Politica
Genesi e struttura del
concetto. Il termine politica designa
quella parte della riflessione filosofica rivolta
all’essenza, origine e valore dello stato.
Il termine può indicare: la dottrina
del diritto e della morale (ovvero la riflessione
intorno al concetto di bene esposta da Aristotele
nell’Etica Nicomachea); la teoria dello
stato (ovvero la descrizione dello stato ideale
e la determinazione del migliore degli stati
possibili), in accordo con la Politica aristotelica;
infine l’arte o la scienza del governo
(esposta nel Politico di Platone, che il mondo
latino medievale non conobbe). L’antropologia
aristotelica, secondo cui l’uomo è
una creatura politica, e la sua analisi delle
differenti forme di governo, insieme alla concezione
agostiniana –essenzialmente negativa-
della città terrena, costituiscono i
cardini della riflessione politica medievale.
La filosofia politica
nell’alto medioevo. A partire dall’VIII
secolo, con il crollo definitivo delle strutture
sociali che avevano caratterizzato la romanità,
si assiste ad un processo di affermazione dell’autorità
papale che raggiunge, con papa Gregorio II (731-41)
e l’episodio della falsa donazione
di Costantino, uno dei suoi momenti di maggiore
intensità. Si origina in questo periodo
e inizia a diffondersi, a partire da ambienti
vicini alla curia pontificia, quella forma di
auto-rappresentazione unitaria dell’Occidente
latino, che sarà destinata a dominare
la riflessione politica medievale. Il progetto
politico papale non prevedeva, in principio,
alcuna esplicita strategia di esclusione o marginalizzazione
del potere imperiale, che cercava piuttosto
di integrare, seppure sotto la specie della
sottomissione al potere del pontefice. In questo
orizzonte politico, al sovrano (cristiano) era
affidato il compito di reggere, guidare e proteggere
il popolo di Cristo nel corso del suo cammino
storico, in una sostanziale convergenza di interessi
fra papato ed impero già visibile nel
regno di Pipino. Con l’avvento di Carlo
Magno, tuttavia, la regalità imperiale
franca riuscì a svincolarsi dalla posizione
di subalternità assunta nei confronti
dell’autorità pontificia, per riconquistare
la pienezza del potere, che si riteneva discendere
direttamente da Dio, anche se attraverso il
tramite del suo vicario terrestre: l’imperatore
si pose anch’esso come vicario di Dio,
giacché il compito a lui affidato (vegliare
sul popolo di Cristo) lo investiva di un carattere
sacrale paragonabile a quello del sacerdozio.
Alcuino
di York descrive esplicitamente le prerogative
di questa figura di imperatore “avvocato
della Chiesa”, “custode dell’ortodossia”
e “modello di tutte le virtù”,
il cui potere non proviene dalla nobiltà
del sangue ma si radica nella fede e nella rettitudine
del suo comportamento, che deve rifuggire la
violenza e perseguire l’umiltà,
la misericordia e la carità, sul modello
dei profeti dell’Antico Testamento. Con
la translatio
imperii ed il rinnovamento della maestà
imperiale romana, concretizzatesi con l’incoronazione
di Carlo Magno nel dicembre dell’800,
si compì il processo di identificazione
fra cristianità ed Impero: lo stato imperiale
divenne, di fatto, il principio ordinatore ed
il fattore di controllo politico della “civitas
terrena” agostiniana, al quale dovevano
sottomettersi tutti gli altri poteri e le altre
forme di organizzazione.
