Medicina
Malattia e santità.
Nel mondo latino, durante i primi secoli successivi
alla caduta dell’Impero romano, il peggioramento
delle condizioni di vita con il conseguente
aumento di malattie endemiche ed il presentarsi
di epidemie si accompagnano alla parallela decadenza
delle scuole di medicina tardo-antiche, mentre
la diffusione del cristianesimo introduce un
elemento di valorizzazione della sofferenza
fisica sconosciuto all’età classica.
La correlazione fra malattia e santità
si articola in molteplici aspetti: dai miracoli
di guarigione operati dal santo o dalla santa,
alle sofferenze che ne caratterizzano spesso
la vita, attraverso una vera e propria pedagogia
del dolore si arriva a concepire la malattia
come segno dell’intervento divino nella
vita umana e come via privilegiata d’accesso
alla perfezione cristiana. La sopravvivenza
di metodi tradizionali di cura basati sui ‘semplici’
(i farmaci della tradizione galenica, erbe e
sostanze del mondo naturale cui si riconoscevano
effetti capaci di contrastare i diversi sintomi
morbosi) si accompagna, nella cultura monastica,
ad una riflessione che la stessa Regola benedettina
impone sulla condizione del malato, dando ai
monasteri un ruolo di rilievo nell’ambito
dell’assistenza ai malati, senza tuttavia
che questo significhi un rivolgere l’attenzione
esclusivamente o in primo luogo ai bisogni del
corpo: è alla salute dell’anima,
prima che a quella del corpo, che il monaco
e più in generale il cristiano alto-medievale
è invitato a pensare. <testo 1>
Esemplare esponente della medicina monastica
e anche della lettura simbolica della malattia
fu, nel XII secolo, la badessa benedettina Ildegarda
di Bingen. Al di fuori dei monasteri sopravvivevano,
certo, le conoscenze soprattutto farmacologiche
in testi latini quali la Storia naturale di
Plinio e la Materia Medica di Dioscoride, ma
non erano oggetto di studio sistematico, se
non in alcune aree periferiche legate alla civiltà
bizantina, quali Ravenna e l’Italia meridionale,
dove l’insegnamento della medicina sulle
basi classiche delle dottrine ippocratiche e
galeniche continuò ad essere impartito
nella forma tradizionale della trasmissione
di abilità cliniche e competenze farmacologiche
da maestro a discepolo (spesso da padre a figlio
o a figlia). Il divieto che il diritto canonico
faceva ai chierici di contatto con il sangue
fece sì che della medicina, ed in particolare
del suo ramo operativo (la chirurgia) si occupassero
esclusivamente laici; e ritardò di molto
il ricorso all’anatomia nello studio della
fisiologia umana (le prime ricerche anatomiche
di età medievale si avranno solo nel
XIV sec.; l'anatomia era stata praticata nella
civiltà tardo-antica). Nelle città,
in particolare nelle regioni mediterranee, erano
spesso presenti medici ebrei, la cui abilità
clinica si accompagnava alla conoscenza della
trattatistica araba.
La scienza della guarigione.
L’interesse per il sapere medico fu infatti
molto vitale nella civiltà islamica,
dove alcuni fra i più grandi filosofi
(al-Kindi,
Avicenna,
Averroè)
praticarono la medicina e ne scrissero. Alle
origini della cultura
filosofica e scientifica dell’Islam
c’erano le traduzioni di testi greci e
siriaci che includevano le opere di Ippocrate
e Galeno, e fra gli intellettuali cristiani
ed ebrei che operarono nei centri culturali
del mondo islamico spiccano alcuni medici, come
Isacco Israeli e Hunain Ibn Ishaq (noto ai latini
come Joannitius, m. 873/877). Alla metà
del X secolo la medicina come sapere teoretico
entrò a far parte della classificazione
delle arti e delle scienze: al-Farabi
la considera una parte della filosfia naturale
e così il medico Haly, che la suddivide
in arte dell’acquisizione e arte della
conservazione della salute; altri autori, fra
cui Joannitius, propongono invece una divisione
in teoria e pratica. Molti di questi autori
elaborarono le loro dottrine nel commento a
testi classici, in particolare all’Arte
medica di Galeno, che presso i latini fu nota
col titolo di Tegni (da techne, arte in greco).
Avicenna produsse la più corposa sistemazione
del sapere medico della classicità e
degli sviluppi di esso nel mondo arabo: il Canone,
che comprendeva teoria e pratica della medicina,
includendo fisiologia, psichiatria, farmacologia;
accanto ad esso possiamo collocare le opere
di Razi (864-925), persiano come Avicenna, medico
d’osservazione e studioso di casi clinici,
autore di due testi tradotti nel corso del XII
secolo (Liber Almansoris e Liber continens)
che, assieme al Canone avicenniano, contribuirono
a rinnovare la medicina occidentale favorendone
l’inserimento nel corpo delle dottrine
scolastiche. Come gli altri saperi concernenti
il mondo dei corpi, la medicina fu oggetto di
grande interesse da parte dei traduttori del
XII secolo, che introdussero presso i latini
tutti i grandi trattati medici arabi e molte
opere di carattere monografico. Nell’Italia
meridionale, dove più forti erano le
sopravvivenze della cultura antica, la tradizione
medica si era conservata a Salerno, sviluppandosi
in una vera e propria scuola dove, con l’apporto
dei nuovi testi, l’insegnamento di tipo
orale basato sull’apprendistato venne
rapidamente acquisendo le caratteristiche delle
scuole
cittadine, ed iniziò ad essere impartito
in forma di commento, dando luogo anche a una
produzione scritta che si articolò nei
diversi generi
propri delle scuole. In questa trasformazione
ebbe un ruolo chiave un medico di origine africana,
Costantino, che introdusse opere e dottrine
degli arabi e scrisse diverse importanti opere
di argomento medico, fra cui una esposizione
generale (Pantegni), presentando la medicina
come scienza <testo 2 >.
