Le funzioni della musica
“La musica non è mai sola”, diceva il compositore Luciano
Berio. Essa nasce e si articola in molteplici forme e con diverse funzioni
ovunque esiste vita e comunicazione umana. Perché
la musica, anche quando non trasmette un messaggio specifico e traducibile
in parole, è una forma di comunicazione, che riflette e interagisce
con il contesto sociale nel quale è generata
e agita. Alla polisemia del termine “musica” corrisponde un’analoga
pluralità di funzioni che variano da una cultura all’altra e
si mutano in seno a culture la cui evoluzione è segnata dall’idea
di progresso. Il sapere e la prassi musicale in occidente si sono istituzionalizzati
nel corso dei secoli in un sistema di istruzione, documentazione e diffusione,
basato sul concetto di musica come arte e scienza (v. Che
cos’è la musica?)e regolato sempre più marcatamente da criteri
di mercato. Questa rete, con le sue diramazioni di “musica seria”
(o “classica” come di solito la si denota con una sineddoche che
attribuisce a tutta la musica colta occidentale la nozione di classicismo
legata allo stile musicale della seconda metà del Settecento), “musica
leggera” e altre, ha assimilato nel corso della sua evoluzione molteplici
idiomi di musica popolare che, nel processo di modernizzazione e di acculturazione
delle masse, ha perso la propria funzione originaria di accompagnamento delle
attività quotidiane (v. Oralità e scrittura)
degli individui e delle comunità. La globalizzazione socio-economica
e le tendenze transculturali in atto da alcuni decenni hanno reso i prodotti
della musica occidentale fruibili ovunque nel mondo mettendo in crisi la funzione
e a rischio la sopravvivenza di culture musicali di millenaria tradizione,
e ponendo in primo piano la complessa questione di identità
culturale e il ruolo della musica nella sua definizione.
Un tentativo di riassumere in pochi capi le funzioni della musica nei suoi
molteplici contesti è destinato a essere carente ed eccessivamente
schematico. È necessario un ragionamento fortemente dialettico nella
definizione delle finalità di un fenomeno che abbraccia la sfera individuale
e collettiva e che implica al tempo stesso un’attività naturale
e artificiale, istintiva e disciplinata, fisica e intellettuale. L’etnomusicologo
Francesco Giannattasio, partendo da un elenco di dieci funzioni individuate
da Allan P. Merriam, le articola in tre categorie principali:
1) funzioni di organizzazione e supporto delle attività sociali;
2) funzioni di induzione e coordinamento delle reazioni sensorio-motorie;
3) funzioni espressive.
Alla prima appartengono le attività musicali relative ai riti religiosi
e sociali, alle cerimonie, celebrazioni, ricorrenze, alle occasioni di lavoro
e d’intrattenimento collettivo, in cui la musica funge una funzione
di stimolo e di organizzazione. La seconda categoria
isola in effetti un aspetto fondamentale ma non esclusivo di ogni esperienza
musicale: la componente cinetica implicata nell’esecuzione
vocale e strumentale nonché nella danza, ma anche nell’ascolto
passivo e “nei modi in cui la musica interagisce con i meccanismi automatici
e volontari del corpo umano, concorrendo fra l’altro a reazioni cinestetiche
ed emotive” che possono “contribuire all’induzione di stati
di alterazione della coscienza” (Giannattasio)
- stati che si manifestano in molte culture con fenomeni di trans, estasi
e catarsi terapeutica. Alla terza categoria appartiene l’intera sfera
dell’espressione individuale, la comunicazione
di idee attraverso forme simboliche codificate all’interno di una cultura
musicale, e il godimento estetico. È in questo ambito che si pone in
primo piano e con tutti i suoi risvolti la dialettica tra l’autonomia
della musica in quanto organismo artistico che trae senso dalle proprie strutture
trascendendo le circostanze in cui è realizzato, e la sua eteronomia
in quanto prodotto e rappresentazione di una determinata realtà sociale
e storica. Il dibattito sulla capacità della musica di comunicare e
di trasmettere emozioni e concetti (v. musica e linguaggio),
e sul rapporto tra evento musicale, realtà extramusicale e la sfera
dell’inconscio sono intrisi di questa dialettica.
La funzione terapeutica della musica, nota fin
dall’antichità e vagamente implicita tra le tre categorie elencate
sopra, ha avuto negli ultimi decenni un riconoscimento e un’applicazione
di notevole profondità e diffusione nella musicoterapia come campo
specifico di studio e di attività professionale. L’importanza
della musica nell’educazione (v. pedagogia)
fin dalle primissime fasi della vita è riconosciuta universalmente,
ma la sua applicazione varia molto tra le diverse culture e da un paese all’altro.
