Pedagogia della musica



La pratica della trasmissione del sapere musicale, che tradizionalmente si limitava alla somministrazione di concetti e competenze senza nessun riguardo alle tecniche d’insegnamento, è diventata nel secolo scorso l’oggetto di uno studio approfondito finalizzato a determinarne scientificamente tanto le finalità quanto le strategie operative. Rispetto alla dimensione prettamente bidimensionale, votata cioè esclusivamente all’aspetto teorico speculativo o a quello tecnico, in cui fino al XIX secolo s’inscriveva l’acculturazione musicale, la pedagogia moderna si distingue per un approccio marcatamente interdisciplinare inglobando nelle varie teorie dell’insegnamento principi e metodologie desunte dalla psicologia, dalla sociologia, dalla filosofia e dall’antropologia, corroborati ovviamente dall’apporto delle diverse discipline musicologiche. Da questo discende, fra l’altro, la moltitudine degli approcci di cui si compone il panorama pedagogico musicale attuale, all’interno del quale è possibile tuttavia profilare alcune correnti distinte riconducibili ai cosiddetti “metodi storici” dell’inizio del secolo scorso. La grande fioritura di studi e teorie che caratterizza il campo dell’educazione musicale non trova però un adeguato riscontro in quello della formazione, ossia della trasmissione di conoscenze specifiche a carattere professionalizzante, in cui, proprio a causa della mole di competenze richieste e alla costante necessità di aggiornamento dei docenti, l’attecchimento e la diffusione delle scienze pedagogiche incontra una resistenza molto maggiore.



I metodi storici dell’educazione musicale


La nascita di una pedagogia musicale scientifica orientata all’educazione musicale generale dei bambini e dei ragazzi è una conseguenza dell’ideazione da parte di Adolphe Ferrière, John Dewey e Ovide Decroly del cosiddetto metodo attivo, una tecnica dell’apprendimento che pone al centro del processo di acquisizione del sapere la partecipazione consapevole del discente, stimolato sia dal punto di vista sensoriale sia da quello motorio a porre in gioco le proprie abilità e il proprio vissuto per diventare protagonista della propria evoluzione. Le origini di tale metodo, il cui atto di nascita può essere visto nella fondazione della “Ligue internationale pour l’education nouvelle” (1921), sono da ricercarsi nelle speculazioni filosofiche della corrente sensista e, in particolare, nelle opere di Locke, Condillac, Diderot e Hume, i cui principi fondanti confluirono nel celebre trattato “Émile ou de l’éducation” (1762) di J. J. Rousseau, all’interno del quale, peraltro, la musica gioca un ruolo tutt’altro che secondario.

Il metodo attivo si contrappone a quello tradizionale della somministrazione dei contenuti culturali delle varie discipline di studio, recepiti in modo passivo dall’allievo che assiste alle classiche lezioni frontali. La sua traduzione nel campo dell’insegnamento musicale si deve all’opera di alcuni compositori-teorici che svilupparono, in forma autonoma, ma sulla linea di presupposti comuni, le metodologie didattiche che stanno ancor oggi alla base dell’educazione musicale: fra essi ricordiamo: Èmile Jaques-Dalcroze, Zoltán Kodály, Carl Orff e Maurice Martenot. Al di là delle varie caratteristiche peculiari, le metodologie promosse da questi autori sono accomunate dalla scelta di anteporre la pratica alla teoria, in modo da porre il discente nella condizione di poter confrontare le regole della musica con la propria esperienza sensomotoria. Tale esperienza pratica si traduce principalmente nelle attività di canto corale e di produzione sonora attraverso il corpo (battito delle mani e dei piedi, schiocco delle dita, ecc…) e nell’esecuzione strumentale. A questo proposito è indispensabile ricordare lo strumentario Orff, una collezione di semplici strumenti a percussione messa a punto dal compositore tedesco, che comprende metallofoni intonati e idiofoni ad altezza indeterminata prelevati dalle tradizioni organologiche di tutto il mondo (preconizzando così l’importante tema dell’interculturalità nella pedagogia, ampiamente discusso ai giorni nostri). L’apprendimento delle tecniche esecutive fondamentali di questi strumenti consente alla classe di eseguire semplici brani musicali in forma “orchestrale”. Fondamentale nel processo di apprendimento è inoltre il rapporto fra studente e docente, che si configura generalmente nella relazione solo-tutti e che si basa su un rapporto di imitazione, cooperazione e improvvisazione guidata.

Un altro tratto caratteristico dei metodi attivi della pedagogia musicale è la scelta del repertorio, che nel pensiero dei teorici citati doveva comprendere brani desunti dalla tradizione folklorica locale, filastrocche e canzonette per l’infanzia. Le ricerche più recenti hanno però messo in luce l’inopportunità di una scelta di brani che corrispondono sempre meno all’identità musicale degli allievi, ossia all’insieme dei valori, dei gusti, delle condotte e delle capacità relative all’esperienza musicale maturate e spendibili dai discenti all’interno e all’esterno dell’ambiente scolastico. In particolare, ci si interroga sul ruolo giocato dai mezzi di comunicazione di massa nella costruzione degli orizzonti musicali dei giovani, riscontrando in questi ultimi la propensione ad appropriarsi dei linguaggi musicali dominanti sul mercato dell’industria culturale non solo come oggetti di un’esperienza estetica o ludica, ma anche come punti di riferimento nella definizione del proprio “territorio” sociale e affettivo. Fra i compiti della pedagogia musicale di oggi si pone pertanto con urgenza quello di fornire agli insegnanti la preparazione e le tecniche necessarie per entrare in comunicazione con questi orizzonti musicali giovanili, facendo leva sulle condotte musicali ad essi collegate per il raggiungimento degli obiettivi didattici stabiliti e promuovendo contemporaneamente un’apertura ad altri universi musicali.

