Tecniche compositive

 

Per quanto si siano sviluppate in stretta connessione con l’evoluzione delle forme e dei generi musicali (v. forme e generi) e con le risorse della creatività individuale, le tecniche della composizione vanno distinte concettualmente tanto dal momento formale (v. tipologie formali) quanto dal momento inventivo (v. invenzione e scrittura). Per tecniche compositive si intendono dunque le procedure utilizzate nella composizione per supportare l’invenzione in modo da soddisfare esigenze formali ed espressive. Per queste ragioni alcune tecniche sono più vicine al momento inventivo, mirando a ottenere e far proliferare il materiale musicale, mentre altre hanno un carattere più meccanico o procedurale, e vengono incontro alla necessità di forgiare il materiale nel dettaglio. Le tecniche compositive sono a loro volta frutto di invenzione individuale, dunque passibili di evoluzione storica; si tratta tuttavia di mezzi, di strumenti che il compositore utilizza e applica in funzione dell’ideazione e della produzione musicale, che resta il fine, lo scopo ultimo della composizione. Per esigenze di esposizione, introduciamo qui la distinzione tra le tecniche pratiche; – che comprendono le procedure più ‘artigianali’, poiché connesse all’atto concreto della scrittura musicale e da essa documentate – e le tecniche creative, che appartengono alla sfera più concettuale della composizione, supportandone la fase inventiva.

Tecniche pratiche della composizione

1. Il processo compositivo

Lo stretto legame tra composizione e scrittura (v. invenzione e scrittura), caratteristico della tradizione occidentale, ha portato all’instaurarsi di una prassi compositiva articolata in fasi ben definite, che nel loro insieme, in senso tecnico, vanno sotto il nome di processo compositivo;. È importante tuttavia notare che nessuna delle fasi intermedie elencate di seguito è da considerarsi normativa o quanto meno obbligata. Il compositore può fare a meno di una o più di esse, e in molti casi non resta altra traccia che la stesura definitiva. Già durante la fase inventiva il ricorso alla scrittura può rivelarsi essenziale. Le prime prove in forma di appunti, denominati schizzi, possono prevedere l’allestimento di schemi formali, piani armonici, indicazioni relativi agli strumenti, l’annotazione di temi, motivi, cellule ritmiche. Questa fase può essere molto lunga e travagliata, e non necessariamente approda alla composizione compiuta (e a volte neanche alla piena definizione di una sua parte). Di abbozzi si parla per le fasi in cui i tratti fondamentali di sezioni più o meno brevi cominciano a prendere forma; quando si riconosce la stesura continua, anche se non dettagliatissima, di intere sezioni o di interi brani si parla di abbozzi “continuativi”. Il lavoro di stesura si può avvalere, per lavori orchestrali o teatrali che richiedono molti strumenti e voci, della particella, un termine che indica una stesura tendenzialmente completa della composizione su un numero limitato di sistemi (generalmente tre). In presenza di scrittura vocale, con l’intonazione di un testo, il processo compositivo prevede naturalmente una specifica lavorazione del rapporto tra testo e musica. Per quanto riguarda le abitudini soggettive, in generale si può distinguere tra coloro che compongono al pianoforte, perché sentono la necessità di avvalersi di una rappresentazione acustica dell’idea musicale già in fase inventiva, e coloro che preferiscono affidarsi alla propria immaginazione sonora e comporre senza l’ausilio di un particolare strumento.

