Linea dorata

Giovanni Scoto Eriugena

Vita e opere. Giovanni Scoto Eriugena, il filosofo più rilevante nell'ambito della cosiddetta "rinascenza carolingia", sintetizzò nella sua opera la tradizione teologica agostiniana con gli sviluppi teologico-speculativi prodottisi in ambito greco-bizantino. Formatosi nel contesto della cultura irlandese, abbiamo scarse notizie di lui e dell’ambiente culturale da cui proveniva. Nato probabilmente tra l'800 e l'810 e trasferitosi dall'Irlanda nel continente negli anni Venti dell'Ottocento, iniziò la sua carriera di maestro di arti liberali negli anni '30 e divenne maestro di Palazzo alla Corte di Carlo il Calvo nei primi anni '40. Il primo riferimento cronologico sicuro risale all'850-851, quando venne coinvolto nella disputa sulla predestinazione. Prima di questa data scrisse le Glossae diuinae historiae (commento in forma di glosse alla Bibbia) e i commenti collegati all'insegnamento delle arti liberali (Annotationes in Marcianum, glosse al De nuptiis Philologiae et Mercurii di Marziano Capella) e probabilmente un commento alle opere grammaticali di Prisciano. Conoscendo il greco, tradusse alcune importanti opere di Padri della Chiesa orientale: il corpus degli scritti attribuiti a Dionigi l'Areopagita, alcune opere di esegesi dottrinale prodotte da Massimo il Confessore (Ambigua ad Iohannem; Quaestiones ad Thalassium), e il trattato antropologico di Gregorio di Nissa noto come De opificio hominis. Il prolungato contatto con un patrimonio testuale con cui la stessa teologia bizantina si sarebbe misurata per diversi secoli contribuì ad arricchire la vastità e l'originalità degli interessi speculativi di Giovanni Scoto. Risultato di ciò furono le grandi opere della maturità: il Periphyseon (864-866; noto anche come De divisione naturae, sebbene il titolo corretto dell'opera sia quello in greco traslitterato); le Expositiones in ierarchiam coelestem (865-70), commentario al primo degli scritti del Corpus dionysiacum, ove accanto alla spiegazione filologica della terminologia svolge un’esegesi dottrinale che permette una ricostruzione delle linee fondamentali della teologia dionisiana; l'omelia Vox spiritualis aquilae sul prologo del vangelo di Giovanni (870-872), che offre una sintesi dei temi fondamentali della teologia eriugeniana; e il commentario allo stesso vangelo di Giovanni (875-877). Tra le altre opere, oltre a un commentario al vangelo di Matteo giuntoci frammentario e a un perduto trattato sulla visione di Dio, si ricorda una consistente produzione poetica caratterizzata dal bilinguismo latino-greco e dalla preponderanza di temi filosofici e teologici. Non abbiamo notizie circa l'ultima fase della vita di Giovanni Scoto, di cui si perdono le tracce dall'877 ca.

Predestinazione e libertà. Per sostenere la sua tesi sulla doppia predestinazione Gotescalco d’Orbai aveva utilizzato argomenti grammaticali. Giovanni Scoto, interpellato in qualità di maestro di arti liberali con il compito di confutare Gotescalco sullo stesso terreno delle argomentazioni grammaticali, non si limitò ad assolvere al suo compito di "specialista", ma elaborò un'opera (De praedestinatione) di ampio respiro, muovendo dal principio epistemologico per cui "la vera filosofia è la vera religione e viceversa", e proponendo un'argomentazione in cui si intrecciano esegesi delle auctoritates, deduzioni sillogistiche a partire dalle dottrine di fede e speculazione teologica. Eriugena utilizzò il problema teologico della prescienza e della predestinazione divina come chiave per elaborare una sintesi speculativa in cui inquadrare la totalità delle cose che sono (quae sunt) e delle cose che non sono (quae non sunt); e affrontò una serie di problematiche classiche del pensiero cristiano (la conciliabilità tra la bontà divina e l'esistenza del male, la natura del peccato e del castigo, il problema del fuoco eterno e la sussistenza escatologica delle creature) mediante una rigorosa applicazione delle tecniche delle arti del trivium (grammatica, retorica, dialettica) al discorso teologico, utilizzando le verità di fede come primo termine dell'argomentazione sillogistica per arrivare, attraverso la corretta interpretazione delle parole e dei significati del discorso, a definizioni certe e verificate sulla base delle regole del ragionamento. Confutò la teoria della doppia predestinazione mostrando dialetticamente che una simile ipotesi comporterebbe l'introduzione di una doppia volontà in Dio e la conseguente negazione dell'assoluta semplicità divina; e sostenendo che le auctoritates devono essere interpretate alla luce delle regole della retorica, sicché in tutti i punti dove il discorso sembra far allusione a una doppia predestinazione Giovanni Scoto mostra come l'auctoritas in realtà parli per antifrasi di una unica predestinazione nel bene. Per illustrare i rapporti tra predestinazione divina e libertà umana Giovanni Scoto si riferisce alla teoria dell'ordine universale, letta in prospettiva ontologica: la prescienza divina, che pone i limiti dell'ordine universale della creazione e dell'ordine particolare delle creature, ha come fine la preservazione ontologica della creatura stessa. La condizione di miseria in cui una creatura può cadere col peccato è da imputare alla creatura stessa, che sceglie nel suo libero moto (ovvero attraverso il suo libero arbitrio, definito come moto della volontà umana) quale posizione dell'ordine universale occupare: una persona che si ostinasse a fissare il sole si rovinerebbe la vista, scrive Scoto, ma non per questo il sole andrebbe additato come un male. Sul piano cosmologico, la teoria dell'ordine implica la negazione di un luogo dell'universo deputato alla pena; Scoto afferma inoltre che nel fuoco eterno "si realizza da un lato la meravigliosa gioia delle nature e dall'altra l'inesprimibile tormento delle volontà malvagie". (XIX.3)

