Linea dorata

Giovanni Duns Scoto

Vita. Giovanni Duns Scoto, francescano di origine scozzese, nacque fra il 1265 e il 1270 e morì nel 1308. La sua breve vita fu tutta spesa nell’insegnamento, negli anni del vivace conflitto dottrinale tra quanti parteggiavano per la sintesi aristotelico-cristiana di Tommaso e quanti, soprattutto teologi, la contrastavano. Studiò ad Oxford e poi a Parigi; insegnò ad Oxford (1300-1302), a Parigi (1305-1307) e a Colonia nell’ultimo anno di vita. Scrisse di logica, nella forma di commenti e quaestiones sulle opere aristoteliche e su Porfirio; fra le opere di metafisica si ricordano le Quaestiones super de anima e le Quaestiones super libros Metaphysicorum Aristotelis, un trattato De primo rerum omnium principio, le Collationes Parisienses, l’Opus oxoniense.

Teologia e filosofia. Duns Scoto si contrappone al crescente coinvolgimento dei teologi nei dibattiti propriamente filosofici e alla stretta relazione fra teologia e filosofia, che era conseguenza dell’applicazione del metodo dimostrativo aristotelico alla teologia (teologia scientifica) compiutamente realizzato da Tommaso d’Aquino. Tommaso aveva inteso conservare l’autonomia reciproca del sapere filosofico e di quello teologico, pur nella convergenza metodologica; Scoto sottolinea invece con forza la radicale diversità tra filosofia e teologia, e afferma che il filosofo non può in alcun modo parlare di Dio con le sue sole forze perché non vi sono strutture concettuali (come l’analogia dell’essere nella dottrina tomista) applicabili tanto alla conoscenza delle creature che a quella del creatore. Questo non significa però eliminare la domanda su quali siano le condizioni per costruire una dottrina teologica; questa domanda è anzi al centro della speculazione di Duns, ed è affrontata nel prologo dell’Opus Oxoniense. Il compito del teologo si fonda sulla determinazione del fine a cui l’uomo tende (la beatitudine, che per il credente è la visione di Dio) e dei mezzi a sua disposizione per raggiungerlo. L’aristotelismo, in particolare nell’interpretazione degli averroisti latini, dava una chiara risposta alla domanda relativa al mezzo: la filosofia, che porta alla massima perfezione la natura razionale dell’uomo, è lo strumento che conduce alla vita beata. La risposta di Duns parte invece dalla distinzione fra perfezione di natura e perfezione soprannaturale; egli ritiene infatti, richiamandosi ad un elemento di fondo del pensiero di Agostino, che il peccato originale non abbia soltanto privato l’uomo del dono superiore della grazia, ma ne abbia intaccato profondamente la natura (anche su questo punto, dunque, il filosofo francescano si contrappone recisamente alla visione positiva della natura umana, struttura portante della filosofia tomista). Questo è il significato dell’espressione homo viator o in statu viae, che si traduce come ‘in cammino’ (ma forse meglio sarebbe tradurre ‘in esilio’ rispetto alla ‘patria’, il paradiso della creazione); l’espressione, utilizzata nel Commento alle Sentenze da Pietro Lombardo, diventa centrale nella teologia scotista. La conoscenza del fine dell’uomo non è, in questa condizione, accessibile alla ragione naturale, ed è concessa soltanto dalla rivelazione. La posizione del filosofo e quella del teologo non sono più concatenate, ma divergenti; la scelta di assumere il punto di vista teologico non è la naturale conseguenza dell’assunzione del punto di vista razionale, ma è determinata dalla considerazione del limite stesso della razionalità. Il fine dell’uomo è dunque, per il teologo, il Dio persona, che è soggetto della Rivelazione e, nella sua determinazione essenziale (ut hic), oggetto della teologia. Questo tipo di teologia deve per definizione contenere in sé tutte le verità che riguardano la dinamica interna della divinità (teologia dei necessari: i misteri della vita divina, come la Trinità, la prescienza, l’onnipotenza) e la sua attività esterna (teologia dei contingenti: la creazione e il rapporto di Dio col mondo); ma queste conoscenze sono accessibili in maniera perfetta solo a Dio, il quale conosce sé naturalmente. Gli esseri limitati, tanto gli uomini in statu viae come anche i beati, possono produrre soltanto una teologia 'imperfetta', costruita a partire dalla Rivelazione e perciò necessariamente legata all’interpretazione della Sacra Scrittura. Questa teologia non ha i caratteri della filosofia, ma piuttosto quelli della sapienza, perché la conoscenza che essa produce è finalizzata alla salvezza: insegna ad agire secondo verità. La teologia è dunque scienza pratica.

