Le discipline musicologiche



Una delle costanti più diffuse nella storiografia delle scienze moderne è l’esatta individuazione di un particolare evento che possa essere visto come atto di nascita di un nuovo campo di studio: nel caso della musicologia, l’anno è il 1885, il luogo la città di Lipsia e l’evento è la pubblicazione a cura di Guido Adler e Friedrich Chrysander del primo volume del periodico “Vierteljahrschrift für Musikwissenschaft” (Rivista Trimestrale di Musicologia) e, in particolare, dell’articolo introduttivo di Adler, “Umfang, Methode und Ziel der Musikwissenchaft” (Estensione, metodo e finalità della musicologia). Il grande merito che gli studiosi riconoscono a questo scritto, che certamente riprese concezioni sviluppate precedentemente, soprattutto nel “Musikalisches Lexicon” di Johann Gottfried Walther (1732) e nel “Dictionnaire de la musique” di Rousseau (1768), è quello di aver delineato in modo sistematico il campo d’azione della musicologia e di averlo suddiviso in un numero finito di aree tematiche che ne esaurissero le possibilità euristiche e metodologiche. Pochissime sono infatti le definizioni della “scienza della musica” presenti nei dizionari, generici e specifici, e nei lessici di tutto il mondo che non si rifacciano all’impostazione generale ideata dal musicologo tedesco ed è possibile affermare che questa sia ancor oggi il fondamento concettuale su cui poggia lo studio della musica. Lo stesso vale per la distinzione fondamentale fra musicologia storica e musicologia sistematica che sta alla base del sistema adleriano, la quale, oltre ad aver trovato un immediato riscontro nell’organizzazione dell’insegnamento universitario fino ai nostri giorni, è il punto da cui la comunità scientifica generalmente parte per riflettere sullo stato presente della ricerca e sui possibili orientamenti futuri. Tuttavia, al di là delle singole sottodiscipline, che col tempo sono aumentate, si sono evolute e diversificate, quella che permane è soprattutto l’idea originale di una scienza che indaghi ogni aspetto dello scibile musicale, che racchiuda in sé tutte le riflessioni e tutte le ricerche possibili dedicate all’oggetto “musica”. In questo senso, pertanto, il profilo schematico della musicologia adleriana non ha solo il valore simbolico di “battesimo” delle scienze musicali, ma stabilisce, o quanto meno interpreta in modo sintetico e originale, un preciso orientamento filosofico-scientifico d’ispirazione olistica che si manterrà sostanzialmente invariato per tutto il XX secolo.



Musicologia storica e musicologia sistematica


La prima macrocategoria identificata da Adler è, come abbiamo detto, quella della musicologia storica, che comprende discipline quali la paleografia musicale (ossia lo studio e l’interpretazione della notazione musicale nel passato), l’organologia (la storia degli strumenti musicali) e soprattutto la storia delle opere, dei compositori, delle forme, e delle teorie: in effetti, la ricerca musicologica ha mostrato che non esiste nessun aspetto della musica che non possa essere indagato da un punto di vista storico, inclusi quelli di pertinenza dell’altra grande categoria adleriana, la musicologia sistematica. Quest’ultima ha per oggetto la “presentazione delle più alte norme all’interno delle singole branche dell’arte dei suoni” (nelle parole dello stesso Adler) e comprende le scienze dell’armonia, del ritmo e della melodia, l’estetica, la pedagogia e la didattica musicali e la “Musicologia”, ossia lo studio musicale di carattere etnografico da cui discesero la musicologia comparata e, successivamente, l’etnomusicologia. Come quella storica, anche la musicologia sistematica ha conosciuto nel corso dei decenni un ampliamento del proprio raggio d’azione: alle discipline citate se ne sono aggiunte altre, come la sociologia della musica o la psicologia, percettiva e cognitiva (già peraltro presenti nella definizione del 1885 come scienze generali di supporto), a loro volta indagabili sotto il profilo diacronico.

La proliferazione pressoché illimitata delle prospettive storiche da cui è possibile osservare un fenomeno artistico e culturale complesso qual è la musica si è di fatto tradotta in una netta preponderanza, con buona pace dell’impostazione adleriana, degli studi di carattere storiografico. Tali studi erano principalmente votati alla ricerca di caratteristiche comuni all’interno dei repertori e delle istituzioni musicali del passato e alla conseguente definizione di generi, stili e correnti omogenei al loro interno e reciprocamente contrapposti. Ne è conseguito un relativo disinteresse nei confronti dell’area sistematica che ha coinvolto, in misura e con effetti variabili, tutti i principali centri musicologici europei (con la possibile eccezione dell’Ungheria ove, sulla scorta delle ricerche dedicate al repertorio popolare dei compositori Bartok e Kodály, si è sviluppata una fiorente produzione etnomusicologica). A questa tendenza europea si contrappose nel secondo dopoguerra una teoria analitica statunitense, la cosiddetta “Music Theory”, coltivata in seno ai principali centri universitari e sostenuta dall’opera di alcuni fra i più innovativi teorici dell’epoca quali Allan Forte, Milton Babbit e David Lewin. Essa pose al centro dello studio della musica un approccio prevalentemente analitico dedicato alla definizione del “funzionamento” dell’oggetto musicale e alla formulazione di principi e metodologie d’indagine in una prospettiva relativamente astorica e avalutativa.

