Linea dorata

Metafisica

Definizione. Per quanto il termine ‘metafisica’ abbia avuto un’origine estrinseca, designando i libri ‘successivi a quelli di fisica’ (metà tà physikà) nell’ordinamento del corpus aristotelico operato nel I sec. d.C. da Andronico, esso esprime adeguatamente la natura di questa scienza, in quanto essa procede al di là della fisica (la prima delle scienze particolari), per raggiungere il fondamento comune su cui tutte le scienze particolari si fondano e determinarne l’ordinamento. La denominazione di ‘filosofia prima’, che è quella data da Aristotele, mostra con chiarezza questo carattere: la metafisica è prima perché tratta dell’oggetto cui tutte le scienze particolari si riferiscono, e delinea i principi da cui tutte discendono. Nell’opera di Aristotele, la concezione della metafisica come teologia, cioè come scienza dell’essere più alto e perfetto dal quale tutti gli altri esseri dipendono, si intreccia con quella della metafisica come ontologia, cioè come scienza che studia i caratteri fondamentali dell’essere in quanto essere (teoria della sostanza), che nelle sue determinazioni è oggetto di tutte le altre scienze. <testo1>. In senso ‘tecnico’, non si può parlare di metafisica nell’età medievale prima di Avicenna e, per il medioevo latino, prima che i testi aristotelico e avicenniano fossero resi disponibili in latino; tuttavia il problema boeziano del Sommo Bene e i suoi sviluppi abitano lo stesso spazio problematico, ed è per questo che in questa pur sintetica trattazione prenderemo le mosse da essi.

Il Sommo Bene. Nella riflessione altomedievale l’oggetto del discorso supremo della filosofia è il principio divino, denominato platonicamente Sommo Bene ma inteso aristotelicamente come l’essere che è principio causale di tutti gli esseri. Dal De hebdomadibus di Boezio fino al Monologion di Anselmo d’Aosta, la ricerca del principio fondante della realtà si articola pertanto nella distinzione e nella relazione fra l’essere (il bene) e ciò che è (le singole cose buone), rispetto alla quale Boezio pone la fondamentale affermazione che “l’essere (esse) e ciò che è (id quod est) sono diversi”: con ciò distingue l’essere puro, che non ha in sé alcun predicato o attribuzione diversa da sé (“l’essere, infatti, non è ancora”) dagli esseri, che sono in quanto ricevono la loro determinazione formale, o forma essendi, dall’essere stesso. La posizione astratta si concretizza, nelle pagine del breve trattato boeziano, attraverso il riferimento alla tradizione platonica e a quella genesiaca (ciò che Dio crea è buono), con l’affermazione che “le realtà che sono, sono buone”, e con la successiva argomentazione che dalla bontà degli esseri si può risalire al “primo bene” <testo 2>. Da una simile articolazione fra Sommo Bene e cose buone muoverà Anselmo nel Monologion, per convincere chi non sa, o non crede, che “vi è una natura superiore a tutte le cose che sono, la sola a sé sufficiente nella sua beatitudine eterna, che mediante la sua onnipotente bontà conferisce l’essere a tutte le altre cose facendole in certo modo buone, e le molte altre verità che necessariamente crediamo intorno a Dio ed alla sua creazione”. Il Dio che nella Bibbia definisce se stesso “io sono colui che sono” (Ex. 3, 14) viene dunque interpretato nei termini del Bene della tradizione platonica, operando quell’accostamento fra Essere e Bene che in età scolastica verrà tradotto nella dottrina dei trascendentali: insieme all’essere e al bene, uno e vero sono riferibili al principio di tutte le realtà e insieme indicano le proprietà prime che tutte le cose hanno, prima di qualsiasi distinzione fra i generi in cui le cose stesse si distribuiscono. Tutte queste riflessioni hanno come fondamento il primato dell’essere, come risulta evidente dalla prova dell’esistenza di Dio elaborata da Anselmo nel Proslogion: la prova ontologica, che si basa sulla intrinseca necessità che l’esistenza inerisca all’essere sommo. L’articolazione boeziana fra esse e id quod est verrà discussa e articolata nell’ambito delle ricerche teologiche del XII secolo, da Abelardo a Gilberto de la Porrée, come strumento per una definizione filosofica del principio divino.
Un filone più schiettamente neoplatonico di pensiero metafisico si esprime nell’opera dello pseudo-Dionigi e di Giovanni Scoto Eriugena, per i quali il primo principio si connota chiaramente per il suo carattere super-essenziale e il rapporto fra questo e i suoi effetti si legge come rapporto fra l’uno e il molteplice. Una traccia di questa concezione in età scolastica si ritroverà nella neoplatonica figura A della combinatoria lulliana, ove il principio divino che sta al centro del cerchio la cui circonferenza sono le dignitates (o nomi) non è toccato da nessuno dei raggi che, intersecandosi, uniscono fra loro tutte le dignitates da cui l’intera realtà discende, costituendo il tessuto dell'essere.

