Intuizione/astrazione
La distinzione tra notitia
intuitiva/notitia abstractiva. La svolta
epistemologica che caratterizzò in modo
peculiare il pensiero filosofico-teologico del
XIV secolo è rappresentata dall’introduzione
e dalla sempre maggiore rilevanza acquisita
da una modalità di conoscenza che non
ha in senso proprio matrice aristotelica, ovvero
quella che Duns
Scoto chiamava notitia intuitiva. Egli fu
il primo ad immettere nella riflessione sul
tema della conoscenza,
che presentava un dualismo irrisolto tra sensibilità
e intelletto, fra particolare e universale,
la distinzione tra conoscenza intuitiva (ottenuta
per ‘contatto’, ovvero grazie alla
presenza immediata dell’oggetto al soggetto
conoscente) e quella astrattiva (notitia abstractiva,
presente nel soggetto indipendentemente dal
‘contatto’ o meno con l’oggetto
conosciuto). Proprietà caratteristica
dei sensi esterni (vista, odorato, udito, gusto,
tatto) è quella di fornire tale conoscenza
di tipo esclusivamente intuitivo, mentre l’intelletto
possiede entrambi le modalità conoscitive:
può, in altre parole, avere conoscenza
di una cosa anche in sua assenza.
Determinante, in questo quadro concettuale,
fu l’impianto dei presupposti metafisico-epistemologici
ockhamiani,
che condussero alla formulazione di una concezione
epistemologica innovativa, e molto contestata.
Si tratta di una posizione strettamente collegata
all’esigenza sempre maggiore di conferire
certezza al discorso conoscitivo (esigenza peraltro
già messa in luce, sempre in ambiente
inglese e francescano, da Ruggero
Bacone, nel tentativo di fornire basi solide
alla conoscenza esperienziale) contro ogni ipotesi
di scetticismo che si andava diffondendo a causa
delle discrepanze inevitabilmente emerse nel
rapporto soggetto-species-res nel quadro della
conoscenza aristotelica. Dopo aver precisato
che nel corso naturale degli eventi esiste un
rapporto di causazione tra la conoscenza intuitiva
e quella astrattiva, ovvero è necessario
un contatto diretto con l’oggetto per
poterne avere una conoscenza puramente astratta,
Ockham si spinse oltre, affermando che la conoscenza
intuitiva, che è di per sé evidente,
quindi certa, “ci fa conoscere che una
cosa è, quando è e che non è,
quando non è”, in altre parole,
secondo la celebre formulazione del Prologo
al Commento alle Sentenze (q.1): “la conoscenza
intuitiva di una cosa è la conoscenza
mediante la quale si può sapere se la
cosa esiste o non esiste”. La conoscenza
intuitivaè sia sensibile che intellettuale
e riguarda propriamente i giudizi di esistenza
e non esistenza; in più, sostiene ancora
Ockham, si può avere conoscenza intuitiva
di una cosa anche indipendentemente dalla sua
presenza al soggetto nel caso in cui Dio, nella
sua onnipotenza,
ci metta nelle condizioni di avere una simile
esperienza sensibile ed intellettuale, benché
sia difficile, in queste condizioni, assicurarle
equipararla in tutto e per tutto a quella notitia
intuitiva ottenuta naturalmente grazie all’azione
delle sole nostre facoltà conoscitive.
Il dibattito sull’intuizione
del non esistente. Proprio l’aver
ipotizzato la possibilità della conoscenza
intuitiva di un non-esistente fu uno degli elementi
di maggior discussione nei decenni successivi
da parte dei seguaci, e degli avversari, di
questo originale pensatore le cui opere furono
bandite dallo statuto della facoltà di
arti di Parigi nel 1339. A partire da queste
premesse teoriche, infatti, intorno agli anni
’30, sia in Francia che in Inghilterra,
si moltiplicarono le ipotesi epistemologiche
intorno al ruolo e allo statuto dell’intuizione
nella fondazione di una conoscenza certa ed
evidente. Fra queste, la dottrina dell’esse
apparens sostenuta da Pietro
Aureolo si presenta come una delle più
interessanti, sebbene ricevesse aspre attacchi
dai suoi contemporanei: questa affermava l’indipendenza
dell’atto intuitivo dalla cosa intuita,
centrando l’attenzione sulla modalità
di ‘apparire’ dell’oggetto
alla facoltà conoscitiva, piuttosto che
sulla presenza, o sulla natura dell’oggetto.
