Oralità e scrittura
Un percorso di influenze reciproche
La notazione musicale nella storia della musica occidentale nasce con la funzione
di raccogliere e conservare delle forme musicali oralmente trasmesse, che
continuano comunque in un primo momento a rimanere tali. Il rapporto tra l’oralità
e la scrittura è caratterizzato nei secoli da una dinamica di scambi
e influenze continue, in cui il mondo orale popolare, oltre a lasciare tracce
riconoscibili nella musica scritta, si rimpossessa con facilità dei
suoi linguaggi, formalizzati dalla scrittura musicale in ambito colto. È
necessaria anzitutto una precisazione a riguardo delle antinomie tra colto
e popolare e orale e scritto; se infatti è vero che nella storia della
musica si può distinguere una musica colta scritta da una popolare
orale, i due mondi non sono mai stati nettamente separati, ma l’uno
si è sempre nutrito dell’altro. Per capire in che modo, è
utile prendere ad esempio alcune pratiche musicali diffuse tra il Cinquecento
e il Seicento, epoca in cui la commistione tra oralità e scrittura
era particolarmente marcata. Il genere popolare della canzone alla Villanesca,
in voga nei primi decenni del Cinquecento, essendo diffuso negli ambienti
urbani veniva a contatto con viaggiatori di ogni sorta, e conosceva grazie
a ciò una certa circolazione nello spazio e nei ceti sociali: i musicisti
dotti, così, se ne servivano frequentemente per la produzione di generi
musicali “colti”.
La figura del musicista professionista del Cinquecento e Seicento rappresentava
il tramite ideale fra la cultura bassa popolare, da cui proveniva, e i ceti
alti, in cui prevalentemente lavorava. L’educazione di base che questi
musicisti avevano ricevuto nei conservatori, comprendeva la conoscenza della
scrittura; non solo dunque erano in grado di leggere ed eseguire la musica
di tradizione scritta, ma erano anche in grado di fissare su carta le melodie
popolari che ancora facevano parte del loro patrimonio culturale. Inoltre
poteva loro capitare di suonare per il carnevale, le feste paesane e spettacoli
di strada, il cha naturalmente contribuiva ulteriormente a renderli tra i
principali artefici della commistione fra cultura alta e bassa, scritto e
orale. La musica scritta si arricchisce dunque di nuovi linguaggi grazie all’attività
(di trascrizione, tra l’altro) di questi musicisti di estrazione artigiana;
la grande diffusione dei repertori di danza, ordinati nella forma della suite,
ne sono un esempio. Allo stesso modo, i repertori popolari tradizionali recano
ancora oggi delle tracce dell’influenza dei modelli musicali seicenteschi.
A partire dalla seconda metà del XVII secolo si verifica un progressivo
allontanamento tra oralità e scrittura; il rapporto tra composizione
e scrittura si fa a sua volta più complesso. La commistione tra musica
scritta e tradizione orale avviene in maniera nettamente più consapevole;
il cambiamento principale riguarda la spontaneità con la quale tra
il Cinquecento e il Seicento ambienti musicali differenti entravano in contatto.
Lo studio dell’oralità tra folklore e etnomusicologia
Maggiormente caratterizzati de una prospettiva storicista, rispetto all’etnomusicologia,
gli studi folklorici si interessano alle fonti della tradizione, alla ricerca
delle origini e alla ricostruzione del percorso di trasformazioni subito nel
tempo dal fenomeno osservato. L’interesse per la poesia e la canzone
popolari, concepite come depositarie di una purezza e di una spontaneità
estranee alla musica dotta, è l’impulso principale che, in periodo
romantico, determina il progressivo sorgere di raccolte, e la loro diffusione
in tutta Europa. Caratterizzati da un’impronta di tipo romantico, gli
studi folklorici del XIX secolo esasperavano il contrasto tra l’autenticità
idealizzata della società arcaica tradizionale e l’alienazione
della società moderna, relegando l’oralità alla prima
e distinguendo la seconda per il suo utilizzo della scrittura. Un dualismo
per certi aspetti analogo caratterizzerà altresì la riflessione
sull’oralità nell’ambito delle discipline sociologiche
e antropologiche (Durkheim, Lévi-Strauss).
