Valore e giudizio estetico
Cos’è il bello in musica? La risposta a questa domanda, così
determinante per la qualificazione dell’esperienza artistica personale
e collettiva, ha impegnato tutti coloro che nel corso della storia si sono
occupati a vario titolo di musica, compositori, esecutori, teorici, filosofi
e musicologi, dando luogo a risposte talmente diversificate da diventare uno
degli oggetti di studio privilegiati di una disciplina filosofica autonoma,
l’estetica musicale. Prima ancora di interessare
gli specialisti del settore, l’idea che un prodotto musicale possa essere
giudicato fa senza dubbio parte di quell’insieme di convenzioni e assunti
pressoché universalmente condivisi che viene talvolta denominato “sensus
communis”, un patrimonio concettuale su cui si fonda il tessuto connettivo
della società, spesso accettato dai suoi membri in modo più
o meno acritico e irriflesso. Basta pensare a quanto potrebbe sembrare assurda,
oltre che oltraggiosa, la negazione del diritto di esprimersi su un brano
di musica in termini di “bella” o “brutta” per farsi
un’idea di come la capacità di formulare giudizi estetici sulla
musica sia normalmente considerata come una delle componenti fondamentali,
se non come il fondamento stesso, della fruizione e dell’apprezzamento
musicale. Tuttavia, qualora ci si interroghi sulla provenienza di tali giudizi
e sulle motivazioni che li sorreggono, ci si accorge che le condizioni che
rendono possibile l’attribuzione di un valore a un’opera musicale
e la natura stessa di questo valore appaiono in effetti tutt’altro che
palmari, tanto meno universalmente condivise. Se dunque una definizione teorica
che spieghi cosa siano il valore e il giudizio estetico rapportati alla musica
appare ad oggi sostanzialmente impossibile, è tuttavia lecito e necessario
provare a fornire alcune risposte parziali che tengano conto delle categorie
filosofiche e sociologiche che nel corso dei secoli hanno sorretto e qualificato
le principali teorie estetiche musicali. Ci aiuterà in questo la classificazione
delle macrotipologie di giudizio musicale stilata nel 1970 dal musicologo
Carl Dahlhaus, la quale, sebbene possa apparire ormai datata e forse un po’
troppo schematica, ha senza dubbio il pregio di essere sufficientemente generica
da consentirci di ricostruire un quadro approssimativo dell’evoluzione
della nozione di valore estetico della musica.
Giudizio funzionale
Il concetto del “bello” artistico come qualità intrinseca
dell’opera d’arte, nel nostro caso musicale, ha una storia tutto
sommato recente. Ripercorrendo rapidamente la storia della dell’estetica
dalle origini fino al XVIII secolo inoltrato, si evince che l’obiettivo
principale della musica (non certo l’unico) era quello di soddisfare
nel modo migliore possibile lo scopo per cui era composta (e, nella maggior
parte dei casi, commissionata). Questo poteva essere l’educazione morale
della “poleis”, la celebrazione della liturgia o di un particolare
evento politico, la gratificazione artistica di un potente o la ratificazione
della sua maestà agli occhi dei sottoposti, o ancora la sollecitazione
di particolari corde dello spirito umano mediante l’imitazione, la rappresentazione
o l’evocazione degli “affetti” ad esse collegati. In tutti
questi casi, e in moltissimi altri, la musica non era vista come “bella”
in sé e per sé, ma in quanto capace di svolgere una data funzione
(v. Le funzioni della musica), variabile a seconda
del periodo storico e del contesto sociale, ma sempre definita in rapporto
a determinate convenzioni, discusse e fissate nella trattatistica musicale.
