Musica e società

 

Le questioni che emergono quando si osservano le relazioni tra fenomeni musicali e i contesti sociali in cui essi si manifestano sono sostanzialmente tre: il concetto di musica è costruito socialmente? Qual è la funzione sociale della musica (v. Le funzioni della musica)? La musica è in grado di influenzare l’organizzazione sociale o, viceversa, l’organizzazione sociale determina forme, contenuti e strumenti dell’esperienza musicale?

Malgrado si tratti di problematiche determinanti per una maggiore comprensione del ruolo della musica nelle comunità umane, lo studio delle relazioni tra musica e società ha faticato a imporsi nel dibattito musicologico, condizionato dalla prevalenza di un’inclinazione storica e analitica (v. Le discipline musicologiche).

La stessa area di ricerca che dovrebbe indagare tali aspetti – la sociologia della musica – non solo si è costituita come disciplina soltanto a partire dai primi decenni del Novecento, ma ha anche trovato difficoltà nel difendere la propria autonomia e nel trovare strumenti culturali adatti a sviluppare i propri studi. Identificata come ramo minore della sociologia o come filone poco ortodosso degli studi musicologici, la sociologia della musica ha visto disperdere molte energie nei tentativi di circoscrivere il proprio campo d’indagine, a lungo compressa tra lo scetticismo dei formalisti – per cui le opere musicali sono regolate da leggi e istanze autonome rispetto alla società in cui vengono prodotte e recepite – e il meccanicismo della prospettiva contenutista, che tende a stabilire stringenti rapporti di causa-effetto tra strutture sociali e pratica musicale. Solo a partire dagli anni ottanta del secolo scorso gli studi sulle relazioni tra musica e società hanno assunto una dimensione più ricca e organica grazie all’incontro tra sociologia della musica, etnomusicologia e cultural studies.

Di seguito cercheremo di delineare brevemente le tappe principali del percorso di affermazione della sociologia della musica, evidenziandone i principali protagonisti e le riflessioni più significative.

Musica e società prima della sociologia della musica. Le ragioni di un ritardo

L’idea che sussistano importanti relazioni tra musica e società non è, ovviamente, una scoperta del XX secolo; l’interpretazione di tali relazioni nella storia del pensiero occidentale, tuttavia, è forse la causa principale del ritardo con cui la sociologia della musica si è affermata come disciplina.

Nel pensiero antico, e per lunghi secoli in seguito, è la seconda domanda – qual è la funzione sociale della musica? – a costituire l’oggetto di riflessione; da Platone in poi, è la musica che può determinare – obbedendo a precise prescrizioni etiche – la formazione di una buona società. Ciò riflette una concezione di musica a lungo dominante nella filosofia occidentale (v. Musica e filosofia), che si disinteressa della sua dimensione pratica e la interpreta come combinazione di proporzioni matematiche che riflettono l’ordine del cosmo (o, nella prospettiva cristiana, del creato).

Quando tale paradigma verrà messo in crisi – prima dall’Illuminismo e poi, con più decisione, dal Romanticismo – si assisterà a un progressivo cambio di atteggiamento, seppure in una direzione che ancora non favorirà lo studio della musica in una prospettiva sociale. Se infatti Rousseau (1712-1778) – identificando nella società organizzata l’allontanamento dallo stato di natura e parallelamente nell’evoluzione del linguaggio un progressivo allentamento dell’originale forza comunicativa della musica – seppure in una luce negativa coglie una relazione tra dinamiche sociali e musica, nel pensiero romantico lo sbilanciamento verso l’esperienza musicale individuale (compositiva o performativa) confina la società nei ruoli passivi di spettatrice, seguace o oppositrice della volontà di potenza dell’artista.

I pionieri – Musica e società in Georg Simmel, Max Weber e Alfred Schutz

Solo nel Novecento, quando la musica abbandona i circuiti elitari aristocratici prima e borghesi poi per diventare – con l’avvento dei mezzi di riproduzione (v. Tecnologie) – prodotto e fenomeno di massa, emergono le prime riflessioni di carattere autenticamente sociologico sulla musica. Si tratta di esperienze isolate e frammentarie, legate prevalentemente alle inclinazioni musicali individuali di sociologi e filosofi.