Necessario e possibile. La Metafisica di Aristotele fu oggetto di varie traduzioni, alcune delle quali solo parziali, in lingua araba, dove fu indicata col titolo di Libro delle lettere (che si riferisce alle lettere dell’alfabeto greco che indicano i diversi libri del testo aristotelico) o come al-Ilahiyyat (scienza delle cose divine). Il rapporto fra l’essere sommo e gli esseri viene affrontato nella tradizione araba dapprima attraverso la lettura neoplatonizzante di Aristotele data nel circolo di al-Kindi, ove il principio primo viene pensato articolando la concezione neoplatonica dell’Uno con quella aristotelica dell’essere primo. Il Liber de causis, elaborato in questo ambiente commentando una serie di proposizioni dalla Elementatio theologica di Proclo, con apporti da Plotino, affiancherà la Metafisica di Aristotele nell’insegnamento della metafisica stessa nel mondo latino. In questo testo il mutamento di prospettiva metafisica rispetto alla tradizione neoplatonica classica è evidente: infatti l’Uno, che nel neoplatonismo greco è postulato come principio superessenziale da cui la molteplicità degli esseri discende, nell’interpretazione di pensatori radicati nel monoteismo semitico diventa Principio dell’essere, interpretato nel senso veterotestamentario sopra ricordato, in parallelo all’interpretazione della causalità procliana come causalità creatrice; e tuttavia, essendo definito come Essere puro, il Primo principio del Liber de Causis mantiene ancora il carattere di trascendenza tipico del primo principio neoplatonico. Caratteristiche simili alla sintesi kindiana si ritrovano in al-Farabi, la cui attenzione si focalizza ormai decisamente sugli scopi della metafisica di Aristotele: alla lettura del testo farabiano dedicato a questo tema risale l’approccio dello stesso Avicenna alla Metafisica. Ed è proprio con Avicenna che il discorso sul primo principio si identifica definitivamente col discorso sul grado supremo dell’essere, all’interno del quale il discorso teologico viene ricompreso. Avicenna infatti respinge l’idea che l’oggetto della metafisica sia in prima istanza Dio, perché una scienza non può dimostrare l’esistenza del suo oggetto, mentre a suo avviso la metafisica può appunto dimostrare l’esistenza di Dio. Per questa ragione il divino viene ricompreso nella nozione dell’essere in quanto tale, che è l’oggetto proprio della metafisica. <testo 3> Su questa base, Avicenna elabora una metafisica unitaria ove la distinzione è, all’interno dell’essere, quella fra essere necessario e essere possibile: nell’essere necessario, assolutamente semplice e privo di distinzioni al suo interno, l’esistenza fa parte della sua stessa essenza; e, in quanto necessario, esso è la causa prima di tutti gli altri esseri che, ricevendo la propria esistenza da una causa ad essi esterna, sono possibili. <testo 4> La distinzione fra ‘necessario’ e ‘possibile’ è posta al centro della metafisica avicenniana, elaborata nel Kitab al Shifa secondo un piano che vede la discussione ontologica (sull’esistente preso come oggetto primo, le sue proprietà, la sua convertibilità con l’uno: trattati I-VII della Philosophia prima o al-Ilahiyyat) precedere quella teologica (trattati VIII-X), che tratta di Dio, della sua esistenza, della sua natura e della sua funzione di principio degli enti, ovvero espone la “scienza di ciò che instaura il mondo … facendogli acquisire l’essere, coerentemente con il creazionismo islamico” (Porro). Con Avicenna dunque, che prende le mosse dal testo aristotelico ma non si limita a darne un ‘commento’, la metafisica si organizza come sistema unitario ed in questo senso si può riconoscere nel grande autore persiano “il fondatore della metafisica come noi abbiamo imparato a conoscerla” (Porro).