Mentre nelle società di tradizione orale la partecipazione del bambino
alle attività musicali è parte integrante della sua formazione
in quanto membro della comunità, nelle culture occidentali il compito
della formazione musicale è delegato a professionisti e a istituzioni
specializzate e ciò comporta spesso una netta carenza nell’introduzione
naturale del bambino ai segreti e ai piaceri della musica.
L’apporto di discipline quali l’antropologia, la psicologia, le
scienze cognitive e la semiologia - con le quali lo studio tradizionale della
storia e delle prassi musicali interagisce intensamente negli ultimi decenni
- è stato fondamentale per allargare gli orizzonti e approfondire la
comprensione delle dinamiche universali che accomunano l’esperienza
musicale in culture diverse (v. etnomusicologia).
“Com’è musicale l’uomo?”
Uno dei contributi più originali allo studio della musica come linguaggio
universale è stato quello dell’etnomusicologo irlandese John
Blacking, che ha esposto le sue idee nel libro “How musical is man?”
(Com’è musicale l’uomo, 1973). La musica è definita
da Blacking suono umanamente organizzato (con
l’accento su “umanamente” che distingue questa definizione
da quelle di Varèse e di Cage, v. Aforismi
e riflessioni) e la sua funzione profonda secondo lui è quella
di incrementare la qualità dell’esperienza individuale e delle
relazioni umane all’interno della comunità: le strutture della
musica riflettono modi e moti dell’esperienza umana, e il valore di
un brano musicale in quanto musica è inseparabile dal suo valore in
quanto espressione di tale esperienza. Blacking fonda la sua analisi della
musicalità dell’uomo sulla natura sociale delle funzioni, delle
strutture e del valore della musica. L’aspetto rivoluzionario di questa
idea (al tempo della sua proclamazione molto dibattuta) è la considerazione
che tutta siano come forme d’espressione umana e sociale, e quindi ugualmente
"popolari" e ugualmente comunicative. Secondo Blacking i termini
"folk" (o "popular") e "arte" dovrebbero essere,
se non proprio aboliti, riferiti non al prodotto musicale bensì ai
processi e ai modi di articolazione dell’esperienza che l’hanno
prodotto. Culture di tradizione orale “popolare” possono avere
musica "d’arte" anche se tecnicamente parlando essa è
più semplice della musica prodotta in una cultura basata sulla scrittura
e sul progresso scientifico e materiale.
Nel postulare una relazione tra musica e società Blacking volge l’attenzione
non tanto al grado di sviluppo di una data società quanto al suo ethos
e ai processi socio-culturali che l’hanno generato. Egli ritiene che
molti dei processi attivi nelle relazioni umane in una società sono
gli stessi che vengono utilizzati per “organizzare i suoni musicali
disponibili” a quella società. La musica, in tutte le sue manifestazioni,
riflette secondo lui l’interazione tra fattori universali legati alla
natura musicale dell’uomo, e fattori sociali e culturali. I prodotti
artistici e musicali di una società non sono espressioni astratte o
“rituali” di fenomeni culturali: essi sono dei commenti consapevoli
sulla condizione umana, esprimono i rapporti dinamici tra natura e umanità,
e tra le persone nella loro esistenza in diverse culture in diversi momenti.
La creatività collettiva di una comunità nutre la vita interiore
dell’individuo che ne fa parte, la creatività individuale si
nutre del patrimonio espressivo della comunità e lo rianima. Nella
musica “popolare” il riferimento al contesto sociale è
più esplicito ed essenziale; nella musica “d’arte”
il riferimento diventa più allusivo e astratto e il commento risiede
nella musica stessa che attraverso dei procedimenti più o meno complessi
acquisisce vari gradi di emancipazione estetica rispetto al proprio contesto
sociale.
Dagli esempi più complessi ed evoluti di musica di antica tradizione
orale (come quella dei Pigmei Aka dell’Africa Centrale, studiata dall’etnomusicologo
Simha Arom, o da quella della tribù dei Venda del Sudafrica, studiata
da Blacking) emerge una straordinaria fusione di schematicità formale
e libertà espressiva; gli eventi musicali che ne risultano sembrano
al tempo stesso improvvisati e costruiti, spontanei ed elaborati, ripetitivi
e variati. La musica sembra allora emanciparsi dalla propria funzionalità
che tuttavia ne rimane la fonte imprescindibile.