La natura. La complessità dell'opera maggiore di Giovanni Scoto, il Periphyseon, è accentuata dal fatto che il testo che abbiamo sembra essere una redazione non definitiva. Si tratta di un dialogo tra maestro (Nutritor) e discepolo (Alumnus), figure della ragione che sprona se stessa a oltrepassare i limiti delle modalità di conoscenza che le sono propri, per avvicinarsi agli oggetti di conoscenza di cui l'opera intende trattare: la totalità delle cose, nei loro reciproci rapporti intensivi ed estensivi, nonché nella loro unitarietà prima ed ultima. Il filosofo che riflette, utilizzando la dialettica, intorno alla principale divisione dell'intera realtà riconosce che il dominio dell’ontologia (le cose che sono) e quello della meontologia (le cose che non sono) hanno la loro unità in un genere universale che li raccoglie alla stregua di specie, e chiama questo supremo grado unitario di realtà 'natura'. Applicando poi da teologo la dialettica al concetto di natura, arriva al fondamento della prospettiva dottrinale cristiana, cioè la divisione e la relazione tra increato e creato. Entro questa prospettiva il genere natura viene diviso nelle quattro specie che ne esauriscono le possibilità di divisione: natura non creata creante, natura creata creante, natura creata non creante, natura non creata non creante. Nella prima si intende Dio nella sua funzione di creatore della totalità delle cose; nella seconda si intendono le cause primordiali, create, in quanto prima espressione nella molteplicità della potenza disposta nel Verbo di Dio, e creatrici, in quanto modelli delle cose che verranno create nel mondo fisico; quest’ultimo è il livello di realtà che costituisce la terza natura, cioè la manifestazione corporea della natura creata, la discesa nella materia delle cause creatrici; l'ultima specie di natura è Dio come fine ultimo di ogni cosa e somma unità di ogni natura. Questo schema ritrae la tensione 'naturale’tra increato e creato, che si sviluppa da una parte come estensione dell'increato nel creato e dall'altra come intensione del creato verso l'increato. Questo duplice moto è descritto attraverso i termini di processio e reditus: possiamo dunque considerare il Periphyseon come il percorso speculativo intorno alla processio naturae e al reditus naturae. Dal punto di vista teologico la quadripartizione delle nature implica un duplice approccio, mutuato dallo ps.-Dionigi: la via affermativa (catafatica), che riguarda ciò che Dio è nella sua relazione con la creazione, e lo conosce in quanto essere creante; e la via negativa (apofatica), che considerando Dio in quanto essere increato non creante, nega che possa essere conosciuto in relazione alla creazione.

