Musica e linguaggio
Interrogarsi sulla somiglianza e sulle divergenze tra musica e linguaggio
è sempre stata una necessità più o meno consapevole del
pensiero musicale occidentale. L’antico e sempre rinnovato incontro
tra parola e intonazione nella voce
che canta, ha fatto del linguaggio un compagno privilegiato della musica.
La dimensione temporale e gestuale di entrambi i fenomeni, l’aspetto
performativo di alcune forme di esperienza verbale (la recitazione teatrale,
ad esempio) e il margine di ambiguità di senso
che esiste in altre (la poesia) sono tra i fattori che contribuiscono all’ampiezza
del terreno di scambio tra linguaggio e musica. Il fatto che in determinati
momenti storici le due esperienze sembrino combaciare non significa tuttavia
che la corrispondenza sia permanente e connaturata.
La riflessione sul rapporto linguaggio-musica dipende innanzitutto dalla definizione
che si dà del termine “linguaggio”: se lo si circoscrive
alla sfera della comunicazione verbale, la questione si pone in termini di
paragone e analogia (la musica è come il linguaggio? Quali sono le
somiglianze tra musica e linguaggio?); se l’accezione è quella
più estesa (un insieme di codici che trasmettono informazione, un sistema
simbolico dotato di capacità espressiva e comunicativa), la questione
è più sostanziale e complessa: la musica è un linguaggio?
Semplificando molto si potrebbe dire che, come nei linguaggi naturali, alla
base della musica stanno due fattori: “il materiale acustico da un lato,
e l’apporto umano e culturale dall’altro.” (Ulrich Michels).
Ma, come ha osservato il grande linguista Roman Jakobson: “la particolarità
della musica in rapporto alla poesia risiede nel fatto che l’insieme
delle sue convenzioni […] si limita al sistema fonologico e non comprende
ripartizioni etimologiche dei fonemi, dunque niente vocabolario”. La
musica è un sistema simbolico che non
rimanda direttamente a oggetti, esperienze e concetti specifici. Ma è
comunque un insieme di codici dotato di regole, convenzioni, facoltà
espressive (v. espressione), funzioni sociali
(v. Le funzioni della musica) e libertà
creativa che variano ed evolvono secondo l’epoca e il luogo.
In questa sezione cercheremo di rendere più consapevole e specifico
l’impiego di locuzioni quali “linguaggio musicale” o “linguaggio
della musica” attraverso un breve panorama storico delle principali
declinazioni che l’analogia con il linguaggio ha avuto nella riflessione
estetica sulla musica, sulla sua capacità di trasmettere significati,
di essere portatrice di senso, e sulle modalità in cui tali capacità
si realizzano.
Dall’antichità al Rinascimento
Una riflessione sistematica sul fenomeno musicale come linguaggio è
assente, di per sé, fino all’età moderna, prima della
quale il concetto di mimesi o "qualità
rappresentative" della musica costituisce l’orizzonte condiviso
della significazione musicale. I filosofi-scienziati dell’antichità
e del Medioevo ponevano le basi sia ad una teoria del suono in quanto elemento
fondante di un sistema razionale dotato di regole "sintattiche"
sia ad un’indagine sulla percezione, sugli effetti e quindi sul valore
"semantico" delle creazioni generate
da quel sistema. Questa duplice prospettiva rimane una caratteristica fondamentale
del dibattito estetico sulla musica a prescindere dall’esistenza di
un riferimento diretto al rapporto musica-linguaggio. La concezione qualitativa
del suono elaborata da Aristosseno di Taranto, discepolo di Aristotele, si
fonda sull’idea che il fenomeno acustico consista in un movimento topico
continuo (cioè in un flusso ininterrotto che si propaga nello spazio).