Sviluppo e declino dell’ideologia
regale carolingia. La sopravvivenza e
lo sviluppo di questa ideologia sono testimoniate
dalle opere di numerosi scrittori carolingi:
Smaragdo (m. 830 ca.) e Agobardo di Lione (760-840),
che evidenziano il carattere sacro del potere
imperiale; mentre Giona d’Orléans
(780-842/43), probabilmente influenzato dal
progressivo declino della dinastia di Carlo,
sottolinea invece come – fatte salve le
prerogative imperiali – sia necessario
riconoscere al sacerdozio un ruolo preminente;Incmaro
di Reims (806 ca.- 882 ca.) arriva ad affermare
che l’imperatore è vincolato sia
dalla legge divina che da quella umana: in questa
prospettiva l’unzione sacra, lungi da
renderlo indipendente dal potere papale, lo
vincola ancor più al suo controllo. Sempre
Incmaro chiarifica quali siano i doveri del
sovrano: combattere le guerre giuste contro
gli infedeli e amministrare la giustizia in
modo rigoroso. Al termine della sua parabola
evolutiva, la figura del principe cristiano
carolingio, codificata idealmente dal sinodo
di Magonza dell’813, verrà fortemente
ridimensionata da quello di Santa Macra (881):
l’autorità regale si trova in posizione
nettamente subalterna rispetto a quella pontificia,
e deve fronteggiare non solo gli attacchi della
Chiesa, ma anche quelli di una nobiltà
in forte ascesa.
Il periodo ottoniano
e l’ascesa dell’autorità
pontificia. In questo nuovo quadro di
riferimento il sovrano, esaurita la sua funzione
di guida del popolo di Cristo, dovrà
riconoscere al pontefice il suo ruolo preminente
e la sua indipendenza d’azione: in un
simile contesto, la mediazione operata dal papa
nel conferimento da parte di Dio del potere
regale al sovrano, si configura come una vera
e propria sanzione pontificia dell’autorità
regia. Il ruolo del pontefice come guida universale
e come detentore della potestas di attribuire
il titolo imperiale fu riaffermato già
dai papi Niccolò I (858-867) e Giovanni
VIII (872-882). Gli imperatori del periodo ottoniano,
in special modo Ottone I (912-973, imperatore
dal 962) ed Ottone III (980-1002, imperatore
dal 983), tentarono di restaurare la supremazia
imperiale, ma il loro progetto non andò
in porto; quest’età, anzi, segnò
l’inizio di un periodo di ascesa della
figura pontificia, destinata a prendere il sopravvento
su quella imperiale, come mostrano l’anonimo
“De ordinando pontefice” (1047-48)
e la Disputatio synodalis (1062) di Pier
Damiani. In questo mutato panorama politico,
non solo si dichiarava vana qualsiasi pretesa
imperiale di preminenza nei confronti della
maestà pontificia, ma si arrivava addirittura
negare che al sovrano fosse delegata in toto
l’amministrazione temporale dell’intera
cristianità. La funzione provvidenziale
dell’imperatore rimaneva quella di governare
la cristianità, ma senza autonomia rispetto
al magistero papale e senza più prerogative
di carattere sacrale: esso poteva essere considerato,
tutt’al più, come il primo fra
i principi cristiani. Un’ulteriore limitazione
al potere imperiale è costituita dalla
progressiva affermazione di una variante fortemente
sacralizzata del concetto di “corpo mistico
della Chiesa”: Umberto da Silvacandida
(m. 1061 ca.), ad esempio, nell’Adversus
simoniacos, sottolinea la necessità che
tutti gli elementi che lo compongono, siano
essi principi, ecclesiastici o fedeli, partecipino
dello Spirito Santo in eguale misura. Umberto
ribadisce che nel novero della vita ecclesiastica
è impossibile distinguere in maniera
netta fra ciò che pertiene alla sfera
spirituale e ciò che pertiene a quella
materiale, per quanto la funzione sacra della
chiesa renda opportuno che essa non si comprometta
con la gestione del potere mondano.