La conoscenza. La gnoseologia eriugeniana deve essere compresa alla luce di questa duplicità di prospettive, tenendo sempre presente che la conoscenza per negazione è quella che pertiene alla realtà nel suo più sommo grado: la conoscenza di una cosa è infatti la manifestazione parziale di ciò che di essa non è conoscibile in sé, ovvero l'essenza della cosa stessa, mentre la vera conoscenza dell'essenza non potrà che essere non-conoscenza. In Dio la conoscenza delle cose è causa dell'essere delle cose stesse; ma siccome in Dio tutte le cose sono conosciute prima che vengano all'essere, allora la conoscenza che Dio ha delle cose non è una conoscenza del loro essere bensì del loro non-essere. In quest'ottica le creature vengono intese come teophaniae delle nozioni che Dio ha di tutte le cose, e che costituiscono le essenze individuali delle cose stesse; le creature, presenti essenzialmente in Dio, si intendono come manifestazioni di Dio nell'ambito della molteplicità creata. Per Giovanni Scoto l'essenza è conoscibile solo in quanto è (quia est), ma non in ciò che è (quid est), in quanto l'essenza è indefinibile (il quid est riguarda infatti gli attributi dell'essenza, che la definiscono ma restano estranei a ciò che essa è in sé). Dio, inconoscibile in sé in quanto essenza super-essenziale priva di attributi propri, di conseguenza viene conosciuto indirettamente dalle creature attraverso le teofanie, ovvero manifestazioni per attributi nella forma creaturale. L'essere delle cose è dunque manifestazione di ciò che le cose non-sono in Dio, ovvero declinazioni affermative di ciò che in riferimento a Dio va predicato in negativo. L'identità generalissima delle cose nell'intelletto divino, la cui facoltà conoscitiva è detta virtus gnostica, e la divisione tra il non-essere delle cose in Dio e il loro essere nella loro condizione creata, garantisce la radicale differenza tra Dio e il mondo. Se non si tengono presenti entrambi gli aspetti, è impossibile comprendere il vero nesso di unità e al contempo di diversità che sussiste tra Dio e la creazione: questa incomprensione attirò sull'opera di Giovanni Scoto l'accusa di panteismo. Il problema del reditus delle nature alla quarta species, che Giovanni Scoto riconnette a più riprese alla sentenza paolina "Deus omnia in omnibus" (I Cor 15, 28) si risolve nel contesto di questa comprensione della sussistenza delle essenze nella super-essenza divina: "l'essere di tutte le cose è infatti la divinità sopra l'essere" .

“Maschio e femmina li creò.” Applicando la propria esegesi alla cosmogenesi antropocentrica presentata dalla Scrittura, Giovanni Scoto identifica nella "doppia creazione" dell'uomo di cui narra la Genesi (1, 26 e 2, 7) le fasi di un processo a cui la rivelazione allude velatamente, ma che il teologo ha il compito di portare pienamente alla luce: appoggiandosi agli insegnamenti di Massimo il Confessore, Eriugena inserisce il racconto biblico all'interno di una quintuplice divisione della natura umana in una serie di generi e specie, nella quale l'intera creazione trova realizzazione progressiva in modalità esistenziali nuove. Queste vengono attualizzate nella divisione del genere in due specie subordinate, dipanandosi entro i due poli creati in principio da Dio, ovvero il "cielo e la terra" (Gn I, 1), nei quali Giovanni Scoto riconosce le cause di tutte le realtà intelligibili e le cause di tutte le realtà corporee. Le cinque divisioni del genere umano, definite secondo lo schema dell’albero di Porfirio (la specie diventa genere della successiva divisione), costituiscono una progressiva divisione della realtà creaturale dalla sua condizione spirituale e incorporea alla sua condizione sensibile e corporea; esse sono: natura non creata e natura creata, intelligibile e sensibile, cielo e terra, paradiso e mondo, maschio e femmina. La divisione dell'uomo nei due sessi costituisce dunque l'estremo gradino della discesa della natura umana nella condizione più grossolana e corporea della creazione, e al contempo la completa attualizzazione della sua potenza del suo essere. La divisione dei sessi porta tuttavia l'uomo a partecipare della modalità di riproduzione degli animali bruti, svilendo l'eccellenza della sua primigenia condizione, nella quale avrebbe potuto ottemperare al comandamento di crescere e moltiplicarsi (cfr. Gn 1, 28) secondo la modalità di riproduzione propria degli angeli – tema che Giovanni Scoto riprende dal De imagine di Gregorio di Nissa.