Sulla base di questa concezione, che riduce il suono a immediato dato empirico,
Aristosseno delinea una dinamica soggettiva della produzione e ricezione di
senso musicale. La consonanza e la dissonanza sono dati percettivi immediati;
e su di essi egli basa la costruzione di un sistema di regole compositive,
fondate sull’orecchio, la memoria e l’intelletto (inteso come
capacità di mettere in relazione funzionale gli intervalli musicali
percepiti e poi memorizzati). La tradizione pitagorica, che elaborò
gli insegnamenti del maestro Pitagora di Samo (circa 560-480 a.C.), con la
sua teoria quantitativa del suono (v. scala)
propone, invece, una teoria percettiva di tipo oggettivo, inscrivendo il flusso
melodico nella struttura teorica dei sistemi modali e della loro preordinata
significazione. L’aritmetica pitagorica, infatti, riduce i fenomeni
naturali ad espressioni della struttura numerico quantitativa che è
fondamento archetipico di tutta la realtà fisica. Così, la riflessione
sulla musica si configura quale indagine sulla natura matematica dei rapporti
consonanti, a loro volta “linguaggio” (cioè espressione
tangibile, evidente e manifesta) dell’armonia che regola l’universo.
Quest’ultima concezione, consolidata, attraverso Boezio, fu determinante
per la trasmissione in occidente di una modalità aprioristica della
valutazione estetica, delineata cioè sulle stesse regole della composizione,
a loro volta giustificate sulla base della costruzione scientifica del discorso
sonoro, fondato sui rapporti matematici di consonanza. Nel lungo corso del
medioevo occidentale, con contributi via via nuovi e sensibilità anche
molto divergenti, tale prospettiva speculativa si arricchisce dell’apporto
della teologia cristiana. L’età rinascimentale ripropose l’interpretazione
aristossenica "qualitativa" della musica, sviluppando l’idea
di naturalità del suono, con la sua enorme ricaduta, da un lato, sul
piano delle capacità espressive della musica vocale e, dall’altro,
sul processo di acquisizione di un autonomo significato dell’universo
musicale, desunto dall’affermarsi della tonalità
quale, appunto, sistema naturale dell’organizzazione dei suoni.
Il tardo Rinascimento e il Seicento: la retorica
L’analogia tra musica e retorica si evolve nel Seicento a partire dalla
speculazione tardo-rinascimentale sulla capacità della musica di “muovere
gli affetti”, come ad esempio troviamo
formulata negli scritti del teorico Gioseffo Zarlino (1517-1590). E’
però nel concetto di musaica poetica,
ove poiesis è intesa, aristotelicamente,
come capacità e attività creativa, che la musica acquisisce
lo status di arte d’espressione poetica, cioè creazione basata
su principi retorici. L’idea di musica poetica (creazione musicale)
affianca dunque e trasforma il contesto dell’antica musica
teoretica (la speculazione matematico musicale) e di musica
pratica (la tecnica esecutiva) grazie soprattutto alla riflessione
di teorici e musicisti tedeschi quali Nicolaus Listenius nei suoi Rudimenta
musicae (1533) e Gallus Dressler (1533-1585 circa). Da questo nuovo modo di
concepire la natura dell’arte musicale si giunge infine, nel ‘600,
alla formulazione di vere e proprie teorie di rispondenza tra specifici moti
dell’animo esprimibili verbalmente e gesti musicali (note, intervalli,
figure motiviche, modi e tonalità) che ne esaltano il senso al punto
di poter sostituire la parola. Questi artifici retorici (Affektenlehre, Figurenlehre)
sono teorizzati ad esempio nella Musica poetica di Joachim Burmeister (1606)
e nel settimo libro della Musurgia Universalis di Athanasius Kircher (1602-1680).
E’ quindi nel corso del ‘600 che avviene il graduale affrancamento
della musica dal linguaggio verbale, cioè dal ruolo fino ad allora
riconosciutole naturale di “ancella”, o “sorella”,
della parola, per diventare linguaggio essa stessa.
Settecento: Musica e linguaggio
Il termine “linguaggio musicale” sorge nel Settecento, in coincidenza
da un lato con l’emergere dell’estetica
come campo distinto della filosofia (formalizzato con l’apparizione
tra 1750 e 1758 dell’ “Aesthetica” di Alexander Gottlieb
Baumgarten), e dall’altro con la massima cristallizzazione del linguaggio
tonale che, forte di un fondamento armonico “naturale” ma altamente
codificato, riscopre la melodia come veicolo
di infinite potenzialità espressive (v. espressione).