Una decisa reazione nella direzione del ristabilimento
di un ‘realismo’ in epistemologia
fu quella di Walter Chatton, teologo francescano
(m. nel 1343) che ebbe modo di conoscere direttamente
l’insegnamento di Ockham. La base su cui
si fonda la certezza della nostra conoscenza
è la res, ovvero l’oggetto esterno
che, pur presentandosi ai nostri sensi, non
offre loro una sua mera apparenza, una rappresentazione,
ma la sua propria natura di ente reale. L’intuizione,
in questa prospettiva, ha a che fare con i sensi,
in particolare con la visione, ed è conoscenza
certa ed indubitabile della cosa in quanto esistente:
contro Ockham, Chatton rifiuta categoricamente
la possibilità di un’intuizione
del non-esistente. Contro questa stessa tesi
ockhamista si schierano autori come Giovanni
Rodington, maestro francescano ad Oxford (m.
nel 1348), Roberto Holkot, teologo inglese appartenente
all’ordine domenicano (m. nel 1349) e
Adamo di Wodeham (1298ca.- 1358), francescano,
che di Ockham fu discepolo e amico, commentando
le Sentenze di Pietro
Lombardo verso il 1330-‘32; questi
maestri di teologia tengono a sottolineare la
validità e la certezza dell’intuizione;
in questo senso, la non esistenza di una realtà
può essere inferita, ma non può
essere il risultato di un’intuizione immediata:
neppure l’intervento divino, che conserva
l’intuizione precedente di una res, può
far sì che la conoscenza di un oggetto
non più presente a noi sia sotto ogni
aspetto identica a quella ottenuta intuitivamente.
Il rifiuto dell’intuizione del non-esistente,
che si propone l’obiettivo di conferire
certezza ad ogni conoscenza, in particolare
a quella di tipo scientifico, è ribadito
anche da Francesco Meyronnes, teologo francescano
contemporaneo di Chatton, e da Nicola
d’Autrecourt, maestro secolare celebre
per la sua disputa con il francescano Bernardo
d’Arezzo, che accusò di sostenere
una posizione scettica che metteva in discussione
il valore di verità dell’intuizione,
nella difesa di un’ortodossia che tuttavia
non gli valse il favore dell’autorità
ecclesiastica.
Un contributo notevole al dibattito fu offerto
da Gregorio
da Rimini, teologo agostiniano eletto generale
dell’Ordine nel 1358, che non considerò
l’esistenza di una cosa nella realtà
come un requisito essenziale per l’atto
di intuizione, poiché questo può
avere come termine ultimo anche la species,
la rappresentazione mentale dell’oggetto
stesso: questo non equivale tuttavia a dichiarare
legittima l’intuizione del non-esistente,
idea di per sé inconcepibile. Ogni conoscenza
passata può essere infatti conservata
da Dio nella nostra mente, ma non con l’intento
falso di ingannare l’uomo conferendogli
l’illusione della presenza di qualcosa
che invece è assente. Sempre in opposizione
alla tesi di Ockham, alla metà del secolo,
anche Alfonso Vargas Toledano, Giovanni Mirecourt
e Pietro di Ceffons presero posizione nel dibattito
sul valore e la natura della conoscenza intuitiva
e sul ruolo da essa giocato nel conferimento
di certezza alla conoscenza (PB).
Bibliografia
Onorato Grassi,
Il problema della certezza, in Storia della
filosofia. 2 Il Medioevo, a cura di P. Rossi
e C. A. Viano, Roma-Bari, Laterza 1994, pp.
472-87
Luciano Cova, Francesco de Meyronnes e Walter
Chatton nella controversia scolastica sulla
‘notitia intuitiva de re non exixtente’,
Medioevo II (1976), pp. 227-51
K. H. Tachau, Vision and Certitude in the Age
of Ockham. Optics, Epistemology and the Foundations
of Semantics 1250-1345, Leiden, Brill 1988
S. Knuuttila, R. Työrinoja, S. Ebbesen,
Knowledge and Sciences in Medieval Philosophy,
Helsinki, Luther-Agricola Society 1990
|