La metafisica e la prova dell’esistenza di Dio. Una sola nozione della teologia, il concetto di ente infinito, è anche accessibile alla ragione dell’homo viator per quanto non direttamente com’era nella perfezione originaria: la condizione d’esilio degli uomini dopo il peccato originale rende infatti necessario che la conoscenza dell’essere sia guadagnata attraverso la considerazione degli aspetti essenziali delle realtà sensibili (quidditates rerum sensibilium). Di conseguenza, il discorso sull’essere non può svilupparsi sul piano della teologia: il livello più alto ove il pensiero umano può cimentarsi con le sue forze è quello della metafisica, la scienza razionale dell’essere completamente indipendente dalla teologia. A partire dal concetto di ente si costruisce la metafisica come scienza teoretica pura, nella quale si tratta, utilizzando lo strumento analitico della distinzione, di “ciò che è comune a tutte le scienze speciali”: l’essere in quanto essere (definizione avicenniana), prima e al di sopra di tutte le sue determinazioni, che sono oggetto delle scienze particolari, l’essere comune a tutto ciò che è, illimitato e indefinito. L’affermazione metafisica per eccellenza suona così: “tutto ciò che è, è essere”, e si colloca dunque sul piano della massima astrazione. Pertanto la metafisica si distingue anche dalla fisica, i cui concetti non sono semplici in assoluto, come quello dell’essere, ma si ricavano per astrazione dalle ‘contrazioni’ dell’essere, ovvero a partire dalle realtà contingenti che ‘convengono’ nell’essere ma sono distinte fra loro; l'univocità dell'essere fisico è infatti intesa come “univocità naturale, secondo che alcune cose convengono in una natura reale”. La metafisica è dunque indipendente non solo rispetto alla teologia, ma anche alla fisica; e, rispetto quest’ultima, diverso è il processo conoscitivo, che nella metafisica non muove dagli effetti alla causa, ma procede deduttivamente a partire dall’evidenza del principio. Si comprende perciò il netto rifiuto che Duns oppone tanto alle ‘vie’ tomistiche di dimostrazione dell’esistenza di Dio quanto all’identificazione operata da Averroè fra Dio e il Motore Immobile. L’univocità dell’essere sul piano metafisico, in quanto ‘concetto comune’ in assoluto, può essere invece strumento per tale dimostrazione, perché può attingere in perfetta purezza l’idea di “ente primo, perfetto, infinito”, sulla cui possibilità di esistenza Scoto si interroga in questi termini: “Se fra gli enti ve ne sia alcuno che esista come infinito in atto”. La risposta viene formulata senza fare alcun ricorso all’esperienza esterna, ma rimanendo all’interno del puro pensiero, analogamente a come era strutturata la prova ontologica anselmiana, per arrivare a concludere che l’essere primo è l’intrinseca necessità che la possibilità stessa della sua esistenza richiede: non una necessità di ordine logico o fisico, ma la necessità di un essere che esista ‘da sé’ (ex se). L’ente infinito cui la metafisica attinge non dà però alcuna conoscenza del Dio persona della Sacra Scrittura, la cui caratteristica fondamentale è la libertà; tale libertà si manifesta nell’assoluta onnipotenza, che Scoto concepisce in analogia alla potenza del sovrano assoluto, che non è condizionato da nient’altro che dal proprio volere nel promulgare le leggi, e rimane comunque libero di abrogarle. Secondo tale concezione, l’atto creatore rimane indimostrabile, e anzi non sarebbe concepibile senza l’autorivelazione divina, che ne mostra il carattere assolutamente libero e volontario; inoltre le leggi cui il creato è sottoposto non hanno carattere di necessità rispetto al creatore, che rimane sempre libero di modificarle. Dalla libertà della Causa infinita e dalla sua onnipotenza assoluta deriva dunque la contingenza radicale del suo effetto: contingenza che non è, per Duns Scoto, una limitazione, ma piuttosto il modo positivo di essere degli enti che Dio ha prodotto senza essere necessitato a farlo. Non dimentichiamo che la filosofia scotista nasce all’indomani della condanna del naturalismo e del determinismo nel 1277 e, portando avanti la critica teologica alla filosofia aristotelica, produce una svolta epistemologica che verrà pienamente esplicitata nella filosofia di Ockham e negli sviluppi del pensiero scientifico del Trecento.