Georg Simmel (1858-1918) evidenzia da un lato la socialità dell’esperienza dell’ascolto, capace di sintonizzare molte persone sullo stesso brano musicale, sottolineando dall’altro come la musica esprima sotto diversi aspetti gli elementi costituitivi di una comunità. Non senza qualche semplificazione, Simmel identifica nella melodia il parametro musicale che esprime il carattere di un gruppo sociale, nell’armonia l’indicatore del grado di complessità di una società e nell’evoluzione del ritmo – presenza forte e ripetitiva già in età preistorica, che nella società moderna diventa realtà frenetica e irregolare – uno degli elementi di spersonalizzazione della contemporaneità. Compito del buon compositore è, per Simmel, far emergere nel modo più autentico la “voce” della comunità di cui fa parte.

Max Weber (1864-1920) inserisce la riflessione sulla musica nel quadro complessivo del suo pensiero, dominato dall’idea che l’affermazione della società moderna sia il risultato di un processo di razionalizzazione e di crescente dominio tecnico sulla realtà. La musica non fa eccezione ed è anzi uno dei motori di tale processo; Weber ricostruisce così una storia del linguaggio musicale che muove dal perfezionamento tecnico degli strumenti e delle pratiche esecutive e compositive. In questa prospettiva, ad esempio, la diffusione del pianoforte facilita sia lo sviluppo del virtuosismo che la pratica dei dilettanti, rispondendo così alle esigenze differenziate della società di massa. Al perfezionamento degli strumenti corrisponde, nella visione sin troppo meccanica e normativa di Weber, l’evoluzione del linguaggio compositivo, che progressivamente si libera delle regole della tonalità, per aprirsi a una libertà creativa priva di direzione che trova corrispondenza in una società in cui il dominio tecnico formale ha il sopravvento sui contenuti.

Alfred Schutz (1899-1959) sviluppa le sue considerazioni sociologiche a partire da posizioni fenomenologiche. Cogliendo soprattutto la dimensione temporale dell’oggetto musicale (v. Tempo), identifica due livelli comunicativi nell’esperienza dell’esecuzione, uno più generale e l’altro più specifico. Il primo riguarda il solo interprete: Schutz suggerisce che ogni esecuzione sia guidata da una forma di precomprensione del brano, precomprensione determinata dagli insegnamenti ricevuti, dagli ascolti fatti, dalle proprie esecuzioni, dal periodo storico in cui vive, ecc. Una precomprensione socialmente derivata e socialmente approvata, che consente al musicista di adeguare la propria esecuzione particolare a dei tipi ideali generali (con il termine tipi Schutz intende le forme dell’apriori della conoscenza). Per descrivere il secondo livello di comunicazione dell’esperienza musicale, Schutz prende in esame la situazione del concerto, rilevando come la natura temporale della musica renda possibile che un avvenimento del tempo esterno quale l’esecuzione consenta all’interprete di ricostruire il flusso interno di coscienza del compositore e renderne partecipe l’ascoltatore. In tal modo la musica agisce come forza sincronizzante delle singole durate (la durée bergsoniana) dei partecipanti al concerto, fa sì che essi invecchino insieme, cioè condividano il medesimo tempo. Si instaura quindi una relazione di simultaneità tra esecutore e ascoltatore e di quasi-simultaneità tra ascoltatore e autore. La musica consente perciò di stabilire una relazione intersoggettiva che, estranea al linguaggio, possiede tutte le caratteristiche della relazione di mutua sintonia, una situazione di condivisione pre-comunicativa. Secondo Schutz si può dimostrare che ogni forma di comunicazione è derivata da questa interazione sociale esemplare.

Theodor W. Adorno e la sociologia della musica

Le riflessioni appena riportate sono frammentarie o occasionali all’interno del sistema di pensiero degli autori citati. Il primo contributo organico allo studio delle relazioni tra musica e società viene sviluppato da Theodor Wiesengrund Adorno (1903-1969). Muovendo da posizioni marxiste, Adorno sostiene l’esistenza di un rapporto di causa-effetto tra l’organizzazione delle strutture sociali e quella delle strutture musicali; così, ad esempio, la musica di Beethoven e la peculiare organizzazione della forma sonata sono riflessi dell’affermazione della borghesia, mentre la musica di Chopin è il prodotto dei salotti in cui viene pensata ed eseguita.

