Linea dorata

Averroismo latino

L’averroismo latino rappresenta uno dei luoghi storiografici più dibattuti nello studio del pensiero medievale nel corso del Novecento. Il primo ad introdurre tale definizione fu Ernest Renan, autore ottocentesco, che dedicò una monografia, recentemente ristampata, al filosofo e giurista andaluso Averroè e ai suoi seguaci latini. Imbevuto di spirito positivista, lo scritto di Renan fa di Averroè e dei cosiddetti averroisti i campioni della razionalità in epoca medievale, attribuendo loro il merito di aver fatto emergere la luce della ragione in un periodo, il medioevo, in cui rimaneva nascosta, quando non addirittura soffocata. La storiografia successiva (Pierre Mandonnet, Fernand Van Steenberghen, Pierre Duhem, Martin Grabmann, per citare solo i più importanti) ha approfondito il tema, dando valutazioni tra loro divergenti riguardo al valore e al contributo filosofico che questi autori avrebbero offerto alla storia del pensiero occidentale, e, soprattutto, hanno dato impulso all’edizione dei testi.

Fonti e temi. L’introduzione nell’Occidente latino dei commenti di Averroè ad Aristotele avviene, come per le opere naturali e la Metafisica dello Stagirita, al momento della nascita delle Università. In particolare, un numero considerevole dei suoi commenti fu tradotto intorno agli anni 1220-’35 da Michele Scoto. Insieme ad Avicenna, Averroè rappresentò una delle fonti più autorevoli su cui fondare l’interpretazione del Philosophus per antonomasia, Aristotele: per questo egli veniva correntemente denominato Commentator, il “commentatore”. A lui si ascrivono gli ‘errori’ filosofici più pericolosi per la fede cristiana, ovvero l’unicità dell’intelletto e l’eternità del mondo, cui aderirono i maestri della facoltà di arti poi detti ‘averroisti latini’. A causa della circolazione di tali interpretazioni eterodosse della filosofia naturale aristotelica, si rese necessaria per i due grandi teologi domenicani, Alberto Magno e il suo allievo Tommaso d’Aquino, l’opera di commento sistematico degli scritti del Filosofo, nel tentativo esplicito di conciliare le sue posizioni con quelle della dottrina cristiana.
L’unicità dell’intelletto possibile e agente) fu sostenuta in realtà solo nella seconda metà del XIII secolo, da un numero ristretto di maestri, il cui esponente più celebre è Sigieri di Brabante, autore delle Quaestiones in tertium de anima. In quest’opera Sigieri aderisce all'interpretazione che Averroè dava di De anima III, 8: l'intelletto è l'ultima delle sostanze separate, che si unisce a ciascun uomo per astrarre, dai "fantasmi" dell'immaginazione (la facoltà più alta dell'anima vegetativo-sensitiva che è entelechia dell'uomo), gli intelligibili. Questa posizione fu oggetto di confutazione nel De unitate intellectus contra Averroem (resoconto rielaborato della cosiddetta “disputa di Anagni” del 1256) di Alberto Magno e nel De unitate intellectus contra averroistas (1270) da parte di Tommaso d’Aquino. Diverso è il caso della tesi dell’eternità del mondo: su questo delicato punto, anche Tommaso d’Aquino sostenne l’impossibilità della dimostrazione razionale della Creazione, che deve esser creduta per fede. Il maestro di arti che tuttavia è a tutt’oggi noto per aver aderito su questo tema alla posizione eterodossa condannata nel 1277 è Boezio di Dacia, con il suo trattato De aeternitate mundi. La sua tesi consiste nell'affermazione di un legame di necessità fra la Causa Prima ed il suo effetto, che fa sì che non si possa concepire un momento in cui l'effetto non era ancora stato causato; ne consegue non soltanto la negazione dell'atto della creazione del mondo, ma anche l'idea della eternità della specie umana.