Lo scontro fra i due
grandi lumi. Un momento di duro scontro
fra papato ed impero fu quello che vide fronteggiarsi
Gregorio VII (1015/1020-1085, papa dal 1073),
l’energico pontefice autore del Dictatus
papae ed iniziatore della riforma che porta
il suo nome, ed Enrico IV (1050-1106, imperatore
dal 1056). La potestas pontificia rimane l’unica
autorità sia per quanto concerne la materia
spirituale, sia nelle questioni mondane, e il
ruolo del principe diviene talmente marginale
da essere paragonabile a quello di ogni altro
peccatore sulla faccia della terra: il paragone
con i due grandi luminari celesti, il sole e
la luna, costituisce la metafora di questo rapporto.
L’aspra polemica che vide i sostenitori
dell’autorità papale – fra
cui si annoverano Anselmo di Lucca (m. 1083),
Bonizone di Sutri (1045 ca.-1091) e Manegoldo
di Lautenbach (1030/1040-dopo il 1103) –
contrapporsi ai pubblicisti di parte imperiale,
culmina nel celebre concordato di Worms (1122),
che comunque è lungi dal chiudere la
contesa. Anselmo di Havelberg (1099-1158) nei
Dialogi ed in maniera più convinta Ottone
di Frisinga (fra l’altro zio del Barbarossa,
1114-1158) nei Gesta Friderici imperatoris e
nell’Historia de duabus civitatibus, cercano
di rilegittimare l’autorità mondana
dell’imperatore, che partecipa alla realizzazione
del piano provvidenziale stabilito da Dio secondo
la teoria agostiniana delle due città:
ma il quadro di riferimento resta dominato da
una indiscussa supremazia pontificia. Sviluppando
questa linea argomentativa, Onorio Augustodunense
(fine del sec. XI-1157 ca.), nella Summa gloria
arriva a riconoscere all’autorità
dell’imperatore (anche se in maniera indiretta)
addirittura un carattere divino: a questi, infatti
è stata affidata dalla Chiesa la “spada
temporale”, affinché vengano mantenute,
sulla terra, giustizia e ordine. Alla spada
temporale, tuttavia, fa da contrappeso quella
spirituale, che mantiene il potere di destituire
di legittimità il sovrano, qualora deviasse
dal compito affidatogli dal pontefice. Su posizioni
simili si attestano pure Simone di Tournai (“Institutiones
de sacra pagina”, del 1165) e Tommaso
Beckett (1117-1170), che pagherà con
la vita il suo rifiuto nei confronti delle pretese
del re d’Inghilterra Enrico II (1133-1189).
Un convinto sostenitore della separazione del
potere temporale da quello spirituale è
Geroh di Reichesberg (1093-1169): pur condannando
gli ecclesiastici usurpatori di beni e poteri
terreni, e riaffermando l’estraneità
della Chiesa rispetto alle questioni politiche
ed amministrative, egli afferma in modo netto
la supremazia della “spada spirituale”
su quella temporale, in virtù della sua
funzione di salvaguardia dell’ordine morale
e religioso dell’intera comunità
cristiana.
L’età dei
glossatori. Nel mutato quadro socio-politico
dei sec. XI e XII, con la crescita dell’urbanizzazione
e la ripresa dell’economia, il rinvigorirsi
della cultura giuridica romanistica e la ripresa
della concezione carolingia del potere temporale
portano ad una nuova concezione del potere regale,
svincolato dal piano sacrale e carismatico e
fondato sulla legge dell’uomo piuttosto
che su quella di Dio. Un esempio di questo nuovo
milieu intellettuale è costituito dagli
anonimi Trattati di York e dal De consacratione
pontificium et regium, ove il ridimensionamento
dello status del pontefice si accompagna all’affermazione
del primato del potere dei sovrani su quello
dei sacerdoti. Protagonisti di questo nuovo
panorama culturale furono gli esponenti dei
principali centri di elaborazione della nuova
scientia iuris (soprattutto Ravenna e Bologna),
a cui si deve la codifica di quella parte del
diritto nota come ius commune, fondata su un
ordinamento giuridico e legislativo mutuato
dalla romanità imperiale - rappresentata
dal Corpus iuris civilis giustinianeo - e distinta
dalla scienza giuridica elaborata dalla Chiesa.