Persino la dottrina d’impronta pitagorica che riconosceva alla musica
la capacità di rispecchiare le proporzioni dei corpi celesti e, per
estensione, di tutte le forme del creato si traduceva di fatto nella possibilità
e nella necessità di riprodurre tali relazioni al fine di adeguare
la produzione musicale all’equilibrio cosmico e renderla immagine riflessa
dell’armonia divina. Ad un giudizio funzionale si affiancava dunque
un giudizio tecnico: per risultare adatta al proprio contesto, la musica doveva
infatti rispondere a una serie di requisiti compositivi che potevano riguardare
la scelta del modo, l’organizzazione interna della frase, la disposizione
delle consonanze e delle dissonanze nel tessuto polifonico, ma anche l’amministrazione
consapevole del vocabolario retorico-musicale e il corretto dosaggio della
complessità dell’intreccio.
Due le principali conseguenze di questa corrispondenza fra ciò che
è “bello” e ciò che è “ben fatto”:
innanzitutto l’elevazione del teorico, il “musicus” depositario
di un sapere che si spingeva ben oltre la mera competenza tecnica, allo status
di giudice supremo della qualità musicale e, in secondo luogo, l’identificazione
del compositore con l’artigiano che apprendeva un mestiere, “reservato”
in quanto protetto da un principio di corporativismo, e lo applicava secondo
criterio, ponendo la cifra della propria personalità creativa, almeno
in linea di principio, al servizio della funzione che la sua musica avrebbe
assolto nel contesto della vita sociale.
Il soverchiamento di questa concezione della musica e della relativa tipologia
di giudizio, che si vorrebbero sgretolate sotto i colpi inferti prima dall’illuminismo
kantiano e poi dalle teorie romantiche ottocentesche, di fatto non si è
mai completamente consumato. Il successo che ricosse la “Vittoria di
Wellington”, una composizione “d’occasion” farcita
di rappresentazioni onomatopeiche dei suoni di battaglia che difficilmente
può essere ricondotta alla raffinatezza del linguaggio del maestro
di Bonn, non si spiega se non nel quadro delle celebrazioni per il Congresso
di Vienna in cui fu eseguita, un contesto in cui la musica era chiamata esclusivamente
a glorificare e divertire i rappresentanti delle potenze europee convenuti
mediante l’uso di un linguaggio magniloquente e di una retorica musicale
immediatamente decifrabile. Ancora oggi, d’altra parte, esistono nel
sistema complessivo della produzione musicale settori tutt’altro che
marginali, come quello della musica destinata alle discoteche, in cui la diretta
rispondenza fra qualità del prodotto e funzione sociale acquista un
peso determinante nell’economia della valutazione artistica tout court.
Giudizio estetico
I criteri di adeguatezza e funzionalità, abbiamo visto, non hanno mai
del tutto cessato di giocare un ruolo all’interno della formulazione
dei giudizi estetici musicali. Tuttavia, i principi di valutazione che provengono
dalle speculazioni settecentesche e ottocentesche sui concetti di “bello”,
“sublime”, “artistico”, e “poetico” si
allontanano drasticamente da questa concezione finalistica dell’arte,
orientandosi verso un’idea della creazione libera, svincolata dalle
contingenze, “disinteressata”. Ne “La Critica del Giudizio”,
Immanuel Kant pone al centro della valutazione estetica la “sensazione
del bello”, le idee estetiche veicolate dalle opere esclusivamente in
virtù della loro conformazione e, soprattutto, l’effetto che
queste esercitano sull’intelletto e sullo spirito. Le successive riflessioni
formulate da esponenti variamente collegati alla corrente romantica, pur collocandosi
dottrina kantiana e nonostante dedichino complessivamente un’attenzione
minore alla questione del giudizio per concentrarsi piuttosto sulle problematiche
legate alla natura dell’arte, non abbandonano, e anzi esaltano, la possibilità
di riconoscere il bello come componente primaria dell’esperienza estetica.
