Linea dorata

Visione beatifica

La visione beatifica tra intellettualismo e volontarismo. La promessa biblica della possibilità di vedere Dio ‘faccia a faccia’ (Paolo, I Lettera ai Corinzi, 13,12) fu per i medievali motivo di ampie riflessioni che condussero ad elaborazioni teologiche diverse per ispirazione, orientamento ed argomentazioni filosofiche ad esse sottese. Nel 1241 e nel 1244 era stata censurata la tesi per cui “Né l’uomo né l’angelo vedranno Dio nella sua propria essenza”, nella quale si manifestava l’influenza della teologia orientale, tesa a ribadire l’assoluta trascendenza di Dio. Nelle successive discussioni, che si protrassero fino al pronunciamento dottrinale definitivo da parte del papa Benedetto XII nel 1336, non fu la possibilità della visione a essere messa in dubbio, ma il modo del suo ottenimento: se fosse o no raggiungibile naturalmente dall’intelletto umano e se potesse essere ottenuta in questa vita. A differenza infatti di altre modalità di attingimento al divino principio che ipotizzavano l’unione durante la vita terrena, ‘in via’, o l’accesso privilegiato ad una conoscenza ultrasensibile che da Lui proveniva, nella tradizione agostiniana la visione beatifica era accessibile solo ‘in patria’, ovvero dopo la morte, in quanto ricompensa che spetta al beato, che ha meritato con la sua condotta la grazia eterna.

La visione beatifica presso i Cisterciensi. Nel corso del XII secolo non si era avuta una vera e propria riflessione, in senso razionale e programmatico, intorno alla visio beatifica. Sicuramente però le ultime fasi dell’unione mistica implicano inevitabimente la prefigurazione di quella che poi sarà la visione beatifica di Dio. Per Bernardo di Chiaravalle la visio beatifica è pertanto un prolungamento della contemplazione, che non può attingere la propria perfezione in questa vita. Ci sono tre immagini che in maniera efficace rendono conto della posizione di Dio e dell’uomo nell’ambito dello stato finale della contemplazione, anticipazione della futura visio facialis: la goccia d’acqua che perde il suo colore e il suo sapore nel vino; il ferro e il fuoco; l’aria illuminata dal sole. La seconda e la terza metafora derivano da Massimo il Confessore, mediato da Giovanni Scoto Eriugena. Le tre immagini rendono conto in modo efficace di un’unione che rispetta la distinzione delle sostanze, evitando un possibile esito panteista del processo contemplativo. Per Bernardo l’oggetto stesso della conoscenza dell’uomo (Dio), trasforma il soggetto attraverso la carità, ma la visio beatifica è riservata solo alla gloria della vita eterna. Con Guglielmo di Saint-Thierry è ribadito che la conoscenza intellettuale dell’essenza di Dio è impossibile in questo mondo, e tuttavia, l’amore, nel rendere l’anima simile a Dio, genera la similitudo capace di produrre una conoscenza affettiva che va a sostituirsi a quella intellettuale.

Intelletto e amore. A proposito della varietà delle posizioni assunte in ambito teologico sul tema nel XIII secolo, è in primo luogo opportuno ricordare la canonica, ma sempre utile distinzione tra la posizione definita intellettualista, tipica dei maestri domenicani (tra i quali i più celebri sono, come è noto, Alberto Magno e Tommaso d’Aquino), che proponeva la possibilità di realizzare l’unione con Dio tramite l’intelletto, e quella volontaristica, che riprendendo temi della mistica cisterciense pone l’accento sulla volontà e l’amore, e che fu fatta propria dagli esponenti dell’ordine francescano (Bonaventura da Bagnoregio, Duns Scoto); tale differenza di approccio portò ad un contrasto che culminò con le polemiche sorte in ambito francescano contro la posizione tomista, espresse nel Correctorium di Guglielmo de la Mare, che dette inizio alla cosiddetta letteratura dei Correctoria, composti nell’ultimo ventennio del XIII secolo. Agli attacchi francescani, che condannavano sia l’approccio sia i risultati della speculazione tomista, seguirono, in difesa dell’Aquinate, o, più in generale, della posizione intellettualista, vivaci risposte da parte dei domenicani (i Correctoria del Correctorium, tra cui si annoverano il Circa di Giovanni Quidort, il Quare di Riccardo Knapwell e lo Sciendum di Guglielmo di Macclesfield).

Il lumen gloriae. La tesi di Tommaso d’Aquino concerneva la possibilità di realizzare l’unione con Dio attraverso “un atto di intelletto” <testi> ed è presentata nel contesto di una concezione della visione beatifica che tentava di risanare la frattura tra Creatore e creature posta nella prima età scolastica, in cui si tendeva a negare la possibilità per la creatura finita di avere accesso all’infinità divina. Tale frattura era per Tommaso inaccettabile, poiché metteva in discussione la possibilità stessa della beatitudine eterna, che non poteva, nella sua prospettiva, non consistere nell’attuazione immediata e completa di ogni conoscenza, a cui aspira ogni natura umana e, più in generale, ogni creatura dotata di razionalità. Tuttavia solo Dio, con il dono della grazia, ovvero con la concessione di un medio conoscitivo speciale, il lumen gloriae, poteva dilatare all’infinito la potenzialità conoscitiva umana, così come anche quella angelica.