La 'doppia verità'. Le edizioni e traduzioni dei testi realizzate in questi ultimi anni hanno reso possibile una miglior comprensione del pensiero di questi due maestri di arti. Più che averroisti, sono stati definiti dalla storiografia contemporanea, ‘aristotelici eterodossi’ (o ‘aristotelici radicali’, o ‘aristotelici integrali’) in virtù della loro indiscussa fedeltà ad Aristotele che li avrebbe condotti, sui punti di incompatibilità tra il pensiero dello Stagirita e la fede cristiana, ad ipotizzare una dottrina celebre come della ‘doppia verità’ (verità secundum quid e verità simpliciter), meglio interpretabile come una distinzione di piani tra il dato rivelato e i risultati della speculazione filosofica, intesa come indagine razionale rigorosa. In questa prospettiva le verità filosofiche non pretendevano di essere la Verità, ma, appunto, "verità filosofiche" - cioè relative ad una disciplina. Aristotelici convinti, gli averroisti non potevano dissentire dall'affermazione contenuta nell'Etica Nicomachea, secondo la quale "ogni cosa vera si accorda con la verità"; infatti quello che mettevano in discussione non era l'unità della verità, ma l'unità del sapere: la filosofia come sapere specializzato era il fulcro della loro posizione, che si esprime nell'uso frequentissimo della frase "loquens ut naturalis" (parlando da filosofo naturale) e che viene oggi più imparzialmente (e storicamente) giudicata come il frutto di un impegno per dare dignità culturale alla loro coscienza professionale di maestri della Facoltà delle Arti. "Il filosofo deve determinare ogni problema che, come tale, coinvolge la ragione, e chiunque sostiene il contrario non sa quel che dice", afferma perentoriamente Boezio di Dacia. I primi a dare notizia delle tesi averroistiche furono teologi come Bonaventura e Alberto Magno; stando alle loro denunce, a partire dagli anni '60 la presenza di un gruppo di sostenitori di queste tesi nell'università di Parigi cominciò ad assumere consistenza.

L'autonomia del discorso filosofico. Ancor più che dal contenuto dottrinale stesso, chiaramente al limite, quando non apertamente fuori dell’ortodossia, agli occhi dei teologi il pericolo maggiore rappresentato da questo gruppo di filosofi doveva consistere nell’autonomia che, a loro giudizio, va riconosciuta al discorso filosofico; svincolato dai presupposti teologici, l’esercizio della ragione poteva condurre ad un conflitto con le verità di fede. Benché apertamente sconfessato dagli aristotelici, perché al sapiente non poteva sfuggire l’infallibilità della parola di Dio rispetto alla debolezza del ragionamento umano, questo conflitto, se divulgato, avrebbe provocato confusione e condotto all’errore i più semplici. Proprio dal timore delle conseguenze nasce l’atteggiamento di totale chiusura nei confronti di tale approccio alla filosofia, che condusse alle condanne del 1270 e del 1277.
L’attacco dei teologi continuò anche negli anni successivi: Egidio Romano, allievo di Tommaso d’Aquino, proseguì nell’opera critica del maestro; con maggiore veemenza reagì alle tesi averroistiche Raimondo Lullo, che si concentrò sull’attacco e la confutazione di queste nel secondo periodo parigino (1309-1311). Le condanne e le ripetute critiche dei teologi non riuscirono ad impedire ai maestri di arti di proseguire nell’indagine filosofica seguendo le linee già tracciate da Sigieri e Boezio: tra la fine del XIII e l’inizio del XIV secolo si attesta infatti l’opera dei parigini Giovanni di Jandun, Egidio di Orleans, Giacomo di Douai. Già durante il XIV secolo la risonanza delle tesi incriminate si propagò oltralpe, spostando il centro dell’averroismo a Bologna che divenne un importante centro di filosofia naturale: tra le figure che caratterizzarono l’insegnamento bolognese si ricordano quelle di Gentile da Cingoli, Angelo d’Arezzo, Taddeo di Parma. Il secolo successivo vide l’impiantarsi della tradizione averroista nel contesto dell’università di Padova, dove permase fino al pieno Cinquecento, conquistando ampia fama grazie ad alcuni dei suoi più illustri esponenti, come Paolo Nicoletti, detto Paolo Veneto, Gaetano di Thiene, Agostino Nifo.(PB)

Bibliografia

V. Sorge, «L’aristotelismo averroistico negli studi recenti», Paradigmi 50 (1999).
O. Todisco, Averroè nel dibattito medievale : verità o bontà?, Milano 1999 (Collana di filosofia, 102).
M.Campanini, L’intelligenza della fede: filosofia e religione in Averroè e nell’averroismo, Bergamo 1989 (Quodlibet)
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Università di Siena - Facoltà di lettere e filosofia
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