Persino le posizioni cosiddette “formalistiche” di Eduard Hanslik,
l’antiromantico per eccellenza che si scagliava vigorosamente contro
le “visionarie” letture programmatiche tipiche della critica ottocentesca
e, in generale, contro l’idea della musica come espressione del sentimento,
non negano a quest’ultima il diritto di essere autonomamente bella,
ma, al contrario, pongono proprio questo punto come seme originario di tutta
la riflessione sull’arte dei suoni. L’arte, dunque, e la musica,
possono essere fruite, apprezzate e valutate considerando esclusivamente le
qualità che riescono a sprigionare, in modo assoluto e libero da ogni
vincolo di sorta. Da questo punto di vista è pertanto stupefacente
che, in particolare nel XIX secolo, le grandi critiche e poetiche musicali,
spesso firmate dalle penne di illustri compositori e teorici non meno competenti
sul piano tecnico, tendano visibilmente ad omettere ogni considerazione di
carattere pratico. Il “mestiere”, proprio in quanto artigianato
musicale, è sì la “conditio sine qua non” dell’apparizione
del bello, ma, come tale, è dato per scontato e pertanto escluso dalla
contemplazione estetica, dal momento che la bella arte parla allo spirito,
e questo non è affatto tenuto a preoccuparsi dei processi che l’hanno
generata, ma solo del risultato che essa è in grado di produrre.
Secondo la suddivisione storica proposta da Dahlhaus, dunque, la partecipazione
o non partecipazione di un’opera all’idea del bello è la
forma di giudizio musicale peculiare dei secoli XVIII e XIX, decaduta all’inizio
del Novecento con l’avvento della nuova musica e delle estetiche ad
essa collegate. Anche in questo caso, però, prima ancora della constatazione
empirica, l’intuito ci dice che una perimetrazione così angusta
rischia di mutilare arbitrariamente un fenomeno molto più diramato
e complesso. Possiamo infatti immaginare che la pratica di pronunciarsi su
un brano di musica definendolo genericamente “bello” o “brutto”
invalesse ben prima della pubblicazione della Critica del Giudizio. Ne è
prova la testimonianza autorevole della profonda commozione provata Agostino
di fronte alla sua “scientia bene modulandi”, la quale, proprio
in virtù della sua capacità di dilettare per mezzo della proporzione
e della simmetria, era vista come portatrice di una bellezza divina e al contempo
insidiosamente centrifuga rispetto alla contemplazione del sacro. D’altro
canto, le innumerevoli espressioni valutative che innervano la critica e il
giornalismo musicale attuali, ancorché sorrette talvolta da una consapevolezza
del fatto musicale non proprio solida, dimostrano che “l’idea
del bello” è tutt’altro che morta, sia negli ambienti della
musica cosiddetta “popular” sia in quelli “colti”.
Giudizio storicizzante
L’ultima categoria di giudizio individuata da Dahlhaus e da questi assegnata
al Novecento (o per lo meno ai primi settant’anni di questo secolo)
è quella che valuta la musica secondo la sua capacità di incarnare
lo “Zeitgeist”, l’essenza peculiare del tempo in cui essa
compare nel mondo. La sua origine è comprensibilmente collegata con
l’intricato reticolo delle poetiche post-romantiche, tutte più
o meno dedite allo smantellamento di un concetto assoluto del bello, e tutte
variamente impegnate in una vigorosa polemica contro l’elitarismo e
l’irrazionalità delle concezioni estetico-sociali del XIX secolo.
La nuova musica, col suo progressivo abbandono della morfologia e della sintassi
tonali, si libera di uno dei principi che, spesso in modo implicito, aveva
fatto da fondamento all’espressione del giudizio musicale: il piacere.
Sebbene la storia dell’estetica, in senso lato, non sia priva di riferimenti
al “diletto” o alla “gradevolezza” dell’arte
dei suoni, si può infatti affermare che queste qualità non siano
mai state ritenute sufficienti per spiegare il fatto musicale, quanto piuttosto
accessorie ed effimere; è tuttavia innegabile che esse abbiano sempre
giocato un ruolo tutt’altro che secondario nella fruizione della musica
e nella sua conseguente valutazione.