Tale squilibrio negli orientamenti della ricerca non è certo sfuggito all’attenzione di eminenti musicologi quali Claude Palisca, Charles Seeger e Friedrich Blume, i quali, per lo meno a partire dalla metà degli anni Sessanta del secolo scorso, si sono dedicati a una ricognizione dello “stato dell’arte” e alla definizione di alcune possibili traiettorie di sviluppo. Fra le tendenze musicologiche da questi biasimate spiccano la predominanza degli interventi dedicati a problemi di pertinenza dell’ambito umanistico rispetto a quelli dedicati all’indagine scientifica, l’eccessiva tendenza alla generalizzazione nella definizione di generi e stili e, all’interno tanto della corrente storiografica quanto di quella teorica-analitica, la mancanza di riferimenti antropologici e sociologici nello studio del dato musicale. Con il recente crollo del concetto occidentale di “universale” musicale e grazie all’apporto delle nuove metodologie sistematiche sviluppate nel contesto degli studi sulla musica non occidentale e contemporanea, l’orientamento della ricerca musicologica ha conosciuto, a partire dagli anni Ottanta, una progressiva ridefinizione della classica contrapposizione fra approccio storico e sistematico, orientandosi più verso una convergenza e una parziale sovrapposizione delle due aree d’indagine. Se, da un lato, l’attenzione si è gradualmente spostata dalla ricerca storica ad ampio raggio verso l’individuazione delle peculiarità specifiche dei singoli brani o di porzioni ridotte dei repertori, dall’altro, la musicologia storica si è aperta sia dal punto di vista dei contenuti sia da quello metodologico alle nuove discipline sistematiche, quali l’etnomusicologia e agli studi di genere. Non fa eccezione il panorama italiano che, pur mantenendo vivo il tradizionale interesse per gli ambiti paleografico e filologico, ha sviluppato negli ultimi anni una forte attenzione per l’area sistematica, sia dal punto di vista tecnico-analitico, sia da quello etnografico e antropologico.



Intersezioni e compenetrazioni nella musicologia contemporanea


Il modo migliore per immaginare la composizione interna della musicologia attuale è probabilmente quello di figurarsi una cartina geografica le cui regioni si sovrappongano l’una all’altra senza soluzione di continuità. Se infatti non sembra particolarmente difficile dare una definizione sommaria di quale sia il campo d’interesse, poniamo, dell’estetica musicale (v. valore e giudizio estetico), ben più arduo è il compito di delimitare i confini che la separano dalla critica e dalla teoria; lo stesso dicasi per la storia della musica rispetto all’analisi, alla filologia, alla paleografia e all’organologia (v. strumenti musicali). La situazione, volendo indugiare ancora per un istante sulla nostra metafora geografica, è anche più complessa passando dal piano “locale” della musicologia a quello “globale” dei suoi rapporti con le altre aree del sapere. Sempre maggiore è infatti il numero degli interventi che propongono metodologie d’indagine prelevate dalla critica letteraria (v. musica e linguaggio), dalla storia generale, dalle diverse correnti filosofiche (v. musica e filosofia*), nonché dalle scienze naturali e sociali (v. musica e scienze), mentre il processo inverso non sembra riscuotere il benché minimo successo. La tendenza della musicologia all’“ibridazione”, endogena o esogena, è stata più volte portata all’attenzione della comunità musicologica da studiosi di volta in volta allarmati, incuriositi, o entusiasti che si sono variamente interrogati sulle insidie o sulle prospettive aperte da tali contaminazioni.

La condizione attuale sembrerebbe dunque contrastare apertamente con la segmentazione di cui abbiamo discusso in precedenza; tuttavia, tale contraddizione è solo apparente, in quanto la filosofia che sta alla base del pensiero di Adler e della musicologia che da lui idealmente discende non deve essere necessariamente interpretata come desiderio di una ripartizione netta e perfettamente equilibrata delle forze in campo fra le diverse discipline. Non si tratta di computare il numero d’interventi che afferiscono all’uno o all’altro settore di studi, né di profilare una deontologia professionale che imponga di muoversi necessariamente all’interno del proprio territorio. L’oscillamento delle tendenze musicologiche verso un approccio sistematico piuttosto che storico e la compenetrazione di due o più metodologie scientifiche dipendono da una molteplicità di fattori quali l’orientamento della cultura in generale e della società, la continua ridefinizione del panorama musicale, gli interessi espressi dai fruitori della produzione musicologica, le traiettorie intraprese dalle diverse scuole di pensiero e il rapporto che queste intrattengono con le istituzioni (v. le strutture organizzative) in cui prendono forma e, non meno importante, la capacità dei musicologi stessi di interpretare l’influsso che tutti questi fattori hanno esercitato sulle generazioni passate ed esercitano sulla propria. L’esistenza delle diverse discipline musicologiche e la loro definizione, pertanto, non sono da considerarsi come delimitazioni normative di carattere restrittivo, ma, al contrario, come incentivo all’approfondimento e all’interscambio di metodologie e concetti, tutti rivolti al fine comune della comprensione della musica. (NB)



Riferimenti Bibliografici


Margaret Bent, “Il mestiere del musicologo”, in Enciclopedia della musica, diretta da Jean-Jacques Nattiez, vol. II, Torino, Einaudi, 2002, pp. 575-590.

D. Kern Holoman - Claude V. Palisca, “Musicology in the 1980s : methods, goals, opportunities”, New York, Da Capo Press, 1982.

Bruno Nettl, “The Institutionalization of Musicology”, in “Rethinking Music”, a cura di N. Cook e M. Everist, Oxford, Oxford University Press, 1999, pp. 287-310.