Etica
Prologo alto-medievale.
L’etica aristotelica, delle cui linee
principali l’età medievale era
a conoscenza anche prima della traduzione dell’Etica
a Nicomaco, attraverso una pagina del commento
di Boezio
all’Isagoge di Porfirio, si basava essenzialmente
sull’idea della naturale potenzialità
dell’uomo di sviluppare al massimo livello
le proprie capacità, inserendosi in tal
modo armoniosamente nella struttura della polis.
Radicalmente diversa da questa, la nozione biblica
del peccato originale e della futura salvezza
dell’uomo costituiva il fondamento dell’etica
cristiana, che dominò per tutti i secoli
alto-medievali a partire dalla riflessione di
Agostino d’Ippona (in primo luogo il De
civitate Dei). Il punto di possibile intersezione
fra le due concezioni della vita morale stava
nella riflessione sulla libertà dell’uomo,
tema che i medievali ritrovavano nelle dottrine
stoiche presenti nei testi di Cicerone e di
Seneca, facenti parte del curriculum delle arti
liberali. L’eredità agostiniana
sul tema del libero arbitrio era duplice: da
una parte abbiamo le idee del giovane Agostino
sulla possibilità per l’uomo di
ricercare con le proprie forze l’ordine
che governa la vita, l’ordine dei beni
da perseguire e la distinzione fra quelli di
cui l’uomo si serve (usus) e quelli in
cui risiede il compimento della sua natura e
dunque il godimento (fruitio); dall’altra
la concezione elaborata soprattutto negli scritti
degli ultimi anni in cui, combattendo l’eresia
di Pelagio, Agostino aveva posto l’accento
sulla grazia e sulla predestinazione divina
come condizione unica per il raggiungimento
della salvezza. Da questa seconda concezione
agostiniana prese avvio, in età carolingia,
il dibattito sulla doppia
predestinazione. La conseguenza principale
dell’idea della predestinazione era la
stretta dipendenza della salvezza del singolo
dalla sua inclusione nel corpo della chiesa,
attraverso il cui sistema di mediazione la grazia
divina raggiunge gli uomini. La morale cristiana
alto-medievale era perciò di fatto codificata
come una serie di norme regolanti l’inclusione
(o l’esclusione, mediante i provvedimenti
dell’interdetto
e della scomunica)
nei due insiemi in linea di principio coestensivi
della chiesa e della società cristiana.
Il carattere legalistico dei Penitenziari altomedievali,
come quello di Burcardo di Worms, identificava
nei fatti la vita morale con l’osservanza
di una serie di regole.
Un’etica per l’individuo.
E’solo con l’emergere di un’idea
molto articolata di individuo, nel XII secolo,
che la riflessione sul rapporto fra l’interiorità
del singolo e i rapporti con gli altri si fa
strada, in prima istanza nelle riflessioni etiche
nate nell’ambito della vita monastica
(per esempio nel discorso sull’amicizia
del cistercense Alchero di Clairvaux, che accoglie
molte idee ciceroniane su questo tema; e in
quello sulla discretio, la moderata regolazione
che permette l’accordo virtuoso di anima
e di corpo, in Ildegarda
di Bingen); e, con una connotazione più
propriamente filosofica, nell’idea abelardiana
di intenzione, nata nella fucina del rapporto
epistolare con Eloisa. Nello Scito te ipsum
Abelardo
segnala fin dal titolo l’impostazione
filosofica della sua etica, poiché il
motto "Conosci te stesso" rinviava
all’oracolo delfico e dunque alla sapienza
degli antichi, alla quale il filosofo riconosceva
di essere portatrice di elementi di verità.
La vita morale si scandisce attraverso il rapporto
tra vizi dell’anima e virtù <testo
1>, ed il rapporto fra il vizio dell’anima
e il peccato è chiaramente impostato
su due principi basilari: la definizione del
peccato come qualcosa che “consiste più
in un non essere che in un essere”, nella
quale sentiamo riecheggiare la posizione eriugeniana
nel dibattito sulla predestinazione; e l’introduzione
di un principio di probabile derivazione giuridica,
quello dell’assenso: è l’assenso
al vizio, dunque un atto cosciente e volontario,
ciò che propriamente costituisce il peccato,
non il contenuto dell’atto peccaminoso
in sé. <testo 2>. Da questo deriva
la paradossale idea abelardiana che gli Ebrei
che crocifissero Cristo non commisero peccato,
perché seguirono in piena coscienza ciò
che ritenevano bene, i dettami della loro legge.
