Universali
Definizione e origine
del problema. Nel problema degli universali,
in cui nel XIX sec. si vedeva il tema centrale
della filosofia medievale, si incontra la forma
tipicamente medievale del confronto fra platonismo
e aristotelismo, che paradossalmente si sviluppò
in assenza dei testi platonici. Il problema
nasce in relazione al rapporto fra linguaggio
e realtà quando, affrontando lo studio
della logica,
ci si interroga a proposito dei termini universali
(quelli indicanti genere e specie) a partire
dal testo che per tutto il Medioevo venne letto
all’inizio dello studio della logica come
introduzione alle Categorie: l’Isagoge
di Porfirio tradotta da Boezio.
La questione del rapporto fra linguaggio e realtà
in generale era stato posto da Aristotele nel
De interpretatione: dove il filosofo afferma
che "i suoni della voce sono simboli delle
affezioni che hanno luogo nell’anima,
e queste sono le medesime per tutti”,
vuole intendere che queste ‘affezioni’
siano un ‘calco’ psicologico di
realtà esistenti al di fuori dell’anima,
oppure considera la loro universalità
mentale come espressione della comune struttura
psichica degli uomini? A proposito dei paronimi
nel De grammatico di Anselmo
d’Aosta emerge la possibilità
di comprendere il rapporto fra termini del linguaggio
e cose da essi significate nel senso della partecipazione
platonica; nel caso dei termini universali,
tuttavia, le ‘cose’che essi significano
non sono sostanze prime (le uniche esistenti
di per sé secondo Aristotele, Categorie
cap. 2), ma ‘sostanze seconde’ (genere
e specie), ovvero i termini universali, che
costituiscono il fulcro della dimostrazione
scientifica negli Analitici secondi e a proposito
dei quali Porfirio aveva scritto: "Non
dirò, riguardo ai generi e alle specie,
se siano sostanze esistenti per sé, o
se siano semplici pensieri; se siano realtà
corporee o incorporee; se siano separate dai
sensibili ovvero poste in essi. Poiché
questa è impresa molto ardua, che ha
bisogno di più vaste indagini."
La griglia problematica su cui si sviluppa il
dibattito medievale sugli universali è
tutta contenuta in queste tre domande concatenate:
le risposte possibili sono tradizionalmente
indicate come realismo, nominalismo e concettualismo.
Nominalisti e realisti
nel XII secolo. Dell’esistenza
di due ‘sette’, o scuole contrapposte,
denominate Nominales e Reales, si inizia a parlare
nel XII sec., l’epoca a cui si fa generalmente
risalire l’inizio del dibattito sugli
universali. Anche se le scuole
dei logici furono ben più numerose,
ciò che caratterizza i Nominales rispetto
a tutte le altre è l’affermazione
che ‘genus est nomen’ (che si può
tradurre sia come ‘il genere è
un nome’; sia, in modo assai più
neutro, ‘genere è un nome’,
affermazione puramente grammaticale). Nella
sua forma più estrema il nominalismo
si caratterizzò come ‘vocalismo’,
la posizione che considera i termini universali
come puri nomi o suoni (flatus vocis), privi
di ancoraggio ontologico. Dire che i termini
universali non hanno un referente ontologico
significa considerare reali soltanto gli individui:
implica dunque una presa di posizione metafisica.