L’interesse (teorico e pratico) si sposta gradualmente dalla dimensione
“architettonica”, identificata finora con la polifonia e con le
regole dell’arte contrappuntistica tardo-rinascimentali, alla funzione
strutturale dell’armonia e alla sua rilevanza per la dimensione temporale
e “orizzontale” della composizione. La teoria della “generazione
armonica” articolata dal compositore e teorico francese Jean-Philippe
Rameau (1683-1764) individuava nel suono fondamentale dell’accordo (v.
armonia) il fattore centrale in rapporto
al quale andava definita la posizione dei singoli accordi, la logica della
loro successione e l’invenzione melodica che, secondo Rameau, doveva
scaturire da un solido impianto armonico (“Trovare la base fondamentale
di un dato canto vuol dire non solo trovare tutta l’armonia di cui questo
canto è suscettibile, ma anche il principio che lo ha suggerito”).
Contemporaneamente venivano elaborate nuove idee sulla natura e sul ruolo
della melodia nella costruzione di un discorso sonoro
dotato di autonomia logica e grammaticale. Mentre i trattati di composizione
del primo Settecento (tra cui spicca quello di Johann Mattheson, “Il
perfetto maestro di cappella”, 1739) ragionano ancora in termini derivati
dall’arte oratoria (Inventio, Dispositio, Elaboratio, Decoratio), la
teoria sull’origine comune della musica e del linguaggio umano di Jean-Jacques
Rousseau, in pubblica polemica con quella di Rameau, sostiene che la melodia,
“semplice, naturale e appassionata […] non trae la sua espressione
dalle progressioni del basso, ma dalle inflessioni che il sentimento dà
alla voce” (1755). Questa espressione (o rappresentazione) del sentimento
tramite il canto rinforza e supera il valore comunicativo della parola: “La
melodia non imita solamente, essa parla; e il suo linguaggio inarticolato
ma vivo, ardente, appassionato, possiede cento volte più energia della
stessa parola” (1760). La musica vocale è ancora al centro del
dibattito estetico, ma il ruolo della musica strumentale come emblema dell’autonomia
espressiva della musica diventa sempre più centrale sia nei trattati
di composizione in lingua tedesca (di Joseph Riepel tra 1752 e 1768, poi Heinrich
Christoph Koch tra 1782 e 1793, che dedicano notevoli spazi a questioni di
struttura e di fraseggio melodico con esempi prevalentemente strumentali)
sia nella riflessione filosofica degli enciclopedisti francesi sulla percezione
sensibile in generale, sia nel nascente pensiero romantico che vede “una
certa tendenza alla filosofia di tutta la musica strumentale pura” (Friedrich
Schlegel, 1797).
Ottocento: La musica nel pensiero filosofico e le basi
del formalismo
Nel Romanticismo la musica è esaltata in quanto linguaggio aconcettuale
capace di esprimere tutto ciò che non può essere espresso nel
linguaggio verbale; essa è “misterioso linguaggio di Dio”
(Wackenroder), essenza della poesia, lingua segreta alla quale tutte le arti
dovrebbero guardare, e lo stesso linguaggio verbale è “uno strumento
musicale di idee” (Novalis). Si fa strada l’idea di musica
assoluta (formulata da filosofi e scrittori romantici quali Herder,
Tieck e E.T.A Hoffmann che la identifica con la musica sinfonica di Beethoven)
– capace di affrancarsi da qualsiasi altra modalità espressiva
(parola, gesto, azione scenica) – come ideale di purezza ed essenzialità
dell’espressione umana e quindi come oggetto e mezzo di riflessione
filosofica sulla “quinessenza della vita” (Schopenhauer). Per
Kierkergaard la prevalenza dell’elemento “lirico” della
lingua farà cessare il linguaggio “e tutto diventerà musica”.