La pratica delle virtù non è,
tuttavia, un aspetto di rilevanza esclusivamente
privata: sia perché gli uomini, a differenza
di Dio, giudicano quello che vedono (gli atti,
non le intenzioni), sia perché unica
è la bontà che produce la buona
intenzione e la buona azione <testo 3 >
Dalle virtù alla
felicità. Porre le virtù
al centro della vita morale, come avviene in
maniera sempre più consistente nel corso
del XII secolo, permette di accogliere nella
riflessione etica materiali filosofici di autori
pagani, in particolare della filosofia stoica.
Ampie esposizioni dell’etica stoica erano
presenti in testi che si leggevano nel contesto
dell'insegnamento delle arti
liberali: nel De officiis e nel De finibus
di Cicerone e nelle Lettere a Lucilio di Seneca,
che andavano ad aggiungersi ai molti cenni presenti
nei testi dei Padri della Chiesa. Diversi florilegi
di detti stoici di fonte diversa circolarono
nel XII secolo, uno dei quali correntemente
attribuito a Guglielmo
di Conches, col titolo di Moralium dogma
philosophorum (Dottrina dei filosofi morali).
La virtù, in quanto perfezione morale,
equivale al bene, che per la vita dell’uomo
significa vivere in armonia con l’ordine
dell’universo; questo implica il distacco
dalle passioni e il compimento del dovere, un
insieme di idee che si accordano con la regolazione
della vita sociale secondo la tripartizione
delle funzioni (sacerdotium, regnum, militia),
in cui si introdurrà presto il primo
nucleo di un’etica ‘borghese’,
con la considerazione dello status del mercante.
L’idea di ‘legge naturale’
entra a far parte del bagaglio filosofico per
questa via, connettendosi alle altre due dimensioni
della filosofia pratica: la politica
e l’economica, oltre che al diritto: verso
il 1140 il Decretum Gratiani, compilazione fondamentale
del diritto canonico, asserisce in maniera precisa
che “l’umanità è retta
da due leggi, la legge naturale e le usanze”
(queste ultime costituiscono la legge positiva,
statuita dall’uomo). Il centro della vita
morale diventa dunque il vivere secondo ragione,
come afferma una massima d’ispirazione
ciceroniana contenuta nel Moralium dogma philosophorum:
“la virtù è quell’atteggiamento
(habitus) dell’anima che segue la natura
della ragione”; la strada è aperta
all’introduzione delle opere morali di
Aristotele, e alla ricerca di un’etica
conforme alla natura dell’uomo.
Regolare la natura umana.
La ricerca di un’etica naturale caratterizzava,
nel XII secolo, la cultura cortese, ove avevano
trovato spazio la riflessione sulle regole d’amore,
sul rapporto fra uomo e donna, su virtù
in parte diverse da quelle analizzate dai filosofi;
di queste riflessioni sono testimonianza i romanzi
e la poesia cortese, più chei trattati
filosofici: nelle due parti del Roman de la
Rose si assiste, anzi, al percorso che dalla
prima idealità cortese espressa da Chrétien
de Troyes, basata sulla sublimazione dell’amore,
si passa al naturalismo dei versi di Jean de
Meung. L’incisività di queste riflessioni
non dovette essere di breve durata, poiché
il trattato Sull’amore di Andrea Cappellano
venne incluso nella condanna
del 1277. Tuttavia nella riflessione etica
del XIII secolo la filosofia aristotelica assume
rapidamente il monopolio, saturando gli spazi
che nel secolo precedente erano stati aperti
alla elaborazione monastica e a quella cortese.
Le virtù noetiche, attorno a cui Aristotele
costruisce la sua idea di vita morale basata
sull’equilibrio fra opposti eccessi (la
dottrina del ‘giusto mezzo’), sono
analizzate nei libri I-IX dell’Etica a
Nicomaco, che in parte era già nota nel
XII sec. ma il cui testo completo fu tradotto
da Roberto
Grossatesta, insieme ai commenti di due
autori bizantini, Michele
di Efeso ed Eustrazio. In maniera molto
più decisiva di quanto non fosse avvenuto
nel secolo precedente si delinea, nei commenti
al testo aristotelico, il profilo di un’etica
i cui principi non risiedono nella condizione
dell’uomo peccatore ma in quella dell’uomo
naturale, essere di ragione il cui compito primario
è quello di sviluppare le proprie potenzialità;
mentre nelle università l’etica,
assieme alla politica e all’economica,
diventa una partizione a sé della filosofia.
