Etnomusicologia
L’oggetto di studio dell’etnomusicologia:
tra musicologia e antropologia
Tra i problemi che una “giovane” disciplina come
l’etnomusicologia si trova a dover affrontare vi è anzitutto
la difficoltà nel circoscrivere il proprio oggetto di studi. Le molteplici
contrapposizioni che caratterizzano spesso la concezione dell’alterità
musicale (musica occidentale/non occidentale, musica orale/scritta, colta/popolare)
sembrano essere sempre meno adeguate a spiegare perché ci si interessa
a certe musiche e perché lo si fa per mezzo dell’approccio etnomusicologico.
L’etnomusicologo certamente studia la musica, ma ciò che maggiormente
distingue il suo approccio da quello della musicologia pura è l’interesse
per le dinamiche sociali all’interno delle quali il fenomeno musicale
osservato si inscrive, interesse che non è minore di quello per l’analisi
musicale del fenomeno puramente sonoro. Il prefisso etno- indica dunque la
fusione di due discipline, musicologia ed etnografia, e di conseguenza l’importanza
di una doppia competenza da parte dello studioso; l’analisi musicale
è la prospettiva attraverso la quale l’etnomusicologo intraprende
un’indagine che è essenzialmente di tipo antropologico. L’attenzione
verso il fenomeno musicale e la sua analisi precedono lo studio e la descrizione
del contesto sociale, ma non ne sono scisse nell’etnomusicologia attuale.
L’interesse dell’etnomusicologo moderno non è aprioristicamente
proiettato verso fenomeni musicali geograficamente o culturalmente distanti;
egli osserva soprattutto la pratica musicale all’interno di una società,
vicina o lontana che sia, per riflettere sulle modalità e sulle funzioni
della musica presso gli individui e le comunità che la compongono.
“Humanly organised sound” (suono umanamente organizzato) è
la definizione della musica data dall’etnomusicologo inglese John Blacking
in “How musical is man?” (“Com’è musicale l’uomo?”,
1973). La musica, in quanto organizzazione di suoni, è il prodotto
del pensiero e dell’estetica della società in cui nasce. Al centro
della prospettiva etnomusicologica vi è dunque l’elemento comunitario
e sociale, la condivisione non soltanto del materiale sonoro, ma anche degli
aspetti socio-culturali che ne sono all’origine. Questa concezione prevale
allo stato attuale della disciplina; si tratta comunque del punto di arrivo
di un percorso di evoluzione e cambiamenti.
L’etnomusicologia moderna, obbligando a relativizzare la nostra cultura
musicale, ha inoltre il merito di alimentare la riflessione sull’universalità
del fenomeno musicale; la produzione musicale occidentale, tradizionalmente
oggetto di studio della musicologia classica, è una modalità
specifica del fare musica che può essere osservata attraverso una prospettiva
etnomusicologica. L’idea di una musicologia generale, della tensione
verso un punto d’incontro tra le due discipline, è oggi alla
base di alcune tra le più importanti questioni poste dall’etnomusicologia.
Nascita e evoluzione della disciplina
Gli esploratori coloniali del XVIII secolo furono i primi a fornire sommarie
trascrizioni di musiche non occidentali nelle loro cronache; nello stesso
periodo i pionieri dello studio folklorico compilavano descrizioni di testi
della musica popolare europea. L’interesse per le “altre musiche”,
seppur lungi dal concretizzarsi in forme scientifico-accademiche, aveva attraversato
l’età dell’Illuminismo prima, influenzando Jean-Jacques
Rousseau, autore del “Dictionaire de Musique” (1768), contenente
trascrizioni di melodie popolari dell’Europa e dei nuovi mondi, e il
Romanticismo poi, caratterizzato da un interesse prevalentemente dilettantistico
nei confronti della materia, sulla spinta del mito del “buon selvaggio”
e del fascino per l’esotismo assai in voga in quest’epoca. Sul
finire dell’ottocento, però, alcuni eventi segnano la svolta
verso un approccio più scientifico all’etnomusicologia: nel 1884
Alexander John Ellis, filologo e matematico inglese, pubblica un saggio dal
titolo “Tonometrical observations on some existing non-harmonical scales”,
(osservazioni tonometriche su alcune scale non-armoniche esistenti) in cui,
proponendo un sistema di calcolo logaritmico degli intervalli musicali, dimostra
che la scala musicale è un modello artificiale, e in base a ciò
non esiste un modello universale al disopra delle differenze culturali. Ellis
fornisce così i primi strumenti tecnici per lo studio transculturale
della musica.