Uno dei tratti che caratterizzano la società moderna, in cui il mercato ha acquisito una forza dominante crescente, è secondo Adorno la progressiva trasformazione della musica in prodotto di consumo di massa, in maniera più evidente nella forma del jazz e delle canzonette. A questa “falsa coscienza”, il filosofo contrappone quella autentica della musica colta, capace di esprimere – anche attraverso sperimentazioni radicali – le contraddizioni e le aporie del sistema sociale in cui si dispiega.

Di questa impalcatura concettuale – che tuttavia, nella caratteristica struttura “a costellazioni” del pensiero adorniano, si arricchisce di punti di vista diversi e a volte contraddittori – Adorno si serve per prendere in esame numerosi aspetti della pratica musicale – dall’opera lirica alla direzione d’orchestra, dalla critica musicale ai rituali di consumo – pervenendo a una classificazione delle tipologie di ascoltatori – dagli esperti che padroneggiano la tecnica agli a-musicali, passando per gli ascoltatori sentimentali e i consumatori di musica.

L’esteso lavoro di analisi serve ad Adorno per delineare gli obiettivi della sociologia della musica, che nella sua prospettiva corrispondono in primo luogo a una descrizione delle relazioni tra potere politico-economico e prassi musicale in un dato quadro sociale, evidenziando come l’ideologia dominante manipoli le coscienze attraverso la deformazione dei sistemi di produzione musicale e quali forze si oppongano a simili tendenze.

I mondi dell’arte e la critica sociale del gusto

La sociologia della musica di Adorno – anche per stessa ammissione del filosofo coincidente con la sua visione estetica – ha costituito un termine di confronto irrinunciabile per il dibattito successivo, scatenando tuttavia anche molte opposizioni. La sociologia empirica americana, che predilige l’approccio interazionista, con il suo più autorevole rappresentante Howard Becker (n. 1928) ha messo in discussione i presupposti della sociologia adorniana, giudicando semplicistico interpretare meccanicamente le relazioni tra struttura sociale e musica, sia perché la struttura sociale è un’astrazione che spesso corrisponde a un’indistinta generalizzazione, sia perché è erroneo considerare il significato musicale come immanente al fenomeno e immodificabile.

L’approccio suggerito da Becker considera al contrario il significato musicale come determinato socialmente, nella concreta collaborazione tra soggetti coinvolti nella pratica musicale e contesto culturale di riferimento. È la teoria dei “mondi artistici”: ogni gruppo sociale produce e si riconosce in istituzioni e pratiche musicali precise, dotate di significato relativo in una prospettiva assoluta, ma assoluto nella sua relatività. Non ha quindi alcun senso, in tale prospettiva, giudicare un repertorio, un genere o una prassi musicale più o meno artistici di altri in generale; ciascun fenomeno musicale si può valutare solo in rapporto al mondo artistico in cui vede la luce.

Ulteriori elementi di riflessione critica sulla prospettiva adorniana emergono, seppure indirettamente, nell’opera di Pierre Bourdieu (1930-2002), che attraverso un’imponente indagine statistica giunge a dimostrare come i gusti musicali – e i giudizi estetici che da essi derivano – siano il prodotto delle differenze sociali esistenti: l’alta borghesia, ad esempio, apprezza Bach, mentre la classe operaia è gratificata dai valzer degli Strauss. È un passo ulteriore rispetto a Becker: non solo il significato della musica è costituito socialmente, ma anche la formulazione dei giudizi estetici (v. Valore e giudizio estetico) è determinata dall’appartenenza a una classe sociale. La posizione di Adorno, con la sua pretesa che esista una musica autentica che riflette le contraddizioni del reale e si oppone a prodotti sonori di massa, non è dunque antisistemica come pretenderebbe, ma anzi non fa che rafforzare le differenze sociali esistenti.

A partire dagli anni settanta, infatti, soprattutto in ambito anglosassone, gli esiti del pensiero di Becker e Bourdieu alimentarono gli studi di una nuova generazione di musicologi, che criticò ancor più duramente le posizioni di Adorno.

Etnomusicologia, popular music, gender studies: verso una nuova sociologia della musica

L’affermazione dell’etnomusicologia suggerì una crescente diffidenza nei riguardi di ogni astratto concetto di musica d’arte, privilegiando lo studio e la descrizione dei fenomeni musicali in azione all’interno di un determinato gruppo sociale; di più, lo stesso esercizio della sociologia della musica prese sempre più a connotarsi come strumento politico. Testi come il celebre How Musical Is Man? (Com’è musicale l’uomo?) di John Blacking (1928-1990), muovendo da posizioni marxiste ma ribaltando la prospettiva adorniana, utilizzano gli esiti degli studi etnomusicologici per corrodere alle fondamenta le gerarchie estetiche della musica occidentale, mostrando come i rapporti di potere abbiano trasformato in leggi semplici convenzioni sociali, snaturando la percezione e la descrizione dell’esperienza musicale.