Visione beatifica e beatitudo imperfecta. I fautori dell’intellettualismo condividevano con i maestri di arti detti averroisti latini o ‘aristotelici radicali’ l’idea che solo l’esercizio dell’intelletto permettesse all’essere umano di raggiungere lo stato di perfezione della sua natura. Questi ultimi, fedeli all’ideale etico aristotelico, ritenevano che si potesse giungere a tale stato durante la vita, coltivando l’amore per il sapere, la filosofia. La loro posizione, infatti, ispirandosi a quella di Averroè, che teorizzava la possibilità della contemplazione ‘in via’ delle sostanze separate, quindi l’accesso al mondo ultrasensibile attraverso la pratica filosofica, li poneva fuori all’ortodossia. Nell’ottica del teologo, anche ‘intellettualista’, invece questa pretesa era assolutamente illegittima, poiché la fede ci insegna la limitatezza dell’intelligenza umana, che da sola può al massimo raggiungere una ‘beatitudo imperfecta’, ma non pervenire al compimento vero e proprio della propria perfezione, per cui necessita l’intervento divino, che è la ‘visio beatifica’. Tuttavia, proprio in relazione a questo contrasto lo studio della noetica aristotelica subì un impulso notevole da ambo le parti, nel tentativo di ridefinire le potenzialità effettive e i limiti della ragione umana.

La contestazione in ambito renano-fiammingo: possibilità della beatitudo ‘in via’. La critica della dottrina del lume gloriae si era avuta in primo luogo presso beghine e begardi: Hadewijch d’Anversa fornisce una lista di 106 perfetti (sostenendo che 56 di loro erano ancora in vita al momento della redazione dell’elenco) che hanno ottenuto la visio facialis di Dio in vita: la mistica sembra dunque poter realizzare la possibilità di giungere alla visione beatifica in questa vita. Ma se indaghiamo le dottrine beghinali a partire da un’analisi attenta della più ampia testimonianza scritta, il Miroir des simples âmes di Margherita Porete, cogliamo due elementi di radicale differenza rispetto alla concezione scolastica della visio beatifica: in primo luogo, la condizione di infallibilità, che solo l’unione intima e la visione dell’essenza divina permettono, è ottenuta al sesto stato del percorso mistico -dunque in questa vita-, mentre solo al settimo e ultimo stato, non raggiungibile in vita, la visio Dei è permanente e definitiva. Sembra di poter dire che la distinzione fra sesto e settimo stato consista unicamente nella durata dell’esperienza. Il secondo punto di differenza è più profondo, poiché in realtà nel Miroir la visio Dei non si verifica propriamente nel senso in cui è definita dagli autori scolastici, perché il lampo (esclar) che produce il sesto stato non è identificato con il lumen gloriae ma con la presenza reale di Dio che vede se stesso nell’Anima e che riempie lo spazio che l’Anima annientata ha fatto in sé. In tal modo il panteismo è completamente evitato, poiché solo Dio può conoscersi nelle creature in modo completo senza ingenerare confusione di sostanze. I presupposti del rifiuto della dottrina del lumen gloriae elaborati nell’ambito dei beghinaggi, e in modo così originale risolto da Margherita, sono accolti nell’ambito di riflessione teologica dai maggiori esponenti, insieme alla Porete, della mistica speculativa.

Teodorico di Freiberg. A tale riguardo ha uno speciale rilievo la posizione elaborata da Teodorico di Freiberg. Egli dedica al problema un intero trattato, il De visione beatifica, fornendo argomenti filosoficamente ben fondati per contestare la necessità del lumen gloriae. Parlando di una beatificazione delle creature, Teodorico rimane specificamente nell’ambito degli argomenti scolastici, mostrando che: 1. l’intelletto agente è ordinato a Dio; 2. quale sia il suo rapporto con l’intelletto possibile e con gli altri esseri; 3. è impossibile realizzare l’unione immediata con Dio nella visione beatifica con l’intelletto possibile; 4. il modo della visione beatifica è ottenuto immediatamente dall’intelletto agente. Una tale posizione sembra suggerire la possibilità di una beatitudine naturale dell’uomo, basata sulla natura stessa dell’intelletto agente che conosce se stesso e le altre cose per la sua essenza: tema che sul piano gnoseologico indica, per esempio in Tommaso d’Aquino, la modalità di conoscenza propria di Dio e delle sostanze separate. Per Teodorico l’intelletto agente, che è perfetta immagine di Dio, a Dio ritorna secondo la propria essenza, e l’unione che produce la visione beatifica non ha dunque un carattere soprannaturale ma si configura come uno sviluppo di modalità conoscitivhe che avvicinano l’essere umano allo status angelico.

Eckhart. Il magister domenicano rifiuta il ruolo di causa efficiente del lumen gloriae ma ritiene, seguendo in ciò Tommaso, che il lumen gloriae rivesta il ruolo di causa formale della visione. Per Eckhart comunque l’accesso alla beatitudo non può che passare attraverso la regressione della creatura allo stato precreaturale, che garantisce la divinizzazione dell’uomo. L’uomo nobile sembra dunque poter entrare nella beatitudine eterna in questa vita, tornando a uno stato eterno anteriore alla sua entrata nel mondo. Ma questa unione, essenzialmente di carattere passivo, rende conto delle esigenze ecclesiali e filosofiche che sono alla base della discussione relativa alla visione? La forte influenza della dottrina neoplatonica emanatistica sulla teologia della beatitudine eckhartiana sembra confermare che su questo argomento gli esponenti della mistica speculativa hanno intrapreso un cammino diverso: è infatti la passività dell’uomo rispetto alla beatitudine, analoga a quella dell’esperienza mistica descritta nel Miroir della Porete che, mostrando il carattere apofatico della visione, sembra permettere la visio facialis ‘in via’ escludendo i rischi di panteismo, sempre presente nell’ambito del problema della visione beatifica. (EC, PB)

Bibliografia
Trottmann, C., La vision béatifique des disputes scolastiques à sa définition par Benoît XII, Roma Ecole Française de Rome 1995.

 

Università di Siena - Facoltà di lettere e filosofia
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