La critica musicale



L’origine etimologica del verbo criticare è “krino”, termine greco che incorpora in sé sia l’idea del giudizio sia quella del discernimento e della scelta. Da questo punto di vista, l’esecuzione, lo studio e l’ascolto di musica, l’acquisto di un disco e, in una parola, tutte le azioni che comprendano una qualsiasi relazione instaurata fra l’uomo e il fenomeno musicale contemplano anche l’esercizio di una capacità critica, ossia, la formulazione di un’opinione. Lo stesso studio dei repertori, delle forme e delle tecniche del passato operato dai compositori passa necessariamente attraverso un atto di selezione che contribuisce in modo determinante alla formazione dei loro linguaggi e stili personali. La critica musicale come professione, o comunque come prassi, dovrebbe pertanto almeno idealmente rifarsi a queste esperienze e tentare di mettere in comunicazione il fatto musicale in tutte le sue forme con il pubblico dei lettori, orientando adeguatamente l’attenzione di quest’ultimo e contribuendo a raffinarne il gusto e le competenze. Per Oscar Wilde, il mestiere del critico pareggiava, e anzi superava per dignità, quello dello stesso artista, dal momento che al primo spettava l’arduo compito di tradurre in verbo e di rendere di conseguenza accessibile ciò che il secondo esprimeva nei linguaggi specifici della propria forma di comunicazione.

Curiosamente, dalla stessa radice greca proviene un altro vocabolo italiano che per molti descrive perfettamente lo stato in cui versa la critica musicale attuale: “crisi”. La condizione del critico professionista che si occupa di musica appare infatti oggi assai più prosaica di quella tratteggiata in precedenza, tanto da indurre non pochi osservatori del panorama culturale contemporaneo a decretarne sic et simpliciter la morte, se non proprio clinica, per lo meno cerebrale.

Vista dalla prospettiva di un normale frequentatore ottocentesco di giornali musicali e non, magari di estrazione alto borghese e di nazionalità francese o tedesca, ma anche italiana, la professione della critica musicale potrebbe sembrare oggi effettivamente defunta. Il giornalismo musicale del XIX secolo, di cui sopravvivono ancor oggi esempi magistrali vergati dalle penne di compositori del calibro di Robert Schumann e Hector Berlioz, era infatti principalmente orientato alla presentazione delle nuove composizioni che si proponevano al pubblico, cui si affiancava immancabilmente una valutazione e un giudizio puntuale, più o meno severo. Scorrendo invece le pagine dedicate alla cultura dai principali quotidiani nazionali odierni, soprattutto italiani, così come dalle riviste specializzate di carattere divulgativo, sarà pressoché impossibile trovare articoli che recensiscano musiche di nuova composizione e, qualora se ne parli, ciò che più conta non è la loro natura musicale intrinseca, quanto piuttosto l’occasione, l’evento in cui queste si sono celebrate. Eccezion fatta per alcuni casi illustri, che appaiono però quasi come epigoni di una generazione passata, la critica musicale sembra essersi oggi ritirata nei pressi di quel margine dell’orizzonte culturale in cui albergano l’aneddotica, la pubblicità e la cronaca mondana, spinta in questo dalle pressioni esercitate in modo più o meno velato dagli operatori del marketing, legittimamente preoccupati di incontrare il favore del grosso pubblico e di assicurare così una vitalità economica a se stessi e ai prodotti da essi commercializzati.

Una tale situazione, va da sé, non è certo passata sotto il silenzio di quanti, musicisti, musicologi e, soprattutto, lettori, hanno a cuore la preservazione e lo sviluppo dell’acculturazione musicale del proprio paese: dalle osservazioni e dalle lamentele di questi è fiorito un recente dibattito, raccolto peraltro con estremo interesse da molti giornalisti del settore, da cui sono scaturiti alcuni “identikit” aggiornati del critico musicale, delle strategie operative che auspicabilmente dovrebbe intraprendere e delle finalità della sua professione.