Autori come John Shepherd (n. 1947) e soprattutto Simon Frith (n. 1946) misero in discussione l’idea che la popular music potesse essere considerata una categoria indistinta e degradata complessivamente a prodotto commerciale. I loro studi, al contrario, erano tesi a dimostrare come il rock esprimesse musicalmente le istanze di gruppi sociali avversi all’ordine costituito, interpretando proprio quella funzione di critica del potere che Adorno riteneva appannaggio esclusivo della musica colta.

L’atteggiamento critico nei confronti dello strapotere concettuale della teoria musicale mutuato da Blacking dall’osservazione delle pratiche musicali di gruppi sociali non-occidentali, caratterizza negli anni ottanta anche riflessioni e contributi polemici sui rapporti tra musica e società interni alla musica occidentale, in particolare nell’ambito della New Musicology. Susan McClary (n. 1946) – così come, in maniera più o meno polemica, Eva Rieger, Marcia J. Citron, Ellen Koskoff e altre studiose che hanno animato il dibattito musicologico a partire dalla fine degli anni ottanta – da una prospettiva femminista studia storia, forme e generi musicali del repertorio colto come dispiegamento dell’impianto maschilista della società occidentale. In questa scia si svilupperanno i cosiddetti gender studies, che descrivono le connessioni tra identità – sessuale soprattutto, ma anche etnica e religiosa – e pratiche musicali e rappresentano uno dei filoni più ricchi e complessi della recente sociologia della musica.

È interessante osservare come approcci simili – pur sviluppandosi da presupposti concettuali del tutto diversi e persino in aperta contrapposizione con il modello di sociologia musicale delineato da Adorno, di cui intendono mostrare la dipendenza pregiudiziale da un sistema di valori arbitrario e ideologico – finiscano paradossalmente per confermare l’idea adorniana di una connessione profonda tra strutture e dinamiche sociali e produzione musicale.

Pensare musica e società oggi

Dopo gli anni novanta, la sociologia della musica si nutre sempre più di contaminazioni con altre aree del sapere come antropologia, psicologia, filosofia, statistica e, negli ultimi decenni, il vasto settore dei cultural studies. Si può quindi parlare di una natura liquida di questo ambito di studi, di un atteggiamento che interessa ormai gran parte del dibattito musicologico.

I temi più discussi e studiati negli ultimi anni sono l’identità, la differenza e la globalizzazione, in uno sguardo duplice che tende a considerare sia la specificità delle singole culture che il loro relazionarsi all’interno di uno scenario mondiale composito e in trasformazione. In questa prospettiva ha e avrà sempre più in futuro un ruolo determinante la diffusione dei nuovi media (v. I mezzi di diffusione), che se da un lato produce mutazioni delle pratiche musicali ancora da descrivere e valutare, dall’altro pongono in maniera del tutto nuova il problema del controllo sociale e della libertà dell’individuo, con riflessi significativi sull’organizzazione delle istituzioni musicali (v. Le strutture organizzative) e sulla produzione e diffusione della musica. (AF)



Bibliografia di riferimento

Antonio Serravezza, La sociologia della musica, Torino: EDT, 1980.

Veniero Rizzardi, Musica, politica, ideologia, in Enciclopedia della musica, diretta da Jean-Jacques Nattiez, vol. I, “Il Novecento”, Torino, Einaudi, 2001, pp. 67-83.

Simon Frith, L’industrializzazione della musica e il problema dei valori, in Enciclopedia della musica, diretta da Jean-Jacques Nattiez, vol. I, “Il Novecento”, Torino, Einaudi, 2001, pp. 953-965.

Theodor W. Adorno, Introduzione alla sociologia della musica, Torino: Einaudi, 2002.

Howard S. Becker, I mondi dell’arte, Bologna, Il Mulino, 2004.

Simon Frith, Sociologia del rock, Milano, Feltrinelli, 1982.

John Blacking, Come è musicale l’uomo?, Milano, LIM, 2000.

Susan McClary, Feminine Endings: Music, Gender, and Sexuality, Minnesota, University of Minnesota Press, 1991.