Secondo i giuristi e glossatori, sussisterebbe
un legame strettissimo fra il concetto di diritto
e la suprema autorità dell’impero:
la figura dell’imperatore tornò
così al centro della scena politica,
riguadagnando le prerogative di autorità
ed autonomia che erano venute a mancarle in
conseguenza della riforma gregoriana.
Il tentativo repubblicano
di Arnaldo da Brescia. A metà
del XII sec., anche a causa dei mutamenti avvenuti
sul piano socio-politico, un tentativo non solo
teorico di ridefinire il concetto stesso di
diritto alla sovranità ebbe come protagonista
Arnaldo da Brescia (fine dell’XI sec.-1155),
il quale propendeva per una ferma rinuncia da
parte della Chiesa ad ogni compromissione con
l’ambito del potere temporale, pur non
individuando il legittimo detentore di esso
nella figura dell’imperatore, quanto piuttosto
nel popolo, che all’imperatore lo trasferisce
mediante la lex. La vicenda di Arnaldo ed il
suo esperimento repubblicano terminarono tuttavia
presto, quando - nel 1155 - venne condannato
al rogo come eretico, anche grazie al decisivo
sostegno garantito da Federico Barbarossa, fondatore
della dinastia degli Hohenstaufen, al papa Eugenio
III.
Il declino dell’istituzione
imperiale ed il ritorno di Aristotele.
In seguito al sostanziale fallimento del tentativo
messo in atto dagli Hohenstaufen per consolidare
la struttura istituzionale dell’impero
e trasformarlo in una forma stabile di amministrazione
statale, si assiste ad un progressivo declino
dell’autorità imperiale, a vantaggio
di nuove entità politico-istituzionali:
le nascenti realtà comunali italiane
e tedesche e le grandi monarchie di Francia
ed Inghilterra. Anche il panorama intellettuale
subisce notevoli modifiche: a partire dal recupero
del sapere di matrice greca ed araba e dalla
nascita dell’istituzione
universitaria. La mentalità agostiniana,
per cui l’istituzione statale era una
sorta di male necessario, connaturato alla natura
umana, lasciò progressivamente spazio
alla componente empirica del pensiero aristotelico:
la diffusione di opere come l'Etica Nicomachea
e la Politica contribuì a far sì
che le forme di amministrazione statale fossero
oggetto di attenzione in sé, piuttosto
che considerate ombre scomposte della città
celeste agostiniana.
La scuola domenicana.
Il rinnovato statuto epistemologico del concetto
di politica fu variamente declinato dai maggiori
pensatori del XIII secolo. Mentre al centro
dell’impianto teorico del domenicano Tolomeo
da Lucca (m. 1326) - continuatore del “De
regimine principum” di Tommaso
d’Aquino - rimase la concezione agostiniana,
(tanto da relegare l’influenza esercitata
dal nuovo corso scolastico al solo livello linguistico),
un altro esponente della medesima scuola, Remigio
de’Girolami (1247 ca.-1319), dedicò
maggiore attenzione allo sviluppo delle nuove
realtà comunali. Remigio, autore del
De bono pacis e del De bono communi, elabora
una teoria politica ove l’uomo è
concepito aristotelicamente come animale politico,
il cui polo di aggregazione naturale sono le
nascenti realtà cittadine e comunali.
Lo stato immaginato da Remigio, tuttavia, è
una istituzione di matrice cristiana, il cui
governo deve essere ispirato a principi di giustizia
ed eguaglianza, in vista della redenzione dal
peccato. Due sono le finalità dello stato:
una schiettamente terrena, ed una più
marcatamente sovrannaturale. Per conseguire
il fine sovrannaturale, ossia la pace spiritualeè
necessario che sia raggiunta e mantenuta la
pace temporale: questo compito è affidato
alla spada temporale del principe, sull’operato
del quale vigila la figura del papa, dotata
di una autorità morale e spirituale indiscussa
e in grado di intervenire in questioni di carattere
mondano e temporale affinché questo equilibrio
non sia messo in pericolo da una poco consona
condotta da parte del potere politico.