Con la stesura della partitura completa fin nei minimi dettagli si conclude la parte generalmente più impegnativa della composizione; tuttavia questa conclusione è spesso solo l’inizio di una lunga fase di revisione, o da molteplici revisioni del testo. Sono possibili correzioni di ogni tipo ed estensione: aggiunte, tagli, la riscrittura di intere sezioni, l’eliminazione o l’aggiunta di strumenti, voci, spostamenti di registro; modifiche nella dinamica ecc. Quando un brano assume fisionomie nettamente distinguibili sul piano cronologico e compositivo si parla più propriamente di versioni o stesure diverse di una stessa opera. Per opere corali, d’ensemble o orchestrali, si rende poi necessaria la scrittura separata delle singole parti, che serviranno per l’esecuzione. Soprattutto in questa fase (ma anche in quelle immediatamente precedenti) il compositore può avvalersi di un copista, che gli può facilitare il lavoro da molti punti di vista: a questa figura l’autore può delegare la parte più meccanica del lavoro, e in cambio ottenere una scrittura più chiara e oggettiva, poiché il copista non è direttamente coinvolto nella composizione e non ha la responsabilità autoriale del compositore. Con il processo di stampa la composizione entra in una ulteriore fase: la produzione delle bozze prevede la partecipazione del compositore, che a più riprese interviene correggendo, fino all’approvazione definitiva della versione destinata alla pubblicazione: ovvero la stampa di molteplici copie e la loro distribuzione e vendita attraverso i canali consueti. Con le tecnologie digitali tutto questo processo è diventato assai più rapido ed efficace, e ciò anche per i compositori che continuano tutt’oggi ad usare carta (pentagrammata) e penna (o lapis) per la stesura delle proprie opere. La natura della scrittura musicale rende molto più complessa l’intera catena di produzione rispetto alle opere letterarie. Nel caso della musica teatrale la presenza del libretto implica un’impresa redazionale a parte. Per una lunghissima fase della storia dell’opera, il libretto è stato concepito come una versificazione e resa drammatica di situazioni o storie tratte da romanzi, dalla cronaca o dalla vita quotidiana (la pratica della versificazione è divenuta obsoleta soltanto nel XX secolo, ma non ha vanificato le altre funzioni svolte dal libretto). L’edizione separata del libretto – una prassi estremamente diffusa nella storia del teatro musicale – presenta quasi sempre varianti significative rispetto al testo effettivamente musicato dal compositore: per questo il confronto tra le diverse edizioni del libretto e le diverse edizioni o copie d’uso della partitura rappresenta un passaggio importante per l’allestimento di un’edizione critica.

Con l’avvento della musica elettronica, intorno alla metà degli anni cinquanta del secolo scorso, l’approccio del compositore subisce una trasformazione profonda. Il lavoro in studio lo pone davanti a strumentazioni elettroniche la cui caratteristica principale è la produzione diretta del suono, cioè non mediata da strumentisti, cantanti, orchestra ecc. La composizione in questo ambiente prevede fasi più pratiche, quali l’acquisizione di suoni (concreti o sintetici), la loro registrazione, il lavoro di taglio e montaggio sui nastri (prima dell’avvento del digitale). Con la musica elettronica la partitura può non esistere del tutto ed essere sostituita direttamente dal nastro magnetico, la cui riproduzione meccanica viene a coincidere a tutti gli effetti con l’esecuzione. In certi casi è il compositore stesso a ingegnarsi per la creazione di “partiture elettroniche”, che dal punto di vista simbolico non hanno alcun nesso formale con le partiture tradizionali. Si tratta spesso di schemi ragionati, in cui si chiariscono le operazioni da compiere sulle strumentazioni effettivamente utilizzate per quella particolare composizione. Le tecnologie di registrazione, produzione e riproduzione del suono hanno aperto la strada all’inserimento di suoni elettronici – sia sintetici, cioè prodotti artificialmente dalle strumentazioni elettroniche, sia concreti, cioè registrati dal vivo (rumori e suoni della natura, della città, della fabbrica, ecc.) – in composizioni vocali e/o strumentali. In questi casi le modalità di esecuzione tradizionale si integrano con la riproduzione meccanica del nastro magnetico (recentemente sostituito da tecnologie digitali), che può intervenire episodicamente o divenire parte integrante dell’intera composizione.


2. Tecniche di strumentazione

Con strumentazione si intende, in senso lato, l’affidamento dell’idea musicale a un determinato organico strumentale e/o vocale e, in senso stretto, la tecnica specifica preposta alla realizzazione di tale aspetto della composizione. La strumentazione riguarda pertanto la scelta dei timbri (v. timbro), soprattutto nei casi in cui la presenza di un’orchestra mette a disposizione un numero consistente di possibili combinazioni (in questo caso si parla di orchestrazione). La composizione corale risponde a criteri analoghi, naturalmente applicati a insiemi vocali, che nel loro complesso risultano timbricamente più uniformi rispetto agli insiemi strumentali di una grande orchestra.

La concezione secondo cui la strumentazione rappresenta il rivestimento “esteriore” di un’idea musicale considerata nella sua essenza melodica, intervallare e ritmica – dunque separata dal timbro particolare che assumerà con la sua effettiva realizzazione musicale – è un luogo comune che non sempre corrisponde alla realtà, e pertanto non può essere considerato un principio universale del processo compositivo. Esiste, è vero, una prassi diffusa che prevede la definizione dell’assetto strumentale come fase finale del processo (ed è questa la ragione per cui in sede didattica lo studio delle tecniche di orchestrazione generalmente concludeva, anche in tempi molto recenti, il periodo di apprendistato); tuttavia l’articolazione delle voci e degli strumenti e dell’assetto timbrico dell’opera sono essenziali e del tutto inerenti all’idea musicale stessa. Se si compone per un organico prestabilito, ci si affida a convenzioni specifiche che tengono conto delle peculiarità tecniche degli strumenti o delle voci utilizzate, nonché della tradizione storica di un determinato genere; molto spesso però anche la scelta dell’organico strumentale e/o vocale dipende da esigenze strettamente compositive, dato che esso determina il campo di possibilità delle combinazioni timbriche.