Caduta e ritorno. Dal punto di vista ontologico, il processo di caduta è l’attualizzazione di un effetto potenzialmente contenuto nella sua causa e, pertanto, gli effetti delle cadute (divisioni successive) della natura umana non possono essere mali, per quanto sia cattivo il moto della coscienza che sceglie di disporsi su un livello ontologico inferiore. Il reditus è dunque ritorno degli effetti alle loro cause, “riunificazione (adunatio) di tutte le creature nelle proprie ragioni (rationes) e cause”. La prima fase ne è il ritorno della terza specie della natura (creata non creans: il mondo sensibile) alla seconda (creata creans: le cause primordiali). Ad essa seguono il reditus generalis e il reditus specialis. Il primo è il ritorno “delle cause e dei principi (rationes) nel Verbo di Dio unigenito, nel quale sono state fatte e sussitono tutte le cose”; e poiché conseguenza principale della cacciata di Adamo ed Eva dal paradiso era stata la perdita del corpo spirituale, che verrà riscattato da Cristo risorto e guadagnato dagli eletti dopo la risurrezione universale del genere umano. In essa consiste il reditus generalis, in cui l’intera natura umana sarà salvata in Cristo, ma solo gli eletti meriteranno il reditus specialis, la perfetta unione con la natura divina e il mantenimento della loro sostanza personale, oltre alla sostanza generale della natura umana.

Deificatio. In chiusura del quinto libro del Periphyseon, per illustrare le due specie del reditus Giovanni Scoto si avvale dell'esegesi di due passi tratti dalla rivelazione, rispettivamente dall'Antico Testamento (Gn I) – il racconto della creazione di Adamo nel paradiso –, e dal Nuovo testamento (Mt 25) – la parabola delle dieci vergini. Nel primo caso la creazione di Adamo nel paradiso viene interpretata come la condizione perfetta della natura umana, mentre nella proibizione di "mangiare il frutto dell'albero della vita" (cioè partecipare al Verbo di Dio) viene inteso il dono della deificazione che verrà concesso ai soli eletti. Analogamente, nella parabola delle dieci vergini Giovanni Scoto vede allegorizzata l'intera umanità, che sarà divisa tra coloro che godranno della salvezza nel ritorno (reditus generalis) della natura umana alla sua condizione primigenia (simbolizzati dalle "vergini stolte") e gli eletti (simbolizzati dalle "vergini prudenti") che invece saranno elevati (reditus specialis) oltre la natura umana nella deificazione. Vediamo dunque come Giovanni Scoto muova la sua speculazione senza soluzione di continuità rispetto al dato scritturistico, in base al quale costruisce le sue argomentazioni teoretiche, e a cui torna per illustrarne e corroborarne i risultati. Nell’Omelia sul prologo di Giovanni l'uomo divinizzato che ha spinto la propria contemplazione al di sopra di ogni intelligenza e di ogni significato, cogliendo il Verbo "in principio presso Dio” è raffigurato nel volo dell'"aquila spirituale" – figura in cui riconosciamo l'evangelista stesso, capace di andare oltre la natura umana, realizzando la perfetta unione con Dio e divinizzazione di sé. Rimandando al fondamentale teologumeno del rapporto natura-grazia, anche nell'Omelia Eriugena precisa che la divinizzazione di Giovanni oltre la natura umana avviene per grazia del Verbo, tema che aveva già affrontato nel Periphyseon, ove affermava che “la natura è ciò che è dato, la grazia invece è dono”.

Ragione e fede. Il fondamento della speculazione eriugeniana è la Sacra Scrittura e la storia della salvezza che in essa si narra; in questo Giovanni Scoto è del tutto coerente con la prospettiva epistemologia patristica e alto-medievale che vede la teologia come speculazione disciplinare strettamente legata ai dati della Rivelazione biblica. La metodologia esegetica basata sull'applicazione delle arti liberali alla speculazione teologica si giustifica dunque come strumento per estrapolare dalla Scrittura l'insegnamento teologico velato nel linguaggio allegorico-simbolico. In questa luce il cammino di processio-reditus vede come protagonisti il Creatore, che dispone la sua immagine somigliante come centro della creazione, e la creatura, che si allontana dalla volontà del Creatore, pervertendo l'immagine divina disposta in sé, venendo infine ricondotta allo stato di felicità iniziale attraverso una graduale serie di teofanie che ha culmine nell'Incarnazione del Verbo divino; in essa l’unione indissolubile nella persona di Cristo tra la natura divina increata e la natura umana creata, restituita al suo stato di perfezione primordiale mediante la Resurrezione, si pone come premessa alla divinizzazione dell'uomo (deificatio, théosis). Nell’Omelia sul prologo di Giovanni il rapporto tra fede e conoscenza è raffigurato nell'episodio di Giovanni e Pietro che corrono al sepolcro di Cristo risorto: Giovanni è visto come simbolo della contemplazione che raggiunge il sepolcro prima dell'azione, simbolizzata da Pietro; tuttavia Pietro, che è anche simbolo della fede, entra prima di Giovanni (l'intelletto) all’interno del sepolcro, ribadendo la tradizionale gerarchia cristiana della ascesa della conoscenza a Dio, quale la tradizione esegetica patristica e medievale ha letto nel versetto di Is 7, 9: "Nisi credideritis, non intelligetis". (ESM)