Chi è il critico musicale


Nel tracciare un profilo attuale del giornalista musicale modello, uno dei temi più importanti è certamente la definizione delle competenze che egli sarà in grado di mettere in campo sia al momento della fruizione della musica, ascoltata in concerto o in disco, sia nella fase della produzione vera e propria della recensione. È indubbio che la storia della critica musicale ottocentesca e novecentesca sia costellata da nomi il cui contributo allo studio della storia della musica, delle tecniche compositive e dell’estetica testimonia un’ineccepibile preparazione specifica: basterà citare i nomi di E. T. A. Hoffmann, Eduard Hanslick, Cahrl Dahlhaus e Donald Francis Tovey per ottenere un’idea di l’esercizio della critica possa fondarsi sull’approfondimento analitico e su una conoscenza capillare del fatto musicale. Non bisogna però dimenticare che, come insegna un’importante corrente del giornalismo musicale italiano, per stilare validi resoconti di un evento non è necessario partire da una formazione accademica specifica. Molti fra i più noti e celebrati maestri della critica italiana, come per esempio Massimo Mila, Rubens Tedeschi ed Eugenio Montale, per citare tre esempi autorevoli e molto diversi fra loro, provengono infatti da studi classici, benché ovviamente corroborati da un’assidua frequentazione dei repertori musicali. Certo, da chi sceglie di fare della musica una professione ci si aspetterebbe quantomeno che sappia leggere una partitura; tuttavia ciò su cui tutti gli osservatori che si sono espressi sull’argomento concordano è che la qualità principale del critico è l’esperienza acquisita in lunghi anni di assidua ed attenta partecipazione alla vita musicale. Da essa dipendono la sua capacità di riconoscere i tratti significativi di una composizione o di un’esecuzione e quella di sottoporli al vaglio della propria opinione e del proprio gusto, entrambe indispensabili per potersi porre in modo consapevole di fronte alle domande che il pubblico dei lettori vorrà presumibilmente porre al critico. A differenza del musicologo, che, forse erroneamente, si suppone debba parzialmente prescindere dalle proprie inclinazioni estetiche per valutare in modo scientifico l’oggetto delle sue ricerche, il critico musicale è chiamato ad esprimere pubblicamente e a sostenere un’idea personale, la cui pretesa di verità vanta eguali diritti di tutte le altre opinioni simili, quando sufficientemente informate. Tale presa di posizione si potrà fondare in misura variabile su osservazioni di natura tecnica, purché accessibili ai destinatari della critica, su considerazioni estetiche, su impressioni personali e su constatazioni derivate dalla conoscenza e dalla frequentazione dei brani presi in esame. In ogni caso, la recensione non deve essere vista come il momento conclusivo del discorso sulla musica di cui si parla, ma come punto di partenza per un dialogo, anche virtuale, con le conclusioni espresse dalla voce autorevole dell’estensore, o anche solo come incentivo per il lettore alla verifica di tali conclusioni con gli strumenti della propria capacità di discernimento. L’esercizio della critica musicale impone quindi una certa dose di parzialità e soggettività, certamente mediate dalla consapevolezza, come presupposti per la formulazione di un giudizio personale. Essa impone infine anche un grado sufficiente di libertà nella scelta dei soggetti da trattare (non esiste infatti critica più temuta da un musicista del “silenzio stampa”) e dei contenuti da proporre, entrambi spesso predeterminati da scelte redazionali o da convenzioni dettate da un galateo culturale che predilige l’annuncio e la presentazione di un evento al resoconto e al giudizio su esso.



Di cosa parla la critica oggi


Che la critica musicale parli di musica non è un dato né scontato né universalmente accettato. Ne è indicazione evidente lo spostamento delle recensioni musicali dalle pagine culturali dei quotidiani (le vecchie “terze pagine” ormai diventate “penultime”) a quelle dedicate agli “spettacoli”, trasloco che sembra voler indicare una progressiva valorizzazione del carattere di evento dell’esecuzione musicale a discapito dei contenuti che questo vorrebbe veicolare. Buona parte della critica musicale di oggi parla di star, di finanziamenti pubblici, di sponsorizzazioni, di restaurazioni, di politiche culturali e di grandi valori sociali. E anche di musica, ma in modo quasi surrettizio. Le richieste che spesso pervengono alle testate giornalistiche sembrano invece testimoniare un desiderio di tornare a concentrarsi sull’offerta delle stagioni concertistiche e, soprattutto, sull’esecuzione, sulle qualità artistiche sprigionate dagli interpreti e sulla loro capacità (o, eventualmente, incapacità) di fornire agli ascoltatori un’esperienza musicale degna di essere ricordata e commentata. In questo senso, non fa differenza se si tratti di musica “colta” o “popular”, se il concerto si sia tenuto in un prestigioso teatro settecentesco o in uno stadio gremito da una folla urlante: ogni esecuzione trasmette sensazioni, messaggi e idee passibili di essere recepite, meditate, verbalizzate e lette, in un circuito virtuoso tanto per gli addetti ai lavori quanto per il pubblico, effettivo o potenziale.