In questi anni si sviluppano inoltre due importanti elementi che caratterizzeranno
l’etnomusicologia nel secolo successivo: la ricerca sul campo e la creazione
di archivi sonori. Entrambi gli aspetti sono in un certo senso legati alla
stessa innovazione tecnica, il fonografo a cilindri di cera, messo a punto
da Thomas Edison nel 1887, che permette di incidere e conseguentemente catalogare
la musica di popoli e culture eseguita dagli stessi autoctoni. È proprio
intorno ad uno dei più importanti archivi sonori, il Phonogramm-Archiv
dell’università di Berlino, istituito nel 1902, che si forma
il primo centro operativo di studi etnomusicologici, la cosiddetta Scuola
di Berlino. In quest’ambito si delinea il nuovo campo di studi della
musicologia comparata: in maniera sostanzialmente
analoga alla teoria di Darwin per le specie biologiche (già ripresa
dagli evoluzionisti per lo studio delle società), si ipotizzava che
i fenomeni musicali avessero conosciuto uno sviluppo, una evoluzione, da forme
più elementari e indifferenziate a quelle più complesse (o almeno
ritenute tali). Dunque la musica delle popolazioni “primitive”
e il folklore europeo, erano studiate come sopravvivenze di uno stadio primigenio
attraversato e superato nella musica occidentale. Questo approccio è
stato duramente criticato da John Blacking in “How musical is man?”.
Oltre a dimostrare l’inutilità di teorie che cercano le origini
dell’espressione musicale nell’imitazione da parte dei primitivi
dei suoni della natura, in quanto teorie indimostrabili, Blacking attacca
la concezione evoluzionista secondo cui l’uomo avrebbe cominciato ad
esprimersi con uno o due suoni, per arrivare gradualmente all’uso di
più suoni e strutture più complesse. L’etnomusicologo
inglese fa riferimento alla sua esperienza con i Venda del Sud Africa: i Venda
conoscono e sono in grado di utilizzare scale esatoniche ed eptatoniche (v.
scala), senza che vi
siano interferenze da culture occidentali, ciononostante, analogamente a ciò
che è successo nella cultura cinese, hanno optato per scale di cinque
suoni.
Il comparativismo dei primi studi conosce comunque un progressivo declino,
fino al suo superamento alla fine degli anni ’50. Non vanno comunque
sottovalutati suoi contributi: oltre alla prima sistematica classificazione
degli strumenti musicali ad opera di Curt Sachs, esponente di spicco della
scuola di Berlino, i continuatori della Scuola affrontano nuovi problemi teorici
di trascrizione dei suoni. Mettono inoltre a
punto strumenti elettro-acustici per la trascrizione automatica di melodie
e per la misurazione dei suoni, anche se su questo aspetto emerge un altro
dei limiti di questa corrente: la scarsità della ricerca sul campo.
Proprio da qui, a partire dagli anni ‘40-‘50, comincia la reazione
al comparativismo: si verifica in quegli anni un boom di ricerche sul campo
, atte a descrivere le società tradizionali e spinte da una sorta di
urgenza nel timore che l’estinzione di alcune società comportasse
la definitiva perdita del loro bagaglio culturale. La nuova spinta è
guidata da una visione di tipo sincronico dei fatti, considerati nelle loro
relazioni sistematiche all’interno delle società, che si contrappone
all’impostazione diacronica di evoluzionismo e diffusionismo.
Questa seconda fase può essere definita quella dell’etnomusicologia
propriamente detta, se non altro per il fatto che proprio nel 1950, ad opera
dell’olandese Jaap Kunst, viene coniato il termine ethno-musicology,
riconosciuto ufficialmente e universalmente con la costituzione, nel 1955,
della Society for Ethno-musicology. La nuova corrente ha il suo centro operativo
negli Stati Uniti, dove si forma una scuola etnologica anti-evoluzionistica;
una delle sue più importanti caratteristiche è quella di privilegiare
un metodo induttivo, in opposizione a quello deduttivo dell’evoluzionismo.
Teorie e leggi vengono dunque formulate sulla base di dati ed esperienze raccolti
sul campo, anziché partire da un presupposto ed orientare successivamente
gli studi verso la sua dimostrazione. Tra le personalità di spicco
della scuola americana sono da ricordare Franz Boas e Gorge Herzog che, influenzato
da Boas, delinea importanti nessi tra analisi linguistica e musicale; inoltre,
i suoi allievi Gorge List e Bruno Nettl.
Tra gli apporti principali di questa fase della disciplina, vi è la
distinzione di due concetti-base per gli studi etnomusicologici a venire:
la nozione di sistema musicale e cultura
musicale . Il sistema musicale è l’insieme di regole e
relazioni che connotano un determinato linguaggio musicale; la cultura musicale
è invece l’insieme di tratti che consentono di identificare le
forme musicali come specifiche di una determinata società. Questi due
concetti, oltre a creare un interessante parallelismo fra l’etnomusicologia
e la linguistica (si pensi all’opposizione di Ferdinand de Saussure
fra “langue” (lingua), codice individuale, e “parole”
(parola in quanto atto individuale di utilizzazione del codice), sono determinanti
nel delinearsi di una terza fase, più recente, dell’etnomusicologia:
la divisione degli studiosi, a partire dagli anni ’60, in due correnti:
una formalista, più puramente musicologica, che si concentra sull’analisi
del fenomeno musicale in sé, l’altra antropologico-musicale,
che intende l’etnomusicologia come studio della musica nel contesto
sociale in cui è prodotta. Tra le personalità principali di
questa seconda corrente, l’antropologia della musica, vi è Alan
P. Merriam, autore di “The Anthropology of Music” (1964), nonché
il già citato John Blacking. Le critiche mosse all’approccio
musicologico-formalista, che delimita lo studio di un sistema musicale alla
sola analisi dei materiali sonori, si basano essenzialmente sull’importanza
della dinamica sociale e culturale, vero movente dell’espressione musicale.
