Teoria e analisi



Il bionomio teoria-analisi, così com’è concepito nella riflessione musicologica attuale, è l’espressione di un’area concettuale e disciplinare ampia ed estremamente articolata che potremmo genericamente definire “comprensione del fenomeno musicale”. Presi singolarmente, pertanto, i termini di tale binomio non devono essere considerati come categorie oppositive (si potrebbero con molte riserve proporre come loro reciproci oppositivi, rispettivamente, “prassi” e “interpretazione”), quanto piuttosto come macrocategorie che sovrastano lo scibile musicale coinvolgendone ogni aspetto: talmente forte è il legame di compenetrazione reciproca che molti studiosi non avvertono nemmeno la necessità di separarli dal punto di vista concettuale, parlando dell’uno o dell’altro quasi come se si rivolgessero a un solo oggetto. D’altra parte, la stessa natura fisica del suono, o meglio la consuetudine moderna di scomporlo in quattro parametri fondamentali, è un esempio di come l’osservazione del fenomeno musicale avvenga attraverso la diffrazione della sua immagine in moltissime prospettive differenti, che vanno dall’organizzazione ritmica, armonica, contrappuntistica e formale, alla tecnica compositiva e agli effetti esercitati sui meccanismi di percezione e interpretazione. In tutti questi casi, e nei moltissimi altri possibili, lo studio della musica si avvarrà inevitabilmente della formulazione di principi teorici generali e di strumentazioni analitiche che consentano di passare l’oggetto d’indagine attraverso determinati filtri, al fine di lasciar emergere dati ritenuti significativi.

Nonostante però questa sovrapposizione delle rispettive aree d’interesse, teoria e analisi sono innanzitutto discipline autonome, sorrette e animate da metodologie e obiettivi differenti. Innanzitutto perché l’analisi si interessa di strutture musicali, in senso lato, riscontrabili su un supporto (partitura, registrazione, ecc.) e osservabili da un punto di vista formale o stilistico, laddove la teoria, avendo come fine l’osservazione e la formulazione sistematica di principi costitutivi e concettuali della musica, può invece comprendere, e di fatto comprende questioni che esulano dalla prassi della produzione musicale. È sufficiente ricordare il profondo interesse manifestato dai trattatisti dell’antichità e del medioevo per le dimensioni astronomica, teologica ed etica della musica, per comprendere quanto l’orizzonte teorico si estenda ben oltre quello dell’analisi. Inoltre, molte delle tecniche analitiche correntemente utilizzate poggiano su presupposti teorici completamente differenti da quelli che informarono il pensiero dei compositori delle musiche esaminate: la possibilità di indagare un determinato repertorio del passato con categorie e strumentazioni attuali è, come vedremo, una delle questioni più dibattute dalla musicologia odierna.



La teoria dell’analisi


Confrontando le grandi teorie tardo ottocentesche e novecentesche con quelle sviluppate dalla trattatistica delle epoche precedenti, uno degli elementi che colpisce maggiormente è l’attenzione dedicata dalle formulazioni più recenti alla definizione di metodologie analitiche che supportino gli enunciati fondamentali della speculazione proposta dimostrandone la validità attraverso la verifica diretta sulla letteratura musicale. La teoria musicale moderna diventa di fatto una “teoria dell’analisi”, in cui le strategie messe in campo per avvalorare un’interpretazione del fatto musicale acquistano lo stesso peso, se non addirittura un peso maggiore dell’interpretazione stessa. È il caso, per esempio, di molti degli approcci cosiddetti “riduzionisti”, come quelli ideati nei primi decenni del Novecento da Hugo Riemann, Heinrich Schenker e, più tardi, da Rudolph Réti, che procedono cioè a una progressiva scomposizione del brano musicale in livelli via via più semplici, al fine di ottenerne una sorta di immagine “radiografica” che ne lasci emergere gli aspetti strutturalmente significativi. In esse, i postulati fondamentali sul funzionamento della musica, come la concezione organicistica che sta alla base del metodo schenckeriano o quella sintattico-fraseologica di Riemann e di Réti, s’intrecciano inestricabilmente con i processi di riduzione cui fanno riferimento, al punto che risulta spesso difficile immaginare l’esistenza dei primi senza il sostengo dei secondi. Teorie dell’analisi sono, almeno in parte, anche quei sistemi cosiddetti eteronomi (insiemistico, informazionale, narratologico, decostruzionista), i quali si propongono di leggere la musica partendo dall’applicazione di postulati e strategie operative desunti da campi del sapere ad essa estranei (rispettivamente, dalla matematica e dalla fisica e dalle scienze letterarie. Anche qui, una volta definiti gli assunti fondamentali di partenza, l’attenzione si concentra principalmente su “come” tali assunti saranno applicati all’esame delle partiture (o dei loro sostituti) e sui significati formali e contenutistici che detto esame sarà in grado di porre in risalto.