Quello della scelta dei repertori è solo uno dei problemi su cui si concentrano le scienze della didattica musicale contemporanee, chiamate anche a misurarsi su tematiche legate all’importanza dello sviluppo della creatività, alla possibilità di compenetrazione fra pensiero astratto (prevalentemente formale) e concreto (legato all’esperienza pratica quotidiana) nell’ascolto, nell’interpretazione e nella produzione di musica.



Gli studi superiori musicali


Uno dei principi fondamentali su cui si fonda la concezione moderna dell’educazione musicale è la necessità di sviluppare nell’allievo attitudini e competenze relative tanto alla sfera teorica del “sapere” quanto a quella pratica del “saper fare”. Seguendo percorsi didattici appropriati, il bambino sarà infatti posto nella condizione di sperimentare in modo creativo e performativo il fatto musicale e di apprenderne i rudimenti teorici e notazionali, al fine di raggiungere una padronanza generale sufficientemente sviluppata del linguaggio della musica. Questa compenetrazione delle due forme di conoscenza musicale è un fenomeno tutto sommato recente e quasi completamente relegato all’insegnamento primario e secondario, mentre nel quadro degli studi musicali cosiddetti “superiori”, ossia quelli in cui l’oggetto dell’insegnamento è l’alta formazione musicale, la suddivisione fra teoria e prassi è di certo più marcata. Tale situazione rispecchia perfettamente la plurisecolare ripartizione dell’insegnamento musicale fra “scholae cantorum” e conservatori, da un lato, e università, dall’altro, sopravvissuta anche all’estinzione dell’idea di provenienza classica e medievale dell’assoluta estraneità della dimensione speculativa da quella pratica-artigianale. Proprio sulla base del grado di compenetrazione fra insegnamento teorico e pratico è infatti possibile individuare tre modelli della didattica musicale superiore, i quali, nonostante il clima di riforma attualmente diffuso in molte realtà europee, mantengono ancor oggi una validità generale.

La prima tipologia, che potremmo definire italiana, ma che è di fatto diffusa in molti altri paesi, è quella che mantiene più marcata la separazione fra le due aree disciplinari, caratterizzata da una diffusione generalmente molto più capillare delle scuole d’impostazione pratica (conservatori) rispetto alle università. A questa si contrappone quella anglosassone, che propone un’integrazione fra le due realtà e nelle cui istituzioni, di carattere prevalentemente universitario, è possibile articolare piani di studio integrati. Il terzo modello, in effetti assai raro, è quello francese, che pur mantenendo una differenziazione fra le istituzioni preposte ai due diversi insegnamenti, promuove la stipulazione di convenzioni che consentano agli allievi di attingere ad entrambe le offerte didattiche. Una volta delineati questi modelli è necessario però sottolineare che la tendenza attualmente più diffusa sembra essere quella che conduce al massimo ampliamento possibile della preparazione dei discenti attraverso la fusione delle aree didattiche. Ne è un esempio la recente riforma italiana che, trasformando i tradizionali diplomi di conservatorio in lauree di primo livello, ha promosso l’ampliamento del ventaglio di discipline proposte mediante l’inserimento di corsi di tipo universitario. Va notato però che limitazioni di tipo economico e infrastrutturale da cui sono afflitti molti dei conservatori italiani e i tempi di attuazione piuttosto ristretti della riforma hanno creato in molti casi situazioni ibride in cui la rimodulazione dei programmi didattici ha ricalcato in gran parte quella dei vecchi ordinamenti con l’aggiunta di discipline umanistiche generali e teoriche musicali, lasciando sostanzialmente invariata l’impostazione generale e aggravando il carico di lavoro degli studenti, forse a discapito della qualità dell’apprendimento. Inoltre, il principio d’integrazione dei saperi precedentemente esposto, pur conservando la propria validità in linea di principio, si scontra con la quantità di competenze estremamente specifiche richieste sia al compositore, al direttore e all’esecutore professionisti sia al musicologo. Si vede infatti che il percorso di formazione dei primi è divenuto talmente lungo e articolato da imporre agli stessi la frequenza, una volta ottenuto il diploma, di master-class e corsi di perfezionamento e che, d’altro canto, la sempre crescente parcellizzazione del sapere musicologico si traduce in un imponente allargamento del bagaglio di conoscenze richieste allo studioso: in entrambi i casi, la specializzazione “verticale” contrasta con l’estensione “orizzontale” della cultura, rendendo in ogni caso difficile la definizione di un compromesso accettabile da entrambe le parti. (NB)



Riferimenti bibliografici


Claude Dophin, “Didattica della musica nel Novecento”, in Enciclopedia della musica, diretta da Jean-Jacques Nattiez, vol II, “Il sapere musicale”, Torino, Einaudi, 2002, pp. 785-803.

Johannella Tafuri, “La formazione musicale superiore in Europa e in Nord America”, in Enciclopedia della musica, diretta da Jean-Jacques Nattiez, vol II, “Il sapere musicale”, Torino, Einaudi, 2002, pp. 822-845.