L’essere e gli enti. La stretta connessione posta nella metafisica avicenniana fra il tema dell’essere in quanto essere e il rapporto fra il principio di causazione del reale e i suoi effetti, venne recepita da Alberto Magno, che utilizzò parte della Philosophia prima (I-VII) nel proprio commento alla Metafisica e parte nel De causis et processu universitatis a causa prima (VIII-X), che contiene il commento albertino al Liber de causis. Avicenna rappresentò così per la prima Scolastica l’anello di collegamento fra la metafisica aristotelica e i suoi sviluppi neoplatonizzanti. Attraverso Alberto Magno, questa impostazione ebbe particolare rilevanza presso pensatori come Ulrico di Strasburgo, Teodorico di Freiberg, Meister Eckhart. Anche Tommaso d’Aquino prende, nel De ente et essentia, le mosse dall’impostazione avicenniana; tuttavia la sua ricerca sull’essere imbocca una via diversa, focalizzando lo sguardo sul “significato dei termini essenza et ente, e in che modo lo scopriamo nelle cose diverse”, ovvero portando in maniera diretta l’attenzione sul versante ontologico, in parallelo alla definizione della teologia come scienza i cui principi non sono comuni con quelli delle altre scienze, ma discendono direttamente dalla rivelazione. Come precisa nel commento al De Trinitate di Boezio, “il soggetto della scienza divina, che è la filosofia prima, è infatti l’ente”. L’ente in generale, ens commune, e le sostanze separate che di esso sono cause universali e comuni, costituiscono dunque l’oggetto della metafisica. Nel De ente et essentia l’analisi dell’essere in quanto tale parte dalla definizione generale dell’essenza o quiddità, ciò per cui una sostanza è ed è intelligibile, e classifica la totalità dell’essere, ivi incluso Dio, attraverso la distinzione del modo in cui l’essenza si trova nelle diverse sostanze: in Dio, l’essenza è il suo stesso essere; nelle sostanze separate, l’essenza è distinta dall’essere, che è ricevuto senza che vi sia composizione di forma e materia; nelle sostanze sensibili, infine, l’essenza non solo è distinta dall’essere e ricevuta da altro, ma è ricevuta come forma nella materia <testo 5> Ma se la metafisica comprende l’essere di Dio, come si distingue dalla teologia? E come l’essere di Dio non si confonde con l’essere delle creature? Alla prima domanda, Tommaso risponde che la metafisica è ‘scienza divina’ per i filosofi perché porta ai principi primi a partire dai loro effetti (argomento avicenniano, cui Averroè aveva controbattuto che risalire dagli effetti ai principi era piuttosto compito della fisica), mentre le realtà divine in se stesse, e non come principi delle cose, sono oggetto della teologia <testo 6> La risposta alla seconda domanda si basa sul fatto che, come si è visto, il rapporto fra essenza ed essere è diverso in Dio e nelle creature: l’essere delle creature è separabile dalla loro essenza e quindi creato, l’essere di Dio è identico alla sua essenza. Questo dispositivo è denominato ‘analogia dell’essere’ (analogia essendi): in quanto creato, cioè proveniente dall’essere di Dio, l’essere delle creature non può infatti essere definito né identico (univoco) né diverso (equivoco) rispetto a quello di Dio, ma analogo ad esso: Dio ha l’essere per essenza, le creature hanno l’essere per partecipazione (analogia di proporzione). <testo 6>