Per Schopenhauer la musica è capace di rappresentare la natura in quanto
copia del mondo delle idee, e quindi di narrare la volontà. La riflessione
sul senso profondo della musica, che trova nelle opere e negli scritti di
Wagner il suo epicentro, soppianta del tutto la speculazione sul valore semantico
di singoli eventi e gesti musicali. L’indagine sulle modalità
di significazione diventa compito della critica (v. La
critica musicale) e della teoria musicale (v. Teoria
e analisi): entrambe focalizzate sul testo musicale e la sua realizzazione
sonora come l’unico terreno valido per la comprensione e la valutazione
dell’opera. Le basi del formalismo estetico della seconda metà
dell’Ottocento sono poste dal critico e storico della musica Eduard
Hanslick nel suo saggio “Il bello musicale” (1854), dove egli
sostiene che “le leggi del bello in ogni arte sono inseparabili dalle
caratteristiche particolari del suo materiale, della sua tecnica”. Il
repertorio del passato diventa oggetto di osservazione e analisi formale,
tematica, e “grammaticale” dove abbondano concetti linguistici
come frase, periodo, accento, elisione e segmentazione. L’analogia tra
musica e linguaggio sembra ormai un’acquisizione consolidata sia sul
piano semantico sia su quello sintattico, ma non scompaiono i quesiti e le
aporie che la sottendono.
Novecento I: Strutturalsimo; linguistica; la musica
e le nuove discipline
Il graduale venir meno, a partire dai primi anni del XX secolo, delle norme
e dei codici grammaticali legati alla tonalità, ha modificato i termini
del dibattito riportandolo alle sue origini: la naturalità del suono
e il sistema tonale che ne consegue sono l’unica base per la formulazione
di enunciati musicali che giustifichino la qualifica di “linguaggio”?
La spinta “quantitativa” dell’arte dei suoni riemerge con
la ricerca di nuovi criteri di organizzazione di quello che per assimilazione
è ormai riconosciuto universalmente come il “discorso musicale”.
Il dibattito sulle valenze strutturali e linguistiche della musica seriale
e post-seriale stimola nuove riflessioni sull’analogia tra linguaggio
e musica tout court, coinvolgendo in maniera decisiva esponenti di diverse
discipline sullo sfondo delle emergenti teorie linguistiche. La musica come
“sistema”, “struttura” e “linguaggio”
ha un ruolo centrale nell’intero opus filosofico di Theodor Adorno,
nell’antropologia strutturalista di Claude Lévi-Strauss, nella
nascente semiotica di Umberto Eco, nella linguistica paradigmatica di Nicolas
Ruwet, nel pensiero di Gilles Deleuze e di Roland Barthes, nell’estetica
analitica di Nelson Goodman. La linguistica generativa, la fonologia, la psicologia
e le scienze cognitive nutrono la ricerca creativa delle avanguardie musicali
del secondo dopoguerra, nel seno della quale prassi e teoria spesso coincidono
dando luogo a una vera e propria trattatistica sui nuovi linguaggi musicali.
Novecento II: Linguaggio come materia sonora
Il ricorso al plurale diventa sempre più frequente nel riferimento
alla dimensione linguistica della musica, mentre la materia prima –
il singolo suono – da un “vocabolo” naturale da combinare
e porre in relazione con altri suoni, diventa oggetto autonomo d’indagine
analitica per mezzo delle nuove tecnologie prima
elettroniche poi digitali. La composizione del suono
entra a far parte del processo creativo. La parola, i testi poetici, l’intero
apparato dell’espressione verbale e dei codici linguistici, vengono
sottoposti a un’analisi sonora intesa come estensione delle potenzialità
timbriche ed espressive dei fonemi (Stockhausen, Berio), come esplorazione
dei misteri dell’ascolto (Nono), come manipolazione parodistica (Kagel),
come gestualità drammatica e teatrale (Berio, Ligeti), come specchio
e commento della realtà contemporanea. Si potrebbe dire che la prassi
si è impadronita delle teorie e ha messo in crisi il concetto stesso
di linguaggio musicale sia dal punto di vista delle norme e dei codici sia
e soprattutto da quello della comunicazione. (TPB
e CP)
Riferimenti bibliografici
Gianmario Borio, a cura di, L’orizzonte filosofico del comporre nel
ventesimo secolo, Bologna, Il Mulino, 2003, pp. 3-47, 241-322.
Hans Heinrich Eggebrecht, Musica come linguaggio (1961), in Il senso della
musica: Saggi di estetica e analisi musicali, Bologna, Il Mulino, 1987: 27-67.
Trasybulos G. Georgiades, Musica e linguaggio: Il divenire della musica occidentale
nella prospettiva della composizione della Messa, trad. di O. P. Bestini,
Napoli 1989.