La crisi dei due grandi
lumi. Il progressivo declino dei due
grandi universalismi che avevano dominato il
panorama intellettuale e politico nel periodo
precedente – rappresentati dal papato
e dall’ impero – coincide con una
crescente legittimazione, sul piano politico,
dei comuni e delle grandi monarchie. Proprio
di queste ultime forme di organizzazione statale
e di governo si occupò Egidio
Romano, che nel De regimine principum (1277-79)
elabora una teoria politica di stampo monarchico,
mutuando elementi derivanti dalla tradizione
politica aristotelica e da quella agostiniana.
Lo stato monarchico è l’unica formazione
istituzionale in grado di garantire all’uomo
una vita virtuosa: senza una forma di governo
che mitighi i tratti più deteriori della
natura umana, infatti, anche la società
più virtuosa rischierebbe di degenerare
in breve tempo. Si rende perciò necessaria
una sovranità – quasi incarnazione
dello spirito della legge - svincolata da qualsiasi
altra forma di amministrazione, di legislazione
e di potere (sia essa politica o spirituale),
che si ponga come medium vivente fra la legge
naturale ed eterna stabilita da Dio e la legge
positiva, sua attuazione terrena.
Un ulteriore esempio di difesa delle prerogative
del potere regio è costituito dall’opera
del francese Giovanni Quidort (Giovanni da Parigi,
1269-1306): nel suo De potestate regia et papali
(1302-3), sono riaffermate in maniera decisa
le prerogative del re, mentre vengono aspramente
criticate le velleità pontificie. Al
vescovo di Roma non può essere riconosciuto
alcun potere circa la designazione dei sovrani
temporali, scelti da popolo ed investiti direttamente
da Dio. A fondamento della teoria di Giovanni
si trovano ancora una volta caratteri aristotelici,
venati da concezioni politiche di stampo democratico
e popolare: la migliore forma di governo è
per lui quella mista, in cui la componente popolare
faccia da contrappeso all’autorità
del sovrano e dell’aristocrazia, mentre
la netta divisione di poteri fra il pontefice
e il sovrano mira soprattutto a mettere al riparo
quest’ultimo dalla pretesa pontificia
di poter deporre il principe la cui condotta
fosse stata giudicata insoddisfacente. La facoltà
di deporre un sovrano è, secondo Giovanni,
di esclusivo appannaggio di coloro che lo hanno
idealmente issato sul trono, mentre all’imperatore
va riconosciuta la possibilità di esimere
il suo popolo dal vincolo di obbedienza nei
confronti di un papa che si sia macchiato di
colpe gravi, e quella di invitare il concilio
- o i cardinali che hanno eletto il pontefice-
a deporlo. Alla limitazione dell’autonomia
del pontefice sul piano eminentemente politico
va ad aggiungersi il tentativo di minare la
predominanza (anche simbolica) del vescovo di
Roma, persino nell’ambito delle questioni
teologiche.