L’univocità dell’essere. Quest’ultimo punto divenne ben presto oggetto di critiche da parte di altri pensatori scolastici, per quanto Tommaso e i suoi seguaci sostenessero che l’analogia di proporzione era sostenuta dallo stesso Aristotele: questi in realtà aveva riportato sotto l’unico senso di ‘sostanza’, ovvero della quiddità, i vari sensi in cui l’essere si presenta nella realtà che è oggetto dell’esperienza sensibile. Da qui muove anche la critica di Duns Scoto, il cui tema dell’univocità dell’essere, che per alcuni interpreti costituisce la principale eredità avicenniana nel pensiero scotista, sgancia il discorso della metafisica da quello della fisica, spostandone l'oggetto dall’essere fattuale (l'essere degli esseri contingenti) all’essere pensato come reale possibile. Con questa mossa, che ha permesso di presentare Duns Scoto come “il secondo inizio della metafisica” (Honnefelder), il campo della metafisica si apre in maniera fino allora impensabile: il fuoco della metafisica scotista è infatti la possibilità per la mente umana di accedere all’idea di ens infinitum, l’essere infinito e necessario che costituisce l’oggetto sommo del pensiero, inattingibile in quanto tale a partire da considerazioni fisiche (l’essere infinito e necessario non è dunque lo stesso che il primo motore immobile), ma che può essere raggiunto attraverso le leggi necessarie del pensiero. La metafisica aristotelica, per cui l’essere in quanto essere era da intendersi come la quiddità, ovvero da riportarsi alla realtà contingente, è per Scoto l’esempio estremo della impossibilità per la natura umana nella sua condizione attuale (dopo il peccato) di raggiungere il fine che le è proprio; ma se la ragione naturale prende le mosse dall’autopresentazione di Dio nell'Esodo, ecco che trova lo slancio per raggiungere il massimo di cui è capace: l’essere infinito e necessario che è il suo oggetto supremo. Su questa base Scoto elabora nel De primo principio un articolato sistema di prova dell’esistenza di Dio. <testo 7> La metafisica, il cui spazio è aperto dalla parola rivelata, si propone dunque in tal modo anche come scienza propedeutica alla teologia, che sull’essere infinito e necessario costruirà il proprio discorso a partire dai contenuti della rivelazione. L’oggetto della metafisica, in conclusione, non è né la quiddità né Dio: la perifrasi ‘essere in quanto essere’ assume, con Scoto un significato nuovo, l’essere nella sua realtà possibile (quod aptum natum est existere; esse quidditative sumptum) le cui proprietà sono conosciute deduttivamente a partire dalle leggi necessarie del pensiero, ovvero fondamentalmente a partire dal principio di non contraddizione. Pertanto, con Scoto la metafisica attinge lo statuto di ontologia scientifica, con cui entrerà nella modernità attraverso le elaborazioni della cosiddetta Seconda scolastica, in particolare di Francisco Suarez (1548-1617). (MP)

Bibliografia

Die Metaphysik im Mittelalter, hrsg, P. Wilpert, W. Eckert, De Gruyter, Berlin 1963
C. Giacon, I primi concetti metafisici. Platone, Aristotele, Plotino, Avicenna e Tommaso, Zanichelli, Bologna 1968
L. Honnefelder, Scientia transcendens. Die formale Bestimmung der Seiendheit und Realität in der Metaphysik des Mittelalters und der Neuzeit (Dun Scotus, Suarez, Wolff, Kant, Peirce), Meiner, Hamburg 1990
O. Boulnois, Être et représentation. Une généalogie de la métaphisique moderne à l’époque de Duns Scot, Vrin, Paris 1999
J.F. Wippel, The Metaphysical Thought of Thomas Aquinas. From Finite Being to Uncreated Being, The Catholic University of America Press, Washington D.C. 2000
F.X. Putallaz, Introduction a Duns Scot, Traité du premier principe - Tractatus de primo principio, Vrin, Paris 2001
P. Porro, Prefazione ad Avicenna, Metafisica, a. c. di O. Lizzini e P. Porro, Bompiani, Milano 2002


Università di Siena - Facoltà di lettere e filosofia
Manuale di Filosofia Medievale on-line

| Index | |La Filosofia nel Medioevo | | Caratteri fondamentali | | Interpretazioni |
| Medioevo e Filosofia Moderna| | Studio del Medioevo|