Le metodologie e le fasi della ricerca etnomusicologica;
i settori di indagine, le tecniche, i risultati
Nella scelta dei settori di indagine emerge un importante problema
che lo studioso deve porsi: egli potrà effettuare degli studi di tipo
intensivo, ovvero selezionare un’area geografica limitata e prestarle
particolare attenzione, oppure estensivo, viaggiando in aree particolarmente
estese senza soggiornare a lungo e dedicandosi prevalentemente all’accumulo
dei dati. Lo studio intensivo può inoltre effettuarsi su aree geografiche
particolarmente vaste, ma dedicarsi ad un solo aspetto della cultura presa
in esame, in maniera settoriale. I principali punti di partenza della ricerca
etnomusicologica sono: lo studio dei repertori musicali, primo passo verso
qualsiasi tipo di approfondimento; lo studio degli strumenti e delle tecniche
di produzione del suono; lo studio dei testi verbali, la loro forma e il loro
contenuto; i tratti stilistici.
Per quanto riguarda gli aspetti socio-antropologici dell’indagine, che
caratterizzano la fase successiva della ricerca, un’attenzione particolare
sarà riservata allo studio delle occasioni del fare musica , del ruolo
sociale del musicista, dei concetti e delle idee relative alla musica che
circolano nella società, non solo tra i musicisti. L’organizzazione
del lavoro di un ricercatore-tipo, è così suddivisa in tre tappe
principali. In un primo momento, l’etnomusicologo si dedicherà
alla ricerca sul campo: si tratta di una fase
assolutamente imprescindibile nello studio di musiche di concezione e trasmissione
orale (v. oralità e scrittura). Ogni situazione
in questo caso ha le sue particolarità, ma vi sono alcune costanti,
tra cui il ruolo dell’informatore, ovvero la persona o le persone, interne
alla società osservata, che forniscono al ricercatore informazioni
di vario genere, tramite interviste o altri contatti più o meno formali
con lui. Altrettanto basilare è l’osservazione delle performances,
siano esse puramente musicali o religiose (come i rituali o le cerimonie tradizionali),
spontanee o eseguite appositamente per il ricercatore; l’etnomusicologo,
inoltre, avrà cura di procedere alla registrazione, dei fenomeni osservati,
in forma di notazione scritta o su nastro, di musica o di intervista, su pellicola
16 mm. o in fotografia. In questo modo si potrà procedere da subito
alla creazione di archivi consultabili in seguito. Una seconda fase della
ricerca prevede l’elaborazione dei dati
raccolti sul campo. In questa fase intermedia si procede allo spoglio dei
materiali, alla loro schedatura e trascrizione in laboratorio, eventualmente
con l’ausilio di apparecchiature computerizzate per l’analisi
del suono. Da un punto di vista della produzione di testi e della divulgazione,
la fase dell’elaborazione dei dati permette di pubblicare monografie
su specifiche culture musicali, antologie e raccolte, riviste specializzate
e raccolte discografiche. Nella terza fase, infine, si giunge solitamente
a delle teorizzazioni, o quantomeno si leggono
i dati raccolti in relazione alle principali questioni etnomusicologiche.
Lo stadio finale della ricerca prevede la produzione di una letteratura di
carattere più complessivo: manuali, testi di carattere generale, trattati
musicologici o antropologici, che spesso travalicano lo specifico disciplinare
mettendo i dati a disposizione anche di altre scienze umane.
Le metodologie, il luoghi e le fasi della ricerca sono dunque molto differenziati;
lo studioso si trova confrontato a problemi di natura molto diversa per la
cui risoluzione necessita di molteplici competenze. La complessità
dell’indagine è però il principale punto di forza de questa
disciplina, l’aspetto che la spinge al dialogo continuo con vaste aree
del sapere. Da questo dialogo deriva la ricchezza della prospettiva etnomusicologica.
(TM)
Bibliografia di riferimento
Francesco Giannattasio, Il concetto di musica, contributi
e prospettive della ricerca etnomusicologica, la Nuova Italia Scientifica,
1992.
Jean Jacques Nattiez, Etnomusicologia, in Enciclopedia della musica Einaudi,
vol. 2, Einaudi, Torino, 2002.
Helen Myers (a cura di), Ethnomusicology, an introduction, Norton & C,
New York,1992.