Nello scontro fra pubblicisti di parte regale
e pontificia interviene anche Egidio Romano,
a distanza di vent’anni dal De regimine
principum (1277-79). Modificando profondamente
la propria posizione, nel trattato De potestate
ecclesiastica, del 1301, Egidio difende posizioni
di stampo ierocratico, sostenendo l’assoluta
superiorità dell’autorità
pontificia nei confronti di qualsiasi altra
forma di potere. L’argomentazione, venata
di agostinismo e non priva di frequenti richiami
alla simbologia biblica, ove il sostrato filosofico
della questione rimane solo accennato, si pone
su un piano di contiguità rispetto alla
contemporanea polemistica politica (in particolare
autori come Enrico di Cremona, m.1312; Jacopo
Capocci di Viterbo, m.1308; Agostino Trionfo,1243-1328)
ed in linea di continuità con il dettato
pontificio di alcune celebri bolle di Bonifacio
VIII (“Unam Sanctam” [1302], “Ausculta
filii” [1301]). Pur non potendo analizzare
nello specifico la posizione assunta da Dante
Alighieri all’interno di questa controversia,
è indispensabile ricordare come la sua
“Monarchia” (1311-13), ove la reciproca
autonomia del potere imperiale e di quello papale
dà vita alla metafora dei 'due soli',
sia stata considerata un’opera eretica,
tacciata di averroismo, addirittura condannata
formalmente nel 1328 dal cardinale Bertrand
de Poujet e posta al rogo.
Marsilio da Padova e
la concezione terrena dello Stato. Una
reazione di simile durezza fu riservata a Marsilio
de’ Mainardini (Marsilio da Padova)
ed alla sua opera. Nella teoria politica elaborata
da Marsilio, stato ed impero non hanno finalità
etiche o religiose: il loro unico – per
quanto insostituibile – valore risiede
nel fatto che queste forme di convivenza sono
fondamentali per il mantenimento di quella condizione
di pace generale (definita anche “salute”
oppure “buona disposizione”) che
è necessaria per la sopravvivenza del
genere umano. Nel Defensor pacis (1324), infatti,
si trova una ampia e sistematica trattazione
della teoria dello Stato (aristotelicamente
deifinita “politia”) e dei rapporti
che debbono intercorrere fra la società
politica e la comunità dei fedeli. Il
contesto socio-politico in cui Marsilio si trova
ad operare, forse più della stessa lettera
dell’opera, può indurre a pensare
che – fatte salve le prerogative genuinamente
democratiche del modello di Stato da lui concepito
– la sua idea di popolo possa essere rappresentata
da “quella parte di cittadini naturalmente
sana e non deformata”: tuttavia nel Defensor
non ci si sofferma esplicitamente né
sulla forma di governo da preferire né
sui criteri per la sua nomina. Appare certo,
invece, che all’interno dell’organizzazione
dello Stato il potere deve rimanere unico ed
indivisibile, con l’ovvia conseguenza
che ogni velleità ecclesiastica rimane
frustrata. In questa prospettiva le pretese
ierocratiche avanzate dalla gerarchia ecclesiastica
risultano del tutto prive di fondamento, e di
pertinenza della chiesa rimane la sola funzione
evangelizzatrice: la predominanza della figura
del pontefice risulta perciò fortemente
ridimensionata, a tutto vantaggio dell’istituto
conciliare, che rimane tuttavia assolutamente
privo di potere coercitivo in ambito mondano.
Le tesi di Marsilio vennero immediatamente condannate
negli ambienti vicini alla curia pontificia,
soprattutto in autori come Guglielmo Amidani
di Cremona o Alvaro Pelagio (autore di un De
planctu Ecclesiae), strenui oppositori della
visio politica elaborata da Marsilio. Essa tuttavia
non rimase confinata nel novero della speculazione
teorica, ma ebbe riflessi pratici molto importanti:
Marsilio, infatti, nel 1328 fu l’organizzatore
della cerimonia con cui Ludovico il Bavaro venne
incoronato imperatore per mano di Sciarra Colonna,
rappresentante del popolo romano, unico detentore
della potestas di attribuzione del potere imperiale.