Aspetti morali dell’esperienza musicale
Lo studio delle culture musicali tradizionali e contemporanee rappresenta
oggi una corrente importante delle discipline musicologiche
ed etnomusicologiche. La posizione critica nei confronti
di un atteggiamento eurocentrista verso le musiche extraeuropee è oggi
largamente condivisa. Il rispetto della diversità e il riconoscimento
del valore intrinseco del patrimonio culturale altrui costituiscono la base
degli studi etnologici e antropologici odierni e in campo musicale rappresentano,
almeno idealmente, una salvaguardia contro gli effetti negativi di una globalizzazione
che tende a fondere e commercializzare idiomi lontani tra loro sotto l’etichetta
di una “world music” buona per tutte le occasioni. Tale rispetto
e tale riconoscimento significano anche un’attenzione verso i valori
extramusicali della tradizione musicale occidentale. I principi costruttivi
ed estetici della musica d’arte europea non possono e non devono diventare
una pietra di paragone e un criterio di giudizio su altri modi di “organizzazione
del suono” presso altre culture e altri costumi musicali; ma all’interno
della nostra società essa ha un valore che va ben oltre il diletto
estetico. Come abbiamo visto nelle sezioni dedicate al linguaggio e all’espressione,
non è possibile esaurire in parole il senso di questo valore, ma un
suo aspetto fondamentale può essere indicato nella funzione morale
dell’ascolto – facoltà che
la musica intesa come arte e scienza valorizza ed esplora in tutte le sue
potenzialità.
Il mondo di oggi è invaso da suoni la cui funzionalità non è
sempre facilmente definibile. I rumori della civiltà industrializzata
sono dei “by products” dei motori e dei prodotti dell’industria
stessa e non hanno alcuna funzione comunicativa. Specularmente, fenomeni come
il “muzak” – i sottofondi sonori diffusi in ambienti pubblici
di lavoro, consumo, trasporto o svago – non hanno altra funzione che
quella, presumibile, di attenuare lo stress dell’uomo moderno e di ridurre
l’eccitazione nervosa prodotta da quei rumori. Tali flussi sonori, contraddistinti
per lo più da una patina armonica e melodica dolciastra e indistinta,
vanificano l’idea stessa di ascolto e il presupposto che la musica,
a prescindere dal genere e dal grado di complessità e astrattezza,
sia sempre, come si è detto, una forma di comunicazione. Ecco perché,
per dirla di nuovo con Blacking, “un madrigale di Gesualdo o una passione
di Bach, una melodia di sitar indiana o un canto africano, il Wozzeck di Berg
o il War Requiem di Britten, un gamelan balinese, un’opera cantonese
o una sinfonia di Mozart, Beethoven o Mahler, possano essere profondamente
necessari alla sopravvivenza umana”.
Musica e identità
Generata com’è all’interno di contesti sociali e comunitari
specifici, l’esperienza musicale svolge un ruolo importante nella formazione
e nell’affermazione di identità individuali e collettive distinte
e a volte contrapposte. Le forme e le modalità di questa funzione della
musica sono molteplici e corrispondono ai molteplici livelli della vita dell’individuo
nella comunità. Che si tratti di appartenenza sociale, politica, etnica,
nazionale, religiosa, linguistica, generazionale, di gender e altre ancora
- a ognuno di questi ambiti corrisponde ovunque un patrimonio di musiche emblematiche
che s’investono di un valore simbolico profondo ed efficace. Gli inni
nazionali, le marce militari, le canzoni di protesta e i canti religiosi sono
gli esempi più ovvi di un fenomeno assai più vasto e complesso.
La “musica classica” europea, per secoli retaggio della chiesa
e privilegio delle corti aristocratiche, è diventata nell’Ottocento
un rito sociale della borghesia. Le canzoni di una patria lontana mantengono
vivi il sentimento di appartenenza degli emigrati. Il grande movimento del
rock statunitense negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento da voce alla
rottura di un’intera generazione con i valori della società dei
padri. Le tendenze musicali del mondo giovanile negli ultimi decenni illustrano
il peso che può avere l’adozione simbolica ed effettiva di una
corrente musicale nella definizione d’identità dell’individuo
e del gruppo. Ascoltare, ballare e magari eseguire musica punk piuttosto che
techno, metal o trans rappresenta lo stile di vita e i valori del giovane
non meno e forse più del suo abbigliamento, del mezzo di trasporto
che usa o delle letture che fa.
Forse è questo il segreto della grande forza dell’arte dei suoni:
la musica può unire le anime ovunque esse siano attraverso un elemento
non- o metalinguistico che trascende le singole realtà e si rende condivisibile
senza altre mediazioni, ma al tempo stesso essa è capace di costituirsi
come mezzo di espressione concreto e inconfondibile di impulsi, correnti e
gusti specifici dell’individuo e delle comunità. (TPB)
Riferimenti bibliografici
John Blacking, How Musical Is Man? (1973), trad. it. di F. Giannattasio, Com’è
musicale l’uomo?, Milano, Unicopli, 1986.
Francesco Giannattasio, Il concetto di musica: contributi e prospettive della
ricerca etnomusicologica, La Nuova Italia Scientifica, 1992.
Marcello Sorce Keller, La rappresentazione e l’affermazione dell’identità
nelle musiche tradizionali e le musiche occidentali, in Enciclopedia della
Musica, diretta da J.-J. Nattiez, vol. V: L’unità della musica,
Torino, Einaudi, 2005, pp. 1116-1139.