Tale posizione tuttavia rende il discorso logico
autonomo rispetto a quello metafisico: già
il più antico esponente di una teoria
nominalista, Garlando Compotista, vissuto nell’XI
secolo, esplicitamente rifiutava di considerare
la logica come riguardante qualcosa di diverso
dalle parole. Per Garlando ciò che un
termine significa consiste nella sua estensione
o denotazione (cioè nella sua applicazione
a una determinata classe di oggetti), mentre
l’intensione o connotazione (il contenuto
significativo del concetto) è considerata
solo sotto l’aspetto del modus significandi:
categorie diverse, come sostanza o quantità,
significano in maniera diversa la stessa cosa,
poiché ciascuna può essere applicata
a qualsiasi cosa, ma dice di essa qualcosa di
diverso (una pietra è una sostanza; una
pietra è singolare). Le parole vengono
dunque raggruppate in categorie non in base
alle differenze di significato, ma in base al
loro modo di significare. La posizione di Roscellino
di Compiègne (ca. 1050-1120) è
per molti aspetti simile. Roscellino negava
che le qualità delle cose fossero entità
distinte dai soggetti che le posseggono: il
colore, ad esempio, non è diverso dal
corpo colorato, idea implicita nell’affermazione
di Garlando che sostanza e quantità significano
ogni cosa ma in modo diverso. Negando che gli
universali possedessero una qualche realtà,
Roscellino intendeva escludere che molte cose
coincidessero in una realtà unica e quest’affermazione,
applicata alla teologia, comportava di invalidare
logicamente la formula trinitaria delle tre
persone in una sostanza: al contrario di Garlando,
Roscellino riteneva dunque possibile applicare
la dialettica alla
teologia. Proprio l'esempio trinitario mostra
bene come l’approccio nominalistico connesso
all’utilizzazione della dialettica in
ambito teologico potesse essere eversivo nei
confronti dell'edificio dogmatico. Sul versante
opposto, le posizioni dei realisti furono diversificate
fra loro: l’esponente più noto
dei Reales fu Guglielmo di Champeaux, soprattutto
a motivo del suo rapporto, dapprima come maestro
e discepolo e poi come avversari, con Abelardo.
E, come ci mostra appunto Abelardo nel resoconto
del suo conflitto con Guglielmo, questi fu indotto
a modificare la propria posizione passando dal
realismo estremo o teoria dell’essenza
materiale, secondo cui generi e specie sono
cose (res) e dunque la realtà universale
è una e la stessa in ciascuna sua specificazione,
alla cosiddetta dottrina della non-differenza,
per cui l’universale non è uno
essenzialmente in tutte le sue specificazioni,
ma è ciò che non differisce in
esse. <testo 1> Il cambiamento introdotto
da Guglielmo di Champeaux dopo le prime vivaci
critiche di Abelardo mirava a salvare la singolarità
degli individui appartenenti ad una stessa specie,
chiaramente incompatibile con la concezione
dell’universale come cosa: la teoria della
non-differenza, anziché ridurre tutti
gli uomini a varianti accidentali dell’unico
universale-cosa 'uomo', sostiene che in tutti
gli uomini sussiste in maniera reale un nucleo
identico, ma singolare, in virtù del
quale essi sono detti uomini. Nella Logica 'Ingredientibus’di
Abelardo (denominata così dall’incipit,
la parola con cui inizia il testo, secondo un
uso comune nel Medioevo) le due successive posizioni
tenute da Guglielmo sono esposte polemicamente
e confutate con molta chiarezza <testo 2>.
Altre forme di realismo sono quelle elaborate
nella scuola di Melun e nella scuola porretana:
nell’Ars Meliduna gli universali non sono
considerati né puri nomi né cose,
ma l’essere stesso delle cose (esse rerum);
per la scuola porretana, un nome comune a più
cose non è una ‘cosa’, ma
il principio di similitudine che unisce più
individui in una natura comune (conformitas:
ove la forma è intesa come idea divina,
causa delle cose create).
Il concettualismo.
La posizione di Abelardo si fonda su due elementi,
la cui connessione produce una teoria originale:
da una parte l’idea che il linguaggio
si riferisca sì alle cose reali, ma soltanto
attraverso la mediazione dei nomi; dall’altra
un modo diverso di intendere il comune riferimento
alle forme esistenti nella mente divina. I nomi
e i verbi, dice Abelardo, significano le idee
che generano nell’ascoltatore, ma anche
ciò di cui esse sono idee, cioè
le cose; i nomi hanno d'altra parte un duplice
carattere: in quanto vocabolo o suono fisico
essi sono detti vox, in quanto entità
linguistica dotata di significato sono detti
sermo.<testo 3> Un termine universale,
d’altra parte, è tale non per pura
convenzione ma in quanto esprime un significato
(intellectum), che si basa sulla natura comune
ovvero sullo status delle cose da esso indicate,
che è prodotto da Dio: scrive infatti
Abelardo che i singoli uomini, distinti tra
loro, convengono non nell’uomo ma nell'essere
uomini. L’umanità non è
dunque una ‘cosa’, ma la ragione
comune che fonda la possibilità di denominare
gli uomini (e le donne) con l’unico nome
di ‘uomo’, lo status in cui gli
individui-uomo/donna convengono. Da ciò
il carattere di astrazione del termine universale,
che si forma concependo un’immagine comune
e confusa di molti. Perciò, scrive Abelardo,
“quando odo la parola uomo, mi sorge nell’animo
un modello che sta ai singoli uomini come comune
a tutti e proprio di nessuno; quando invece
odo Socrate, mi sorge nell’animo una forma
che esprime la similitudine di una determinata
persona." Questa soluzione del problema
degli universali viene denominata concettualismo.