L’“emancipazione della dissonanza” promulgata da Arnold
Schönberg, la sempre maggiore attenzione dedicata all’aspetto progettuale
della composizione e il conseguente iato creatosi fra il prodotto musicale
e il fruitore hanno sortito l’effetto pratico di rendere la musica sempre
meno “gradevole”. Questo ha sancito nella pratica la morte, già
teoricamente postulata nei manifesti estetici degli inizi del secolo, del
bello (sette-ottocentesco) come obiettivo e anelito della “buona musica”.
Da qui la rinnovata importanza del giudizio tecnico, sostenuto dalla diffusione
di nuove teorie e categorie analitiche così come dalla proliferazione
di scritti programmatici e teorici degli stessi compositori, considerati da
molti come strumenti imprescindibili per la comprensione degli stessi prodotti
musicali. Conseguenza non trascurabile del declino della categoria del “piacevole”
è la frequente impossibilità dell’ascoltatore di seguire
con un ascolto consapevole il dipanarsi del discorso musicale. Da qui le molte
critiche rivolte alla nuova musica colta e il distacco di una grande porzione
del pubblico dal repertorio novecentesco, cui compositori, critici e musicologi
hanno variamente risposto sottolineando l’importanza di una fruizione
della musica non più mirata all’espressione di un giudizio in
termini di “bella” o “brutta”, ma che si sforzi di
partecipare ad essa condividendone i presupposti e i contenuti. A riprova
di questo sta, fra l’altro, la crescente tendenza maturata ed espressa
dai compositori, in forme e con esiti molto diversi sia prima sia dopo lo
spartiacque della Seconda Guerra Mondiale, verso la definizione di una musica
“comunicativa”, in grado cioè di veicolare un messaggio
prettamente musicale esclusivamente in virtù dei mezzi offerti dalla
tecnica compositiva.
Giudizio e valore musicale oggi
Dal profilo estremamente sintetico che abbiamo delineato, si evince che l’atto
della valutazione della musica non può essere definito se non come
processo composito in cui intervengono di volta in volta fattori e circostanze
assai differenti. È anche a causa di questa polivalenza, e del rischio
di estrema soggettività ad essa inestricabilmente connesso, che il
giudizio estetico è gradualmente uscito dalla scena del discorso musicale
e musicologico relativo al repertorio colto, una scomparsa testimoniata fra
l’altro dalla radicale trasformazione della figura del critico musicale
da recensore “post festum” a presentatore al pubblico, prassi
che, oltre ad evitare l’imbarazzo delle eventuali stroncature, risparmia
di fatto l’onere di presenziare fisicamente all’evento musicale.
D’altra parte, le recenti indagini di carattere sociologico e antropologico
promosse dall’etnomusicologia e dalla nuova musicologia popular (disciplina
quest’ultima che ha avvertito negli scorsi decenni in modo certamente
più pressante la necessità di sostenere e orientare con un substrato
concettuale profondo ed articolato la valutazione del prodotto musicale) hanno
dimostrato che anche il giudizio estetico soggettivo, forse l’ultimo
baluardo del concetto stesso di “bello musicale”, è spesso
fortemente condizionato da contingenze socio-culturali che esercitano sull’individuo,
spesso a livello inconscio, un influsso determinante. (NB)
Riferimenti bibliografici
Carl Dahlhaus, Analisi musicale e giudizio estetico, Bologna,
Il Mulino, 1987.
Giovanni Guanti, Estetica Musicale, Milano, La Nuova Italia, 1999.
Michela Garda, “Storia del bello musicale”,
in Enciclopedia della musica, diretta da Jean-Jacques Nattiez, vol. II, “Il
sapere musicale”, Torino, Einaudi, 2002, pp. 611-623.