini conoscevano bene il testo naturale
aristotelico, e articolavano secondo i loro
propri orientamenti teoretici la distinzione
tra i due intelletti proposta dallo Stagirita
e diversamente interpretata dai suoi commentatori
peripatetici ed arabi: alcuni autori (come Domenico
Gundisalvi, traduttore del De anima avicenniano,
e l’inglese John Blund, a cui si ascrive
uno dei primi trattati latini sul De anima aristotelico),
leggendo Avicenna, privilegiarono l’idea
di un intelletto agente separato dall’essere
umano, identificato con un’intelligenza
angelica; molti teologi (tra cui Ruggero
Bacone, soprattutto negli scritti più
tardi, Guglielmo
d’Alvernia, Bonaventura),
fedeli ad Agostino, lo concepirono in ultima
istanza come la luce di origine divina che rende
possibile ogni atto conoscitivo umano.
La maggior parte dei maestri di arti, insieme
ad alcuni eminenti teologi (come Giovanni
de La Rochelle, e successivamente i domenicani
Alberto
Magno e Tommaso
d’Aquino) invece, considerarono intelletto
agente e intelletto possibile come parti
dell’anima umana. In questa interpretazione
della distinzione aristotelica, l’intelletto
(sia agente che possibile) è una facoltà
(o parte, o potenza) dell’anima umana:
è separato solo nel senso che è
una facoltà inorganica, che opera, nell’ambito
della conoscenza del mondo naturale, a partire
dai dati offerti dai sensi, per astrazione,
ma costituisce un tutt’uno con il singolo
individuo conoscente.
Fino al 1260 circa alla facoltà di arti
non c’è traccia del cosiddetto
monopsichismo (termine coniato da Leibniz) averroista.
La teoria dell’unicità
dell’intelletto agente e possibile e la
reazione dei teologi. Già Alberto
Magno nel 1256 si era scagliato contro la tesi
eretica di un unico intelletto per tutti gli
uomini. Intorno al 1260 circa due maestri di
arti, l’inglese Guglielmo di Clifford
ed un altro anonimo commentatore del De anima
(definito con il nome dell’editore ‘anonimo
Vennebusch’) fanno riferimento alla teoria
dell’unicità dell’intelletto,
respingendola e testimoniando così la
presenza all’Università cristiana
di un orientamento filosofico-gnoseologico che
adottava esplicitamente la
prospettiva di Averroè. Il De unitate
intellectus contra averroistas è il documento
più famoso che attesta la confutazione
di tale concezione, sostenuta in primis da Sigieri
di Brabante, che sembra essere l’avversario
diretto dell’Aquinate nella celebre disputa.
Al 1270 risale la prima condanna
che colpisce13 proposizioni, tra le quali: (1)
L’intelletto di tutti gli uomini è
uno e identico numericamente; (2) la proposizione
‘l’uomo intende’ è
falsa o inesatta; nel 1277 le tesi verranno
nuovamente giudicate erronee. L’unità
numerica dell’intelletto verrà
nuovamente ripresa da maestri attivi nel secolo
successivo, da Giovanni
di Jandun e Taddeo da Parma, oltre che da
Angelo d’Arezzo e Paolo
Veneto, e sarà oggetto di un’importante
riflessione da parte di Dante
Alighieri.
Intelletto agente e
visione beatifica. Il tema della distinzione
tra intelletto agente ed intelletto possibile
non è tuttavia legato solo al modello
epistemologico aristotelico in quanto paradigma
della conoscenza del mondo naturale: nel corso
del secolo XIV, in particolare, la suddetta
articolazione giocherà un ruolo di primo
livello nelle elaborazioni teologiche relative
alla visione
beatifica. Se infatti, da un lato, gli autori
più vicini alle posizioni averroiste
approfondiranno il ruolo dell’intelletto
agente nella questione gnoseologica in virtù
della loro fiducia nel raggiungimento di una
felicità
tutta umana, altro sarà l’orientamento
di teologi come Teodorico
di Freiberg, che innesterà sul tema
aristotelico forti istanze
mistiche, proprie della scuola albertina
renana. (PB)
Bibliografia
Di E. H. Wéber, La personne humaine au
XIIIe siècle, Paris, Vrin 1991, si veda
particolarmente il cap. II della seconda parte,
“L’intellect e l’intellection.
Les solutions en conflit”, pp. 287-448
R.C.Dales, The Problem of the Rational Soul
in the Thirteenth Century, Leiden- New- York
Köln, Brill, 1995
B. C. Bazán, On “First Averroism”
and its Doctrinal Background, in Of Scholars,
Savants, and their Texts. Studies in Philosophy
and Religious Thought. Essays in Honor of Arthur
Hyman, Peter Lang, New York-Bern-Frankfurt am
Main-Paris 1989, pp. 9-22
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