La concezione terrena dello Stato codificata
da Marsilio, sebbene fortemente avversata dagli
ambienti filo-papali, godette di ampia popolarità
non solo fra i suoi contemporanei, ma contribuì
in maniera decisiva allo sviluppo del dibattito
intorno alle dottrine politiche per tutto l’Umanesimo
– passando per l’età della
Riforma – e fino al XVII secolo. (EDI)
Bibliografia
Testi
Smaragdus Sancti Michaelis Virdunensis, Via
regia PL 102, coll. 931-970
Agobardus Lugdunensis, Epistolae, MGH Epistolae
V, pp. 158-64
Ionas Aurelianensis, De institutione regia,
PL 106, coll. 279-306
Incmarus Remensis, De regis persona et regio
ministerio, PL 125, coll. 69-86
De ordinando pontefice, MGH, Libelli de lite
I, pp. 8-14
Petrus Damiani, Disceptatio synodalis, MGH,
Libelli de lite I, pp. 76-94
Humbertus Silvae Candidae, Adversus simoniacos,
MGH, Libelli de lite I, pp. 95-253
Otto I Frisingensis, Gesta Friderici I imperatoris,
MGH, Scriptores rerum Germanicarum in usum scholarum
separatim editi 27
Otto I Frisingensis, Historia de duabus civitatibus,
MGH, Scriptores rerum Germanicarum in usum scholarum
separatim editi 45
Honorius Augustodunensis, Summa gloria, MGH,
Libelli de lite III, pp. 63-80, 1897
Simon Tornacensis, Institutiones de sacra pagina,
Veröffentlichungen des Grabmann-Instituts
1 (1967)
Geroh di Reichesberg, De aedificio Christi,
PL 194, coll. 1187-1336
Gerhohus Reicherspergensis, De ordine donorum
Spiriti Sancti, MGH, Libelli de lite III, pp.
273-83
Gerhohus Reicherspergensis “De investigatione
Antichristi” PL 194, coll. 1445-1480 (excerpta)
– MGH, Libelli de lite, III, pp. 305-95
(l. I)
Tractatus Eboracenses, MGH, Libelli de lite,
III, pp. 642-86
De consecratione pontificium et regium, MGH,
Libelli de lite, III, pp. 662-79
Thomas de Aquino, De regimine principum
Remigius Girolami, De bono pacis, De bono communi
in Emilio Panella, Dal bene comune al bene del
Comune. I trattati politici di Remigio dei Girolami
nella Firenze dei bianchi-neri, “Memorie
domenicane” 16 (1985) pp. 1-198
Aegidius Romanus Opera omnia, cur. F. Del Punta
– G. Fioravanti, Firenze 1987
Iohannes Quidort, De potestate regia et papali,
in J. Leclercq, Jean de Paris et l’ecclésiologie
du XIIIe siecle, Paris 1942
Dantes Alagherii, Monarchia, Edizione Nazionale
a cura della Società Dantesca Italiana
5, Milano 1965
Marsilius de Padua, Defensor pacis, MGH Fontes
iuris germanici antiqui in usum scholarum separatim
editi 7
Studi
Figure della guerra. La riflessione su pace,
conflitto e giustizia tra Medioevo e prima età
moderna cur. M. Scattola, Milano 2003
A. Passerin d'Entrèves “Saggi di
storia del pensiero politico dal Medioevo alla
società contemporanea” cur. G.M.
Bravo, Milano 1992
“Specula principum” cur. A De Benedictis,
Frankfurt a.M. 1999
A.S. Brett “Liberty, Right and Nature.
Individual Rights in Later Scholastic Thought”
Cambridge 1997
A. Dempf “Sacrum imperium. La filosofia
della storia e dello stato nel Medioevo e nella
Rinascenza politica” praef. F. Cardini,
Firenze 1988
G. Vaiarelli - E. Guarneri – P.P. Portinaro
“Il potere in discussione. Lineamenti
di filosofia della politica” Palermo 1992
C.H. Dawson “Church and State in the Middle
Ages” in “Medieval Essays”
praef. J.F. Boyle, Washington, DC, 2002
Alberto Di Bello “«Auctoritas»
e «Potestas» come termini chiave
nell'edificazione della monarchia pontificia
medievale. Un tentativo di analisi semantica”
“Filosofia politica” 15 (2001).
|