La strumentazione ha acquisito una posizione sempre più rilevata con l’avanzare di un tipo di composizione liberato da generi, stili e convenzioni che, fino a ben oltre la metà del XIX secolo, sopperivano all’adempimento di un compito che appariva meno legato alla creatività individuale e più all’applicazione rigorosa di una tecnica che era parte della formazione del compositore. Nel corso del XIX secolo gli organici orchestrali hanno subito un progressivo ampliamento, determinando il conseguente mutamento delle tecniche nonché delle scelte timbriche, che diventavano via via più originali e fantasiose (si pensi a Mahler e a Debussy che negli stessi anni creano mondi sonori radicalmente distinti). A partire dai primi decenni del XX secolo la composizione ha iniziato a presupporre una scelta creativa ed estremamente libera, non soltanto delle sfumature timbriche e delle tecniche di orchestrazione ma anche della definizione stessa dell’organico vocale e/o strumentale, la cui pianificazione è divenuta un fattore essenziale della composizione. Dalla seconda metà del secolo le tecniche si sono evolute anche in relazione alle nuove fonti di produzione sonora: la musica elettronica richiede un approccio compositivo totalmente diverso, dal momento che il suono viene creato attraverso una manipolazione diretta, che non permette di parlare di una fase di strumentazione; recentemente sono tuttavia entrate a far parte della orchestrazione vera e propria anche alcune tecniche di registrazione, riproduzione e manipolazione del suono, soprattutto dopo l’avvento del live electronics, che offre la possibilità di registrare e restituire in tempo reale i suoni modificandoli mediante amplificazione, ritardi di fase, distorsione sonora, o con l’aggiunta di riverbero. Si tratta a tutti gli effetti di un nuovo “strumento” a disposizione del compositore.


3. Le varie forme della trascrizione

La trascrizione è una procedura caratterizzata dalla presenza di un vincolo nei confronti di un testo musicale preesistente. Essa può essere semplicemente funzionale oppure avere finalità artistiche e creative. Le trascrizioni “d’uso” possono essere ricondotte a due tipologie: l’adattamento, che consiste nel riscrivere un brano adeguandolo a un organico strumentale diverso (al solito ridotto), dunque intervenendo sull’orchestrazione; la riduzione, che consiste nel trascrivere un brano musicale per uno strumento che, pur conservando i principali contenuti melodici e armonici della composizione originale, offre una gamma ristretta di possibilità timbriche e dinamiche. Tra le varie tipologie di riduzione, quella pianistica (spesso effettuata da un apprendista e non dall’autore stesso) è la più diffusa, poiché la scrittura per pianoforte consente di condensare un buon numero di parti orchestrali; le riduzioni pianistiche della parte orchestrale sono utilizzate in ambito operistico per la preparazione dei cantanti. Meno diffuse ma meritevoli di attenzione sono le riduzioni d’autore, quale la versione per due pianoforti della Sagra della primavera di Stravinsky.

Tra le tipologie di trascrizione “artistica” si contano innanzitutto le diverse forme d’intervento creativo che solitamente vengono raggruppate sotto l’etichetta arrangiamento, oppure (per evitare le connotazioni della popular music che l’inglese “arrangement” non evoca) semplicemente trascrizione. I casi più noti in questo ambito riguardano la musica di J. S. Bach, egli stesso geniale trascrittore delle opere proprie e altrui (i concerti per due e più violini di Vivaldi trascritti per clavicembalo e lo Stabat Mater di Pergolesi trasformato in una cantata per la liturgia protestante sono due esempi fra i tanti). Essa è stata oggetto di un’infinità di elaborazioni da parte dei compositori, da Mozart a Brahms a Busoni (le cui trascrizioni pianistiche delle opere per organo e della Chaconne per violino solo di Bach sono dei veri capolavori) ai grandi del jazz del Novecento.