Il nominalismo 'classico'.
La discussione sugli universali non ebbe sviluppi
originali dopo Abelardo: occorrerà aspettare
Guglielmo
di Ockham per una ripresa della posizione
nominalistica, che divenne preminente nella
logica del XIV secolo. Questo non significa
che gli autori del XIII secolo non affrontassero
la discussione sui termini universali; in ambito
logico essa si sviluppò con modalità
connesse a quelle del XII secolo all’interno
di un’opzione generalizzata per il realismo;
si parla dunque, in termini molto schematici,
dell’universale come essenza della cosa
(in re), come forma causante (ante rem), e come
concetto (post rem). Ma i nuovi testi di Aristotele
portarono all’attenzione le definizioni
di universale proposte negli Analitici Secondi
(l’universale è uno nei molti ed
è uno al di fuori dei molti), nel De
anima (l’universale esiste nell’anima),
nella Metafisica (l’universale, in quanto
universale, non è una sostanza), e così
il problema degli universali, come scrive Alain
De Libera, entrò “coscientemente
a far parte di un nesso complesso in cui si
intrecciavano problemi di teoria della percezione,
formazione dei concetti astratti, ontologia
degli oggetti e delle entità generali
– tutto il campo del dibattito Platone-Aristotele”.
Il rapporto fra universale e natura comune nella
elaborazione di Duns
Scoto ben esemplifica questa complessità,
emergendo all’interno di un discorso che
s’interroga su come l’anima possa
produrre in sé un oggetto sufficientemente
indeterminato per essere universale. Il nominalismo
di Ockham si sviluppa in primo luogo in ambito
logico, nella tradizione delle Summulae logicales
di Pietro
Ispano, e tuttavia presuppone una scelta
metafisica (la riduzione degli enti alle sostanze
prime e alle loro qualità) e si connette
alla concezione della conoscenza
intuitiva. La logica è concepita
da Ockham come pura scienza del linguaggio,
senza commistioni con la metafisica, e viene
definita come un sapere pratico che verte sulle
operazioni mentali e dirige il nostro intelletto,
dettando le regole delle sue operazioni, le
proposizioni (complexa) composte da termini,
i quali sono segni che si riferiscono alle cose,
di per sé sempre singole: in questo senso
la dottrina di Ockham è propriamente
una forma di nominalismo. Egli distingue fra
termini mentali (conceptus), linguistici (dictiones)
e scritti <testo4> e, d’altra parte,
riformula la teoria della suppositio, permettendo
una nuova impostazione del rapporto fra termini
universali e contenuto significativo degli stessi:
gli universali cadono infatti nella suppositio
simplex, ove il termine sta per una intenzione
dell’anima, senza essere assunto significativamente.
Applicando questa concezione ad una virtuale
risposta alla prima domanda di Porfirio, Ockham
intende l’universale come una “intenzione
o concetto formato dall’intelletto”,
che non differisce dall’atto singolare
di intellezione con cui la mente comprende una
pluralità di cose singolari, ed è
capace di riferirsi significativamente a (può
essere predicato di) una molteplicità
di cose, anche se è formato a partire
da un atto astrattivo singolo. Nel nominalismo
di derivazione ockhamista, che caratterizzò
la via moderna nel tardo medioevo, l’universale
definitivamente spogliato di ogni referente
ontologico venne ad essere definito come un
termine o contenuto mentale capace per natura
di significare, di riferirsi o di essere predicato
di più individui. <testo5> (MP)
Bibliografia
A. De Libera, Il Problema degli Universali da
Platone alla fine del Medioevo, La Nuova Italia,
Firenze 1999
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