Le traduzioni
I testi dell'antichità greca posseduti
nel medioevo occidentale erano pochissimi:
le Categorie e il De interpretatione di
Aristotele, il Timeo di Platone, mutilo
della parte finale ma accompagnato dal
commento di Calcidio (VI sec.). Dei testi
delle scuole filosofiche tardo antiche,
a parte l’Isagoge di Porfirio, si
erano conservati quasi solo frammenti,
citati in funzione polemica o apologetica
nelle opere dei primi Padri cristiani
oppure raccolti in antologie, florilegi,
catene.
Molte opere erano però sopravvissute
grazie alle traduzioni siriache effettuate
da cristiani nestoriani fuggiti dall'Impero
Romano d'Oriente nella Siria per motivi
religiosi nel IV-V sec., ed erano state
in gran parte tradotte in arabo. Nel XII
sec., intensificatisi gli scambi culturali
in tutta l'area del Mediterraneo, nelle
zone di confine (Spagna, Sicilia, Italia
meridionale) alcuni intellettuali (fra
cui spiccano Ugo di Santalla, Ermanno
di Carinzia, Adelardo di Bath, Roberto
di Chester -il traduttore del Corano-,
Bartolomeo da Messina) dettero impulso
ad un'opera di traduzione dei testi scientifici
e filosofici, che divennero immediatamente
oggetto di studio, arricchendo i contenuti
della cultura occidentale e assecondandone
lo sviluppo. In particolare veicolarono
idee aristoteliche prima della traduzione
dei testi dello stesso Aristotele e introdussero
l'idea di origine ermetica della possibilità
per l'uomo di modificare la natura. Poiché
difficilmente si trovavano traduttori
che fossero padroni sia della lingua araba
che di quella latina, molte volte l'interpretazione
del testo era effettuata da un "mediatore"
orale (spesso ebreo), che leggeva testo
nella lingua volgare al "traduttore”;
e questi lo traduceva dal volgare al latino,
mettendolo per scritto. In altri casi,
soprattutto nell'Italia meridionale dove
in diversi luoghi la lingua greca era
ancora in uso, vennero tradotti direttamente
i testi greci. |