Dottrine mediche in
età scolastica. L’insegnamento
delle dottrine mediche nelle università
si strutturò inizialmente attorno alla
Isagoge di Joannitius, dando ben presto luogo
a un acceso dibattito sul rapporto con la modalità
tradizionale di apprendimento empirico della
pratica clinica e farmacologica, il cui risvolto
epistemologico era la definizione della medicina
come arte o scienza. Il dibattito si sviluppò
a Montpellier, dove l’insegnamento della
medicina era patrimonio degli intellettuali
ebrei e dove ancora negli ultimi decenni del
Duecento l’attività di traduzione
dall’arabo era consistente; e a Parigi,
dove nella nascente università ci si
interrogò a lungo e in forme molto articolate
sulla natura della disciplina insegnata in una
delle due facoltà
‘professionalizzanti, quella medica appunto.
L’introduzione del Canone di Avicenna,
che dapprima affiancò e poi soppiantò
l’Isagoge di Joannitius nell’insegnamento,
fu uno dei fattori decisivi per la definitiva
legittimazione teorica della medicina. Nella
discussione scolastica la medicina venne subalternata
alla filosofia
naturale, perché si basava sui quattro
elementi (fuoco, aria, acqua, terra) e le quattro
qualità fondamentali (caldo, umidito,
freddo, secco). Con essi la dottrina galenica,
base delle elaborazioni arabe della medicina
teorica, spiegava sia la fisiologia umana con
la teoria umorale (i quattro umori: sangue,
colera o bile gialla, flegma, melancolia o bile
nera corrispondono a fuoco/calore, aria/umidità,
acqua/freddo, terra/siccità); sia la
patologia, considerando le malattie come alterazioni
nei rapporti fra i quattro umori; sia la farmacologia,
mediante la nozione dei gradi degli elementi
secondo cui tutti i corpi naturali contengono
in misura diversa le quattro qualità
elementari, ed a seconda di quella prevalente
possono essere impiegati per rimediare allo
squilibrio umorale prodottosi nel corpo umano.
Tuttavia il raccordo fra la teoria e la pratica
medica non era sempre agevole, come mostra bene
la discussione su come si debba definire propriamente
lo stato di salute: l’equilibrio neutrale
fra gli elementi (temperamentum aequalis) o
l’equilibrio della complessione individuale
(sanguigna, collerica, flegmatica, umorale)?
e la preparazione dei farmaci deve obbedire
a regole matematiche o all’efficacia empiricamente
accertata? La discussione su che cosa significhi
‘dimostrare’ in ambito medico rimase
accesa per tutta l’età medievale:
alle tendenze empiriche, legate alla sopravvivenza
di elementi ippocratici e ben espresse nelle
opere del grande medico catalano Arnaldo da
Villanova, che fu archiatra di Bonifacio VIII
e scrisse, fra l’altro, uno Speculum medicine
e un trattato di Aforismi sulla graduazione
degli elementi nei farmaci (Aphorismi de gradibus:
si noti il richiamo nel titolo agli Aforismi
per antonomasia, quelli di Ippocrate), si contrapponeva
il razionalismo di autori come Ruggero
Bacone; al volgere del secolo il medico
italiano Pietro d’Abano scrisse un’opera
significativamente intitolata Conciliator <testo
3 >, ove si proponeva appunto di risolvere
le divergenze fra medicina e filosofia aristotelica,
sull’onda dell’imponente sviluppo
che la medicina scolastica aveva conosciuto
nelle università italiane, in primo luogo
a Bologna, legandosi sul piano filosofico all’interpretazione
averroistica di Aristotele. Medici come
Taddeo Alderotti, Pietro Torrigiani, Ugo Benzi
danno inizio a una tradizione di insegnamento
che durerà sino al Rinascimento e oltre,
quella cui si contrappone Francesco Petrarca
nelle Invective contra medicos e che sarà
nell’età umanistica al centro della
cosiddetta ‘disputa delle arti’.
(MP)
Bibliografia
J. Agrimi, C. Crisciani, Medicina del corpo,
medicina dell’anima, Episteme, Milano
1979
J. Agrimi, C. Crisciani, Edocere medicos. Medicina
scolastica nei secoli XIII-XV, Guerini, Milano
1988
G. Cosmacini, Medicina e mondo ebraico. Dalla
Bibbia al secolo dei ghetti, Laterza, Bari 2001
M. Grmeck, Storia della medicina in Occidente,
vol. I, Laterza, Bari 1996
D. Jacquart, La médecine médiévale
dans le cadre Parisien, Fayard, Paris 1998
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