Contingenza degli enti e problema degli universali. L’atto creatore per Duns Scoto è il libero esito di un atto della volontà divina, che pone da sé le proprie condizioni; Dio non agisce in conformità a idee o essenze preesistenti, ma nella sua libertà fonda ciascun ente nell’atto effettivo in cui lo trae all’esistenza dal nulla. Gli esseri creati sono perciò caratterizzati da una radicale contingenza: questa affermazione rende possibile una critica di fondo alla scienza aristotelica, ma Scoto, pur rifiutando la distinzione reale fra esse ed essentia, non giunge alla radicalità che sarà propria del ‘nominalismo metafisico’ di Ockham (ovvero all’affermazione che solo gli individui hanno esistenza reale). Riprende invece la riflessione agostiniana, rielaborata nella scolastica da pensatori di scuola francescana quali Roberto Grossatesta, Ruggero Bacone, Giovanni Peckham, sviluppando secondo la sua ottica contingentista la dottrina della pluralità delle forme. Secondo questa dottrina, ogni piano di composizione degli enti reali è caratterizzato da una propria forma o essenza e tutte queste forme sono ordinate gerarchicamente e ricomprese nell’ultima o superiore, che è propriamente l’essenza dell’ente considerato: nell’uomo, per esempio, abbiamo (1) la forma della corporeità, che ne definisce la concretezza materiale; (2) la forma elementare, che ne caratterizza il corpo come misto elementare; (3) la forma vegetativa, che conferisce al corpo la vita; (4) la forma animale, che lo rende mobile e sensibile; infine (5) la forma intellettiva (razionalità), che le sussume tutte e lo identifica come uomo. Le cinque forme così identificate non danno luogo a cinque enti diversi, ma ordinandosi gerarchicamente danno luogo ad un ente complesso e, per così dire, stratificato ma unico che è ‘un uomo’. Questa dottrina è interpretata da Duns in relazione al tema della contingenza come effetto di una disposizione liberamente posta dalla volontà divina: restando all’esempio sopra riportato, l’ultima forma (l’anima intellettiva) non deriva come conseguenza necessaria della presenza organizzata delle forme precedenti, ma viene all’esistenza per libera decisione divina, quando un organismo è pronto ad accoglierla. Non possiamo pertanto distinguere un’essenza prima o oltre l’esistenza delle cose create: la distinzione avicenniana e tomistica fra essenza ed esistenza non è per Scoto una distinzione reale. Tuttavia essa non è nemmeno una distinzione puramente di ragione, come sarà nella ‘metafisica nominalista’ di Ockham, per cui solo gli individui esistono. Scoto introduce la cosiddetta ‘distinzione formale’, che permette di distinguere come possano aversi più individui di una stessa specie senza che si moltiplichi l’essenza che li determina. Dal punto di vista ontologico, la distinzione formale indica esclusivamente la possibilità che un dato ente venga ad esistere (la ‘cavallinità’ non è la determinazione ‘essenziale’ dei cavalli, ma indica la possibilità che esista qualcosa che ‘è un cavallo’), senza il carattere di necessità che questa possibilità implicherebbe se la intendessi, aristotelicamente, come potenzialità che presuppone l’attualità corrispondente. Dal punto di vista gnoseologico, la ‘distinzione formale’ è posta quando l’intelletto può isolare gli aspetti che compongono un ente esistente (questo cavallo è ‘un cavallo’ ma è anche ‘bianco, giovane’, ecc.; ed esistono sicuramente cavalli che sono tali pur essendo neri, vecchi ecc.); ciò non implica però che ci siano due ‘nature’ (essenza ed esistenza) in questo cavallo, poiché quello che ho di fronte è un individuo di cui conosco intuitivamente e contemporaneamente tanto l’esistenza quanto il fatto che è un cavallo. Il fatto dunque di conoscerlo come ‘cavallo’ implica che ne percepisca la ‘distinzione formale’, che garantisce la possibilità della conoscenza astrattiva - la conoscenza dell’oggetto conosciuto in relazione ad altri oggetti, il suo posto nella trama della realtà. Gli universali hanno perciò, per Scoto, un fondamento reale nella natura comune degli individui – quella che mi permette di riconoscere due cavalli diversi come cavalli. Ora, la natura communis degli individui non è né una realtà a sua volta individuale (la cavallinità non è né un cavallo né ‘l’essenza del cavallo’), né un mero concetto logico, ma la non-differenza (indifferentia) che si riscontra negli individui. D’altra parte, Scoto non pone il principio d’individuazione nella materia; di conseguenza l’unità dell’individuo (definito come sostanza che in nessun modo può essere ulteriormente suddivisa in parti che siano a loro volta sostanze) risulta non riducibile ad altro che non sia l’intuizione della sua propria entità singolare, posta dalla libera volontà di Dio e dunque radicalmente contingente. Ciascuna cosa di cui si possa dire che è ‘questo, questa, ciò’ (hic, haec, hoc) deve il suo ‘essere questo’ alla sua haecceitas (neologismo coniato da Duns), proprietà che la definisce ma che non è né universale né comunicabile a molti, bensì appartenente al singolo e indivisibile. La haecceitas definisce dunque l’individuo come contingente e indeducibile, benché radicato nell’essere e manifestazione di esso.