Una possibile eccezione a questa tendenza generale, che ci consente peraltro di completare questo quadro sommario degli approcci teorico-analitici moderni, è rappresentata dal sistema semiologico di Jean-Jacques Nattiez, all’interno del quale la dimensione analitica si colloca come una delle componenti discrete che concorrono al riconoscimento del “significato” musicale. In questo caso, il rapporto fra teoria e analisi non è di corrispondenza diretta ma di inclusione della prima nell’ambito, più esteso, della seconda.



La scelta del metodo: logica induttiva vs. logica deduttiva



Volendo procedere a una classificazione generale delle metodologie analitiche in relazione alle relative teorie, si potrebbe contrapporre quelle che procedono a una raccolta e catalogazione di dati operata in modo empirico per ottenere una descrizione quasi statistica del fenomeno e ricavare di conseguenza un principio teorico valido a quelle che cercano di dimostrare un assunto teorico precedentemente postulato mediante il riscontro dei suoi effetti in un brano o in un frammento di repertorio. Al metodo induttivo (che nella lingua inglese è denominato in modo molto efficace “bottom-up”) precedentemente delineato, si oppone pertanto quello deduttivo (“top-down”): entro lo spettro circoscritto da questi due estremi assoluti è possibile collocare tutte le formulazioni teoriche e le metodologie analitiche che si sono succedute nel corso dei secoli. Si pensi per esempio al ruolo implicitamente giocato da un’ottica di tipo induttivo nella formazione delle varie estetiche (v. valore e giudizio estetico) che pongono i dati tecnico-compositivi che si possono evincere dalla partitura come fondamento per la formulazione del giudizio sulla musica, rispetto a quelle (più marcatamente deduttive) che si concentrano maggiormente su dati extramusicali. Il problema fondamentale sollevato da un approccio che affronti le relazioni fra teoria e analisi nei termini di questa bipolarità induzione-deduzione è infatti la mancanza di procedimenti che si collochino completamente sull’uno o sull’altro versante. Per esempio, le analisi che propongono la lettura di una concatenazione armonica traducendo ogni accordo in un simbolo rappresentante il grado armonico o la funzione che questo riveste nell’economia del brano, per quanto sorrette da un riscontro diretto sulle partiture, muoveranno pur sempre dai concetti quali “tonalità”, “accordo” (v. tonalità) e “consonanza” (v. intervallo), provenienti da una teoria generale della musica e dati in un certo senso per assodati. Allo stesso modo, i metodi riduzionisti ed eteronomi di cui si è accennato in precedenza, che si basano su una logica prevalentemente induttiva, dimostrano non di meno di provenire da una profonda esperienza analitica di partenza. Le segmentazioni degli eventi sonori di un brano che nell’analisi insiemistica di Allan Forte consentono di individuare gli “insiemi” di note da catalogare e confrontare fra loro, non sono infatti nemmeno ipotizzabili senza una preparazione adeguata nella lettura della partitura e nel conseguente riconoscimento degli eventi significativi di un brano.

Metodo induttivo e deduttivo sono di fatto embricati in una catena di scambi reciproci che tanto ricorda il famoso circolo ermeneutico gadameriano, in cui causa ed effetto s’intrecciano in un circuito senza soluzione di continuità; questo è, fra l’altro, testimoniato proprio dalla duplice funzione, prescrittiva e descrittiva, della teoria, che dimostra come norma e applicazione della norma siano legate da un rapporto bidirezionale. È per questo che la posizione della musicologia più recente si è orientata verso il superamento di un’ottica oppositiva, tendendo piuttosto alla definizione di un campo d’azione in cui, pur non rinunciando alla definizione di premesse metodologiche chiare, sia possibile integrare i percorsi d’indagine “dall’alto verso il basso” e quelli “dal basso verso l’altro”, sfruttandoli contestualmente come parametri di controllo reciproci.