Tra gli studi più importanti sull’oralità, vi è
senza dubbio il lavoro sui poemi omerici di Milman Parry e Albert Lord, i
quali, tra il 1928 e il 1960, elaborano e sviluppano la teoria
formulare. Tale teoria, basandosi sull’idea che i poemi omerici
siano stati per molto tempo narrati e tramandati oralmente da molteplici poeti,
si basa sull’utilizzo di formule che permettono di esprimere in maniera
concisa e con una forma metrica costante i tratti distintivi dei personaggi
del componimento. In questo modo il processo di composizione avviene dunque
in maniera estemporanea sulla base di alcuni pattern di riferimento. La teoria
formulare pone in ogni caso le basi di un ragionamento sulla questione dell’oralità,
a partire dalle modalità di composizione (e dunque dalla distinzione
tra un singolo autore e un componimento collettivo) alle tecniche di trasmissione.
Vi si riscontra inoltre il problema dell’esatta circoscrizione e definizione
dell’opera stessa, o meglio dell’individuazione di una sua possibile
forma ‘originale’ in opposizione all’esecuzione estemporanea
del singolo.
Problemi simili sono naturalmente affrontati in ambito etnomusicologico nello
studio delle musiche delle società senza scrittura (o senza scrittura
musicale). L’etnomusicologia si interroga sui problemi della memorizzazione
e della trasmissione dell’opera nelle società in cui la musica
è tramandata oralmente; l’assenza del supporto di trasmissione
introduce inoltre la questione della composizione personale in relazione alla
tradizione, e delle variazioni dell’interprete su questa. Lo studio
dei meccanismi di produzione e di fruizione della musica diviene dunque, nell’osservazione
delle società senza scrittura, non meno importante dell’analisi
dell’opera stessa. Il meccanismo degli ‘aggregati prestabiliti’
che caratterizza il modello delle formule omeriche è dunque adattabile
in generale all’oralità (questo concetto è infatti ribadito
da Walter Ong nel 1962 a proposito di lingua e letteratura), e in particolare
alle musiche oralmente trasmesse; dei moduli fissi, delle combinazioni predisposte
delle unità elementari di base, e non le unità stesse, costituiscono
il punto di partenza per la composizione dell’opera. La musica delle
società senza scrittura è spesso caratterizzata da un tale procedimento
di composizione modulare, in cui la variazione
personale, ovvero i diversi modi di disporre i moduli all’interno dell’opera,
non influisce sull’identità dell’opera stessa; ciò
significa che le differenti versioni risultanti dalle molteplici variazioni
possibili nel processo di ripetizione e combinazione dei moduli, costituiscono
per gli esecutori e per i fruitori appartenenti alla medesima società,
un’unica opera. L’identità dell’opera sta dunque
nella stessa ripetizione variata della sequenza di moduli. Nelle società
occidentali, tornando alla contrapposizione tra musica colta scritta e musica
popolare orale, è interessante notare come nel passaggio dall’oralità
alla scrittura l’utilizzo di formule ripetitive abbia continuato a caratterizzare
una parte delle musiche dotte, in particolare quelle che maggiormente risentono
dell’influenza delle musiche da ballo popolari.
Simha Arom è uno degli etnomusicologi che maggiormente hanno indagato
il concetto di composizione modulare, sottolineando inoltre il fatto che il
modulo melodico-ritmico alla base dell’opera può rimanere implicito,
pur essendo ben presente nella mente dell’esecutore/compositore e del
pubblico. Il processo di apprendimento del musicista prevede comunque in ogni
caso come punto di partenza lo studio e l’interiorizzazione della forma
semplice del modulo, fino ad arrivare alla conoscenza di tutta la gamma di
variazioni ammessa dalla tradizione di appartenenza, compresa la possibilità
di lasciare il modulo implicito. In questo modo l’esecutore è
allo stesso tempo anche compositore e interprete, poiché la sua attività
è caratterizzata dall’equilibrio costante tra la proposizione
della tradizione, l’aggiunta del nuovo e l’interpretazione della
novità secondo i dettami dello stile tradizionale. In questo senso
l’opposizione tra composizione individuale e collettiva introdotta a
proposito della teoria formulare di Parry e Lord trova in realtà un
punto d’incontro. Ma la questione più importante a proposito
del rapporto tra l’interprete e l’opera non scritta, è
il principio dell’improvvisazione, che, pur non corrispondendo al modello
occidentale di composizione, lo è a tutti gli effetti nelle società
in cui è praticata. È il caso, tra gli altri, della musica dell’India
del Nord; si tratta di un caso di cultura alta priva di scrittura musicale,
dove la pratica musicale si svolge secondo un principio di composizione
in tempo reale, giacché la musica così prodotta è
riconosciuta nella società indiana come l’opera originale.