Univocità dell’essere e conoscenza degli enti. Il nostro intelletto, di per sé fatto per conoscere l’essere assoluto, nello stato attuale riesce a concepirlo soltanto come ‘movente’ delle cose sensibili, distinguendo oltre le ‘contrazioni’ dell’essere (le sue manifestazioni concrete) per arrivare al concetto di ente comune, che è rigorosamente univoco. L’univocità dell’essere costituisce la più vistosa differenziazione rispetto alla metafisica di Tommaso: definire l’essere come univoco, cioè predicabile di tutti gli enti con lo stesso significato, consente all’intelletto umano di trascendere i concetti formati a partire dall’esperienza sensibile, mettendone a nudo la struttura e attraversandoli fino a coglierne la trama ontica, nella quale si rende visibile ciò che di Dio è possibile vedere agli occhi umani. L’intelletto è una potenza di per sé attiva, possiede cioè intrinsecamente la capacità di elevarsi ai livelli più astratti della conoscenza fino all’essere in quanto essere; tuttavia nella vita mortale non può di fatto prescindere dall’oggetto sensibile. Dunque l’attività della conoscenze intellettuale rimane sempre legata ai sensi, come insegna la gnoseologia aristotelica: questa nozione è espressa da Duns, nel suo peculiare linguaggio, con l’affermazione che la quiddità delle cose sensibili è l’insostituibile movente della conoscenza, anche di quella intuitiva, perché l’anima non è sempre attiva ma, per esserlo, deve essere sollecitata dall’oggetto. La presenza dell’oggetto suscita un effetto attraverso i sensi su cui agisce; e tuttavia la conoscenza vera e propria è opera dell’intelletto, che compone i ‘concetti semplici’ formando proposizioni complesse e dando ad esse il proprio assenso. L’assenso dell’intelletto non dipende però dai ‘concetti semplici’, ma dalla correttezza del processo di formazione delle proposizioni complesse, dunque da un’articolazione normativa a priori; in questo consiste l’attività dell’intelletto, ed il fantasma prodotto dall’immaginazione, che caratterizza la conoscenza dell’individuale, non è necessario per la conoscenza dell’universale. “Ciò che è più universale può essere presente all’intelletto senza la presenza del meno universale”: pur non rifiutando la struttura di fondo della gnoseologia aristotelica, Scoto si è infatti ispirato alla tradizione matematizzante di Oxford nella metodologia deduttiva di costruzione del suo sistema di pensiero e nella ricerca delle condizioni della scienza dell’essere (metafisica), da cui tutte le altre scienze discendono. (MP)

Bibliografia

Edizioni
Opus oxoniense, ed. M. Fernandez Garcìa, Collegio San Bonaventura, Quaracchi 1912-14
Tractatus de primo principio, ed. E. Roche, Franciscan Institute, St. Bonaventura 1949
Opera omnia, ed. Commissione scotistica diretta da C. Baliç, Typis Vaticanis, Città del Vaticano 1950- (19 volumi fin qui editi)

Traduzioni italiane
Duns Scoto, Antologia filosofica, a cura di Fortunato Di Marino, La nuova cultura, Napoli 1966
Il primo principio degli esseri, cur. P. Scapin, Antenore, Padova 1975
Giovanni Duns Scoto filosofo della libertà , a cura di Orlando Todisco, Ed. Messaggero, Padova 1966

Studi
E. Gilson, Jean Duns Scot. Introduction a ses positions fondamentales, Vrin, Paris 1952
Etica e persona: Duns Scoto e suggestioni nel moderno: convegno di studi, Bologna, 18-20 febbraio 1993: atti a cura di p. Silvestro Casamenti (O.F.M.), E.F.B., Bologna 1994
Giovanni Duns Scoto: filosofia e teologia, a cura di Alessandro Ghisalberti, Biblioteca francescana, Milano 1995
Bernardino Bonansea, L'uomo e Dio nel pensiero di Duns Scoto, Jaca Book, Milano 1991

Risorse on-line
http://www.uiowa.edu/%7Ephil/williams/jhp.htm
http://www.newadvent.org/cathen/05194a.htm
http://plato.stanford.edu/entries/duns-scotus/
http://www.franciscan-archive.org/index2.html

Università di Siena - Facoltà di lettere e filosofia
Manuale di Filosofia Medievale on-line

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