Prospettiva ‘storicista’ vs. prospettiva ‘presentista’


La possibilità di studiare teoria e analisi musicali nelle rispettive evoluzioni storiche è un dato che la musicologia ha assorbito fin dai suoi esordi, e che oggi è fra l’altro ratificato dall’insegnamento universitario della “storia delle teorie musicali”, ove, anche alla luce delle considerazioni di cui sopra, sono sintomaticamente trattati problemi legati all’una e all’altra disciplina (è d’altra parte vero che, nelle classi d’analisi musicale, i programmi didattici prevedono spesso la lettura di trattati teorici del passato). Fino agli anni Novanta del secolo scorso, con alcune eccezioni isolate, lo studio di tali materie si limitava, appunto, all’esame della trattatistica nelle varie epoche storiche e delle applicazioni (o mancate applicazioni) che i principi ivi esposti conoscevano nel repertorio coevo. L’indagine storica, è stato recentemente notato, dovrebbe però occuparsi anche di determinare le cause e le condizioni (anche extramusicali) che hanno portato alla nascita dei fenomeni esaminati e stabilirne di conseguenza il significato storico nella prospettiva che gli antropologi definiscono “emica”, ossia rapportata al contesto. La maggior parte delle teorie sviluppate nei secoli anteriori al Novecento, infatti, sono quasi sempre intessute di principi estetici, etici e persino teologici che, pur conservando ai nostri occhi un importantissimo valore storico, vengono il più delle volte considerati come fattori in qualche modo “esterni” alla vera e propria indagine musicale, laddove invece le ricerche più recenti hanno ampiamente dimostrato come la comprensione delle stesse tecniche compositive non possa prescindere da queste costellazioni di significati che, pur non comparendo direttamente nella pagina musicale, costituiscono un substrato ideologico comune a teorici, compositori e fruitori (un esempio su tutti potrebbe essere l’importanza della conoscenza dell’occasione politica o religiosa cui si deve la composizione di un mottetto quattrocentesco per capirne i riferimenti testuali e musicali impliciti). Uno dei temi scaturiti da questa riflessione, centrale per l’argomento che qui stiamo trattando, riguarda l’opportunità di avvalersi delle strumentazioni concettuali e analitiche elaborate nel passato come mezzi per l’indagine attuale sulla musica. In altre parole, ci si chiede se e a quali condizioni una un trattato d’armonia del XVIII secolo, per esempio, debba essere letto come documento storico o come testo teorico.

Due le correnti dominanti, le quali, anche in questo caso, vanno intese più come categorie di pensiero generali che come vere e proprie posizioni assunte in modo apodittico: la prima, “presentista”, d’impianto sostanzialmente teleologico e d’impostazione positivista, vede la storia delle teorie musicali (e dell’analisi) come un processo di costante sviluppo che, partendo da una conoscenza del tutto generica del fenomeno musicale, procede per continue approssimazioni a una focalizzazione sempre più dettagliata del proprio oggetto. In questo senso, tanto le componenti musicali quanto quelle extramusicali che informarono le riflessioni del passato possono essere tranquillamente relegate alle relative discipline storiche, mentre l’approccio moderno non dovrà far altro che avvalersi della strumentazione di conio più recente, distillato della sedimentazione del pensiero musicale. La seconda prospettiva, “storicista”, poggia sulla convinzione che si possa comprendere la musica in modo più approfondito inserendola nel contesto culturale cui appartiene e che, pertanto, le teorie musicali storicamente connesse ai vari repertori abbiano più possibilità di decodificarne i significati reconditi. Questo è esemplificato in modo particolarmente calzante dallo studio della musica antica, ove la conoscenza delle varie teorie della modalità e del contrappunto risulta determinante per la comprensione delle tecniche compositive. Se la posizione “presentista” sembra difettare di autocoscienza storica (dopo tutto, anche l’era presente non giace “fuori dalla storia” e, pertanto, le nostre prospettive hanno la stessa probabilità di essere culturalmente determinate di tutte le altre), quella “storicista” sembra negare “in toto” la possibilità dell’evoluzione, escludendo dalla vista del teorico e dell’analista tutto ciò che non risiede di diritto nel contesto peculiare della musica in esame. In entrambi i casi, quindi, si è notato come non sia possibile determinare quale sia il “modus operandi” corretto; come per quanto riguardava la scelta del metodo, la musicologia attuale raccomanda dunque la scelta consapevole di un approccio ermeneuticamente informato, che tenga sufficientemente conto delle istanze di entrambe le correnti e si avvalga di una consapevolezza storica esercitata in modo critico. (NB)



Riferimenti bibliografici


Rossana Dalmonte, “Teoria e analisi”, in Enciclopedia della musica, diretta da Jean-Jacques Nattiez, vol. II, “Il sapere musicale”, Torino, Einaudi, 2002, pp. 677-693.

Ian Bent - William Drabkin, Analisi, Torino, EDT, 1990.

Christopher Hatch - David W. Bernstein (a cura di), Music theory and the exploration of the past, Chicago, London, University of Chicago Press, 1993.

Anthony Pople, Theory, analysis and meaning in music, Cambridge, Cambridge University Press, 1994.