Cenni storici sulla scrittura musicale
Nell’Europa medievale i primi esempi di notazione musicale precisa si
situano verso la fine del primo millennio. La situazione di diglossia data
dalla coesistenza del latino e del volgare trova una certa corrispondenza
in musica nell’opposizione tra polifonia
e monodia, secondo un ennesimo dualismo tra musica dotta (polifonia) e
popolare (monodia). Non si tratta, d’altronde, dell’unica forma
di dualismo presente nell’ambito della musica medievale; non meno importante,
è la distinzione tra musica profana e religiosa, e non necessariamente
vi è una precisa simmetria con la distinzione dotto/scrittura e popolare/oralità.
La stessa concezione della polifonia in termini di progresso storico e di
superamento della cultura monodica non è del resto esaustiva, giacché
il musicista colto medievale è ben consapevole dell’importanza
della melodia di partenza nel componimento polifonico. Anche per questo motivo
probabilmente l’influenza della musica orale monodica sulla polifonia
dotta è costante nel medioevo, e tracce d’influenza della musica
popolare in generale sono riconoscibili in una parte della produzione polifonica
colta. Ugualmente, tra il XIII e XIV secolo molte canzoni, ballate e ritornelli
(tutte forme musicali orali) si sviluppano parallelamente in due versioni,
monodica e polifonica.
Nella storia della musica moderna occidentale i due opposti del rapporto tra
l’autore e la scrittura musicale sono rappresentati da Mozart, che secondo
le testimonianze dei contemporanei componeva molto rapidamente, stendendo
versioni praticamente già definitive delle sue opere, e Beethoven,
di cui ci resta un cospicuo corpus di schizzi. Con Beethoven la composizione
musicale è più che mai legata alla sua notazione, anche durante
il processo di creazione; eppure una tale conquista del suono da parte del
segno è frutto di un lunghissimo percorso, che comincia probabilmente
con l’introduzione della polifonia e la necessità di scrivere
delle forme musicali più complesse.
Delle forme ibride di scrittura erano rappresentate dai segni notazionali
della monodia liturgica cristiana - il cosiddetto “canto gregoriano”
- i quali, costituendo in realtà dei meri aiuti mnemonici, presupponevano
la conoscenza orale delle melodie. Le più importanti innovazioni tecniche
della scrittura musicale si situano tra il IX e il XII secolo; in particolare,
per quanto riguarda l’altezza
delle note e l’invenzione, attorno al 1025, del rigo musicale ad opera
di Guido d’Arezzo. I primi importanti sistemi di misurazione del ritmo
furono elaborati in seno alla Scuola di Notre-Dame di Parigi a partire dal
1160 circa; un lungo processo di perfezionamento della definizione delle categorie
di durata sfocia nel 1327 nella pubblicazione del trattato Ars
nova di Philippe de Vitry, in cui si trova codificato il sistema dal
quale discende la notazione moderna.
Forme di notazione parziale hanno comunque lungamente prevalso, come la tecnica
del basso continuo o del basso numerato, e la maggior parte delle fioriture
e degli abbellimenti, non scritti, sono stati per molto tempo affidati alle
competenze dell’esecutore (in particolare in età barocca). In
un certo senso, anche in questo caso all’esecutore viene lasciato il
compito di applicare determinate formule precedentemente assimilate durante
il suo percorso di formazione, ma non scritte sulla partitura. Tali pratiche
traggono origine dal fatto che spesso compositore e interprete coincidono,
come nel caso delle musiche oralmente trasmesse. L’introduzione della
scrittura musicale nella musica occidentale non ha determinato immediatamente
la separazione tra le due figure; si tratta piuttosto di una concezione sviluppatasi
in età contemporanea, mentre, così come altre caratteristiche
originarie dell’oralità, la coincidenza fra autore e esecutore
ha resistito per diversi secoli. In un certe senso, l’evoluzione tecnica
della scrittura musicale va di pari passo con la specializzazione dei ruoli
tra interprete e compositore, e con un margine di libertà sull’opera
sempre minore per il primo, a favore dell’autorità del secondo.
(TM)
Bibliografia di riferimento
Jean Molino, Che cos’è l’oralità
musicale, in Enciclopedia della musica Einaudi, a cura di Jean-Jacques Nattiez,
vol. 5, Einaudi, Torino, 2005.
Etienne Darbellay, Libertà nella musica occidentale scritta, in Enciclopedia
della musica Einaudi, a cura di Jean-Jacques Nattiez, vol. 5, Einaudi, Torino,
2005.