Il bene agire è, per l’etica aristotelica,
la conseguenza di un’analisi razionale
della condizione umana, che guida la volontà
a incamminarsi sul percorso dell’autoperfezionamento
virtuoso. Non tutti i filosofi, e soprattutto
non tutti i teologi, sono però d’accordo
a proposito del primato della ragione nella
vita morale: una consistente parte di essi,
in particolare i francescani con in prima fila
Bonaventura
da Bagnoregio, sostengono il primato della
volontà, in termini cristiani dell’amore,
che orienta la ragione prescrivendole il fine
da perseguire. Particolarmente incisivo, a questo
riguardo, lo sviluppo del tema della volontà
in Enrico
di Gand; è significativo il fatto
che proprio da una posizione di forte valorizzazione
della componente volontaristica nella vita morale
si distacchino gli esponenti della mistica di
fine Duecento, Margherita
Porete e Meister
Eckhart. Una posizione interessante è
anche quella di Ruggero
Bacone, per il quale l’etica si colloca
al vertice delle scienze. La riflessione di
Tommaso
d’Aquino non solo accoglie pienamente
il discorso aristotelico, ma lo arricchisce
con un’articolata analisi psicologica
delle passioni, indifferenti moralmente per
Aristotele ma considerate buone o cattive da
Agostino, la cui autorità non può
essere ignorata dal teologo nell’ambito
della vita morale. Le passioni, quando siano
messe correttamente in relazione con la ragione
e la volontà, divengono strumento di
una realizzazione della virtù più
pienamente umana di quanto non proponesse l’ideale
stoico dell’apàteia del sapiente.
< testo 4>
La felicità mentale.
L’Etica a Nicomaco non si limitava, però,
all’illustrazione delle virtù che
guidano l’uomo nella sua esistenza naturale
e sociale (virtù, amicizie, piaceri),
ma proponeva, nel X libro, una virtù
di tipo diverso, definita dianoetica, che rappresenta
l’ideale di perfezione somma raggiungibile
dall’uomo: la felicità. Si tratta,
nelle parole di Aristotele, del fine della vita
morale (“Tutte le cose infatti, per così
dire, le scegliamo in vista di altro, eccetto
la felicità; essa infatti è il
fine”, 1176b), definito come “ la
virtù della parte migliore dell’anima”
(1177a) ovvero dell’intelletto, che è
la parte più divina dell’anima.
La suprema virtù è dunque l’attività
contemplativa, la teoresi: nell’interpretazione
più radicale, data dai filosofi della
facoltà di Arti ed espressa nella maniera
più chiara nel trattato Sul sommo bene
di Boezio
di Dacia, è la vita
filosofica <testo 5>. L’ideale
del compimento etico nella vita intellettuale
metteva duplicemente in discussione il fondamento
stesso dell’etica cristiana, l’idea
di salvezza che si raggiunge per grazia divina
nella vita futura, nella visione
di Dio possibile solo dopo la morte: da
una parte, se l’ideale umano è
“dedicarsi alla filosofia” (secondo
la formula usata nella condanna del 1277), esso
è pienamente raggiungibile in questa
vita; dall’altra, non richiede alcun intervento
della grazia, rientrando completamente nelle
possibilità dell’uomo naturale,
attraverso il processo della conoscenza
e la piena realizzazione dell’unione di
intelletto possibile
e intelletto agente. Le ricadute molteplici
di questo ideale etico costituiscono un punto
di svolta nella riflessione filosofica alla
fine del Duecento, legandosi in modo complesso
con temi di natura politica (attraverso la riflessione
di Dante,
che ritiene la piena realizzazione dell’intelletto
opera dell’umanità, non del singolo
uomo) e, sul versante opposto, con l’idea
che la visione di Dio possa essere ottenuta
già in questa terra (nella mistica
beghinale, in Margherita Porete, nella mistica
speculativa). (MP)
Bibliografia
C. Morris, La scoperta dell’Individuo
(1050-1200), Liguori, Napoli1985
M. Lapidge, The Stoic inheritance, in P. Dronke,
A History of Twelfth Century Philosophy, Cambridge
UP, 1984
Ethics (G. Wieland, The reception and interpretation
of Aristotle’s Ethics; G. Wieland, Happiness:
the perfection of man; T. Potts, Conscience;
D.E. Luscombe, Natural morality and Natural
Law), in The Cambridge History of Later Medieval
Philosophy, Cambridge UP, Cambridge 1982
A. De Libera, Penser au Moyen Age, Seuil, Paris
1993
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