L’orchestrazione di un brano solistico (spesso pianistico, più raramente cameristico) è una procedura che richiede notevoli doti compositive; il repertorio sinfonico del tardo XIX secolo e dei primi decenni del XX secolo comprende alcuni capolavori di trascrizione orchestrale, che hanno per oggetto composizioni originali dello stesso autore oppure di opere altrui (esemplari sono le orchestrazioni di Ravel della propria La valse e dei Quadri di un’esposizione di Mussorgsky). Più vicino ai nostri giorni si danno dei casi di trascrizione analitica tesa a sprigionare dalla lettura dell’originale e nello stesso tempo a commentarne aspetti latenti (la serie dei Chemins di Luciano Berio basati sulle proprie Sequenze per strumento solo, o il suo Rendering – un “restauro” degli schizzi di Schubert per la sua ultima incompiuta sinfonia D936A). Il completamento di una composizione incompiuta del passato rientra tra le possibili estensioni del processo della trascrizione; in questo caso ci si muove sempre al confine tra la continuazione di un lavoro di composizione impostato e iniziato da altri (come accade particolarmente per i completamenti finalizzati all’esecuzione) e la vera e propria riscrittura o ricomposizione di un brano (è quanto avviene in Monumentum pro Gesualdo di Venosa di Stravinsky). Tra le intenzioni di un progetto di riscrittura vi può essere quella di ricontestualizzare un testo in un’epoca estranea a quella che aveva dato vita alla composizione originale.

Tecniche creative della composizione

Non è naturalmente possibile dare conto di tutte le procedure tecniche della composizione musicale. Per quanto riguarda le tecniche tradizionali della storia musica occidentale si rimanda alle altri voci del portale: sono infatti tecniche a tutti gli effetti il contrappunto, l’armonia, le procedure di armonizzazione di una linea melodica, i mezzi di elaborazione di un tema e in generale di sviluppo e derivazione melodica (v. processi compositivi) fondata sulle strutture individuate dalla sintassi musicale. Prenderemo qui in esame alcune tecniche non tradizionali che hanno assunto particolare rilevanza storico-compositiva nel corso del XX secolo.


1. Tecnica dodecafonica e pensiero seriale

La tecnica dodecafonica ha guidato per molti decenni la composizione innovativa. Introdotta da Arnold Schoenberg a partire dagli anni venti del XX secolo e definita propriamente come “metodo per comporre con dodici suoni che stanno in relazione soltanto l’uno con l’altro”, essa muove da una tecnica di organizzazione del materiale che talora viene definito pre-compositivo. Schoenberg parte dalla constatazione che da Wagner in poi il sistema tonale si è saturato, nel senso che la gerarchia tra le altezze della scala ha gradualmente lasciato il posto al totale cromatico; in altre parole attraverso il ricorso massiccio alla modulazione e allo sfruttamento dell’ambiguità modale maggiore/minore, le note effettivamente utilizzabili all’interno di un brano tonale si sono progressivamente ampliate, fino a comprendere, nelle composizioni del tardo romanticismo, i dodici semitoni della scala cromatica. Spazzando via qualsiasi residuo di gerarchia tonale tra di essi, Schoenberg inventa un metodo fondato su una serie fondamentale (una successione di base di dodici altezze) e sulle sue derivazioni contrappuntistiche (v. contrappunto), per cui la serie (come anticamente il soggetto di una fuga) può presentarsi in forma diretta, inversa, retrograda o inversa-retrograda. Nello stesso tempo la serie può essere trasposta, nelle sue quattro forme, su ognuna delle dodici altezze della scala cromatica. In ogni caso il compositore dovrà ogni volta esaurire la serie impiegando tutte le note a disposizione prima di utilizzare nuovamente una determinata altezza. Per questa via si giunge all’annullamento di qualsiasi gerarchia tra le note, o se vogliamo a una completa “democratizzazione” e parificazione della rilevanza delle singole altezze. Attingendo a questo materiale preparatorio – fatto sostanzialmente di altezze organizzate in una successione di intervalli – e operando in completa indipendenza dal sistema tonale, il compositore si garantiva la capacità di creare opere inedite, non riducibili alle vecchie categorie del linguaggio tonale.