Dal canto suo, chi scrive per un quotidiano, per un settimanale o per una rivista di larga diffusione deve tenere in debita considerazione le esigenze e la preparazione dei destinatari del suo lavoro: abbiamo già notato come un linguaggio troppo denso di tecnicismi, se non corredati da un’opportuna spiegazione, rischia di sortire l’effetto di disorientare e allontanare i lettori. D’altra parte, un’esposizione esclusivamente metaforica e costellata di aggettivi generici tende ad appiattire le specificità delle opere seguite e della qualità dell’esecuzione. Di un concerto caratterizzato da esecuzioni “impeccabili”, assoli “mirabolanti”, e “superbi” arrangiamenti, si può forse intuire che è stato apprezzato, ma non si capisce perché. La critica che si pone come obiettivo la veicolazione di un’idea maturata su un’esperienza musicale sarà piuttosto chiamata a focalizzare pochi elementi delle composizioni e dell’esecuzione, anche uno solo, e attraverso essi aprire al pubblico il proprio punto di vista sul tutto, addentrandosi nei dettagli soltanto nella misura necessaria a rendere evidenti le motivazioni e gli obiettivi delle proprie osservazioni. D’altra parte, non è possibile individuare uno stile peculiare della critica musicale, un modello perfetto che raggiunga e coinvolga in ugual modo l’erudito, l’appassionato, il musicologo, il curioso e il musicista di professione. È stato infatti più volte affermato che ogni buon critico inventa ed esaurisce il proprio stile personale, che potrà essere di stampo prevalentemente letterario o cronachistico, indulgente o severo, eppure sempre efficace e apprezzato.



A cosa serve la critica

Il recente tramonto della figura del critico musicale professionista è in qualche modo legato a un interrogativo rimasto aperto sulla sua funzione, sia all’interno del contesto in cui il suo contributo prende forma e acquista visibilità (quotidiani, riviste specializzate, telegiornali, ecc…) sia in quello più ampio del pubblico cui tale lavoro è destinato. Da un punto di vista prettamente pratico, la recensione musicale è un articolo di cronaca ed ha a che fare quindi principalmente con l’informazione. Essa deve rendere conto di un avvenimento e fornire ai propri lettori le indicazioni necessarie per comprenderne la natura, la qualità, gli esiti e le finalità. Dal momento però che l’avvenimento di cui si occupa il recensore è, almeno in linea di principio, veicolo di contenuti e messaggi artistici, egli sarà chiamato ad informare il pubblico anche sulla loro portata culturale, sul contesto storico in cui si colloca il repertorio proposto (soprattutto se si parla di musiche poco conosciute) e sui suoi presupposti estetici. Persino il tanto deprecato preannuncio di uno spettacolo è potenzialmente capace di dare una corretta informazione ai potenziali spettatori, mettendoli nella condizione di prepararsi al meglio al programma che si apprestano ad ascoltare e indirizzandone opportunamente l’attenzione. Da presentazione e resoconto, l’articolo del critico diviene quindi un mezzo di diffusione della cultura, uno strumento quasi didattico finalizzato all’estensione dell’educazione alla musica. Esso si fa carico di fornire delle risposte chiare alle domande dei lettori, di rendere le loro stesse impressioni più consapevoli ed articolate, di collegarle a fatti musicali, di creare la curiosità e l’interesse che stanno alla base della fioritura della vita artistica di una città o di una nazione. E in questo possono rientrare anche le considerazioni, non direttamente legate alla performance, relative agli interpreti, agli enti che promuovono e sostengono le attività concertistiche e discografiche, alla loro situazione economica e alle possibilità d’intervento delle istituzioni pubbliche. Tutte queste notizie fanno effettivamente parte del panorama che rende possibile l’esistenza stessa di un circuito musicale attivo, il cui centro è, e deve continuare ad essere, al musica. (NB)



Riferimenti Bibliografici


Paul Griffiths, Finalità ed effetti della critica, in Enciclopedia della musica, dir. J.-J. Nattiez, vol. II, Torino, Einaudi, 2002, pp. 997-1010.

Leonardo Pinzauti, “Ma è proprio vero che è morta la critica musicale sui giornali”, in «Nuova rivista musicale italiana» 29 (1995), pp. 49-59.

Giuseppina La Face Bianconi, “La critica musicale italiana: un autoritratto”, in «Rivista italiana di musicologia» 26 (1991), pp. 117-135.