Bibliografia

Edizioni
Annotationes in Marcianum, ed. Cora E. Lutz, The Mediaeval Academy of America, Cambridge (Mass.), 1939.
Iohannis Scotti Eriugenae Carmina, ed. by Michael W. Herren, Dublin Institute for Advanced Studies (Scriptores Latini Hiberniae 12), Dublin, 1993.
Iohannis Scotti Commentarius in Euangelium Iohannis, PL 122; ed. É. Jeauneau, SC 180, Paris, 1972.
De praedestinatione; ed. Heinrich Joseph Floss, PL 122, 347-440 (1853). De diuina praedestinatione liber, ed. Goulven Madec, Turnhout, Brepols, 1978 (Corpus Christianorum Continuatio mediaevalis 50); ed. E. Mainoldi, Firenze, SISMEL-Edizioni del Glluzzo, 2003 (Per Verba 18).
Expositiones in lerarchiam coelestem, ed. Jeanne Barbet, (Corpus Christianorum Continuatio mediaevalis 31).
Glossae divinae historiae. The Biblical Glosses of John Scottus Eriugena, John J. Contreni-Pádraig Ó'Néill (ed.), SISMEL - Edizioni del Galluzzo, Firenze, 1997.
Glosae Martiani, in: Édouard Jeauneau, Quatre thèmes érigéniens, 1978, pp. 91-184;
Omelia Iohannis Scoti translatoris Ierarchiae Dionisii, PL 122; ed. É. Jeauneau, SC 151, Paris, 1969.
Opera omnia, ed. H.J. Floss, Patrologia Latina 122.
Periphyseon libri V (De divisione naturae), libb. I-V PL 122; libb. I-IV ed. I.P. Sheldon-Williams - L.Bieler - É. Jeauneau, Dublin, 1968-1996; ed. É. Jeauneau, libb. I-V, (Corpus Christianorum Continuatio mediaevalis 161-164).

Traduzioni italiane
Il prologo di Giovanni, a cura di Marta Cristiani, Fondazione Lorenzo Valla-Mondadori, Milano, 1987.
De praedestinatione liber. Dialettica e teologia all'apogeo della rinascenza carolingia, a cura di Ernesto Mainoldi, SISMEL-Edizioni del Glluzzo, Firenze, 2003 (Per Verba 18).

Studi
Werner Beierwaltes, Eriugena. I fondamenti del suo pensiero, a cura di E. Peroli, Vita e Pensiero, Milano, 1998.
Marta Cristiani, L'universo spazio-temporale di Giovanni Eriugena, in Sentimento del tempo e periodizzazione della storia nel medioevo. Atti del Convegno internazionale. Todi, 10-12 ottobre 1999, Centro italiano di studi sull'Alto Medioevo, Spoleto, 2000, pp. 73-105.
Ead., Dall'unanimitas all'universitas. Da Alcuino a Giovanni Eriugena. Lineamenti ideologici e terminologia politica della cultura del secolo IX, Istituto Storico Italiano per il Medioevo, Roma, 1978.
Giulio d'Onofrio, Giovanni Scoto Eriugena, in Storia della teologia nel Medioevo, Piemme, Casale, 1996, I
Id., Oltre la teologia. Per una lettura dell'"Omelia" di Giovanni Scoto Eriugena sul Prologo del Quarto Vangelo, "Studi Medievali", 31 (1990), pp. 285-356.
Giovanni Scoto nel suo tempo: l'organizzazione del sapere in età carolingia. Atti del XXIV Convegno storico internazionale. Todi 11-14 ottobre 1987, a cura di C. Leonardi-E. Menestò, Centro Italiano di Studi sull'Alto Medioevo, Spoleto, 1989 (Atti dei convegni dell'Accademia Tudertina e del Centro di studi sulla spiritualità medievale dell'Università degli studi di Perugia. N.S. 1)
Édouard Jeauneau, Études érigéniennes, Institut d'Études Augustiniennes, Paris, 1987.

Risorse on-line
http://www.fh-augsburg.de/~harsch/Chronologia/Lspost09/Eriugena/eri_intr.html
http://www.filosofico.net/scoto1.htm
http://plato.stanford.edu/entries/scottus-eriugena/
http://www.wise.virginia.edu/philosophy/phil205/Eriugena.htm

 

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