Con Schoenberg non si raggiunge ancora una emancipazione dai retaggi della sintassi musicale tradizionale, dall’idea di melodia, di polifonia e dalla gerarchia tra linee e temi principali e secondari. Webern si porterà oltre queste convenzioni, sviluppando il pensiero seriale in direzioni che più tardi faranno scuola. Negli anni cinquanta del XX secolo diventa predominante l’idea della serializzazione integrale, dove il principio seriale operante nell’ambito delle altezze e degli intervalli si estende gradualmente alle durate, all’intensità (o dinamica) e alla scelta dei timbri (dunque alla strumentazione), in modo che il materiale precompositivo risulti preordinato in relazione a un numero sempre più ampio di parametri musicali. A questo punto la composizione può prodursi in gran parte secondo modelli matematici (come avviene in alcune composizioni di Stockhausen, Boulez). In seguito, a partire dagli anni sessanta, si assiste a una “liberalizzazione” del serialismo, per cui pur partendo da materiali preparatori preordinati, è il compositore a decidere soggettivamente se e in quale misura utilizzarli, anche cambiando radicalmente atteggiamento nel corso della composizione. Al pensiero seriale vanno riportate in gran parte anche le composizioni fondate su aggregati di suoni, non necessariamente in numero di dodici e non necessariamente senza ripetizioni di una o più note; si può anche trattare di serie molto ampie, pensate come aggregati di altezze assolute.


2. Alea e casualità

Sezioni compositive più o meno ampie possono essere demandate intenzionalmente dal compositore al caso. Si parla in questo caso di tecniche aleatorie. Queste possono intervenire già in fase di composizione, ovvero all’interno del processo compositivo. In questi casi il compositore stabilisce consapevolmente le regole di un gioco a cui si affida con l’intenzione di sottrarre la composizione – tutta o in parte – al proprio controllo razionale; in questo modo egli prevede una procedura che si avvale di espedienti come il lancio dei dadi, il sorteggio, casuali conformazioni dei supporti usati per la composizione (es. le imperfezioni della carta su cui si compone). Ciò implica comunque la scelta consapevole di un meccanismo che una volta innescato procede per conto suo. Molte composizioni di John Cage si avvalgono di queste procedure. Alcune tecniche aleatorie lasciano invece all’interprete la scelta della successione delle parti di una composizione (composte separatamente e disposte variamente sul foglio), con la possibilità di ripetizioni e omissioni. In altri casi il compositore demanda all’esecutore la determinazione di alcuni parametri musicali, ricorrendo a una grafia parzialmente indeterminata (v. invenzione e scrittura) se non addirittura semplicemente a rappresentazioni evocative, che affidano completamente all’interprete la determinazione del significato dei segni grafici ricorrenti e delle loro caratteristiche (posizione, grandezza, forma). Nella tradizione colta occidentale questo tipo di indeterminazione compositiva viene utilizzata a partire dalla seconda metà del XX secolo.


3. Improvvisazione

L’improvvisazione è una prassi esecutiva estremamente diffusa, tanto in Occidente quanto in molte delle tradizioni musicali extra-europee. In generale questa procedura svolge un ruolo di primo piano nelle tradizioni di tipo orale (v. oralità e scrittura). Per questa ragione le pratiche improvvisative vengono talora distinte dalla “composizione” intesa come fissazione di una struttura musicale attraverso la scrittura. In realtà in molti casi queste pratiche devono essere considerate a tutti gli effetti come forme di composizione estemporanea. L’improvvisazione raramente è del tutto libera e quasi mai casuale. Molto spesso la pratica improvvisativa è sottomessa a regole piuttosto rigide, talvolta perfino più rigide di quelle che regolano la composizione; ciò risulta necessario in funzione del controllo del momento estemporaneo, che raramente ha come scopo finale la completa libertà da vincoli. L’improvvisazione in quanto prassi si inserisce solitamente all’interno di uno stile, di un genere musicale o di una struttura di base condivisa a livello sociale: essa può estendersi all’intera composizione oppure essere relegata a determinati momenti di un brano. Quando è un compositore in senso stretto a prevedere una fase o una procedura di improvvisazione, ciò significa che egli affida deliberatamente all’inventiva e all’iniziativa estemporanea dell’interprete la responsabilità di quella determinata sezione della composizione. In casi particolari, come nel jazz, l’improvvisazione investe l’esecuzione nel suo complesso: la maestria dell’interprete viene allora in primo piano, lasciando in ombra la precisa struttura e i contenuti puntuali del brano originale che si trova alla base dell’improvvisazione, e che quindi deve risultare riconoscibile. In tutti i casi di improvvisazione, l’evento, la performance, ha la preminenza sulla strutturazione, diventa un unicum, l’esito del gesto ispirato del momento. Tale gesto è tendenzialmente irripetibile, ma può essere fissato attraverso le tecniche di registrazione, che ci permettono peraltro uno studio puntuale delle tecniche di improvvisazione. (ACe)

Bibliografia di riferimento

Breve lessico musicale, a cura di Fabrizio Della Seta, Roma, Carocci, 2009.

Dizionario Enciclopedico Universale della Musica e dei Musicisti (DEUMM), diretto da A. Basso, Il lessico, 4 voll., Torino, Utet, 1983-1990.