Musica e filosofia
“La filosofia è la musica più grande” (Platone, Fedone)
“La musica è una rivelazione più profonda di ogni saggezza e filosofia”
(Ludwig Van Beethoven)
“[...] affermo che, ammesso che si potesse dare una spiegazione della musica,
completamente esatta, compiuta e particolareggiata, riprodurre cioè
esattamente in concetti ciò che essa esprime, questa sarebbe senz’altro
una sufficiente riproduzione e spiegazione del mondo in concetti, oppure qualcosa del
tutto simile, e sarebbe così la vera filosofia [...]” (Schopenhauer, Il mondo
come volontà e rappresentazione)
È sufficiente accostare qualche citazione per cogliere quanto il legame tra musica e
filosofia sia stato complesso e vitale nei secoli e sia ancora oggi un inesauribile stimolo
a feconde e nuove riflessioni. Discipline apparentemente distanti, sin dalle origini si sono
cercate, incontrate e sovrapposte, con frequenti incursioni in entrambi i sensi: i filosofi
hanno riflettuto sulla musica e attraverso la musica, i musicisti (e i musicologi) hanno
cercato nei sistemi di pensiero elaborati dalla filosofia un quadro di riferimento per la propria
esperienza artistica o la propria elaborazione teorica.
Possiamo distinguere due atteggiamenti filosofici fondamentali nei riguardi della musica.
C’è infatti un pensiero sulla musica – che mira cioè
a definirne natura e significato – e un pensiero che si sviluppa dalla musica,
che considera cioè quest’ultima l’apertura di un orizzonte di verità
per la comprensione della realtà nel suo complesso.
Nella prima categoria, oggi inquadrabile nell’ambito più
vasto dell’estetica musicale, possono essere
fatte rientrare tutte le discussioni relative a un gruppo relativamente ristretto
di problematiche filosofiche, peraltro spinose: definire cosa è musica e cosa
non lo è (v. Che cos’è
la musica?), descrivere le relazioni tra musica, linguaggio e altre forme
d’arte (v. Musica e linguaggio),
determinare il significato dell’opera d’arte musicale, anche in
relazione al contesto storico e sociale di produzione e di ricezione
(v. Le funzioni della musica) e infine
definire i sistemi di valore in base ai quali giudicare la qualità artistica
delle opere musicali (v. Valore e giudizio estetico).
La seconda categoria, relativa all’insieme di saperi definibile come
filosofia della musica, comprende invece contributi
più eterogenei, in cui la musica può risultare occasionale strumento
esemplificativo o elemento costitutivo e imprescindibile di un sistema filosofico.
Tali categorie non devono tuttavia essere intese come rigorosamente distinte, e anzi
esse spesso si sovrappongono e confondono, come cercheremo di mostrare descrivendo
cronologicamente lo sviluppo delle riflessioni filosofiche sulla musica.
Pensare la musica nell’antica Grecia
I primi esiti della riflessione filosofica sulla musica si manifestano naturalmente là
dove la filosofia si costituisce come disciplina, nell’antica Grecia. Le problematiche
che il dibattito filosofico porta alla luce sin dalle origini – e che risulteranno
elementi di discussione costante nel confronto tra le discipline – dimostrano la
difficoltà e l’arbitrarietà di ogni tentativo di circoscrivere in categorie
troppo rigide le relazioni tra filosofia e musica, anche alla luce della volatilità della
definizione di quest’ultima. Se infatti una, e forse la più decisiva, di tali
problematiche è la distinzione di ciò che è musica da ciò che
non lo è (v. Che cos’è la musica?)
bisogna confrontarsi con l’evidenza che il termine musica si riferisce a pratiche non
sempre omogenee, né tra loro né a ciò che attualmente consideriamo come
tale. Nel caso dei Greci, questo termine concede uguale rappresentanza all’arte dei suoni,
alla poesia lirica e alla danza, ed è pertanto con questa natura “trinitaria”
del concetto di musica che il pensiero filosofico si confronta.
A causa della complessità del fenomeno musicale così inteso, elementi di
riflessioni filosofica sulla musica sono presenti in maniera disorganica nella poesia
lirica e tragica, prima di condensare in visioni teoriche più coese e compiute.
È impossibile scindere la figura del poeta e del teorico della musica, e non a
caso il primo trattato dal titolo Peri mousikes di cui si abbia notizia è
opera di Laso di Ermione, poeta lirico del VI a.C; il testo si concentra sulla natura degli
intervalli musicali (v. Intervallo), problema
centrale anche nella riflessione dei Pitagorici.
Due sono gli aspetti del fenomeno musicale che finiscono sotto la lente di Pitagora di
Samo (circa 560-480 a.C.) e della sua scuola, fortemente intrecciati tra loro:
l’organizzazione matematica della musica e i suoi
riflessi sul comportamento e la condotta di vita degli uomini. Nello studio dei fenomeni
acustici i Pitagorici evidenziarono come gli intervalli fondamentali di ottava, quinta e
quarta potessero essere espressi da rapporti matematici semplici (1:2, 2:3, 3:4), leggendo
nel dato fisico la conferma che il numero costituiva il superamento e l’armonizzazione
delle contraddizioni del reale. Il dogma pitagorico, per quanto matematicamente discutibile,
si radicò a tal punto da farsi metro di valutazione degli effetti della musica sulle
persone, determinando a quale affetto corrispondesse ciascuna
armonia.
Il passo dalla descrizione alla prescrizione fu breve, e presto nella trattatistica si
diffuse la classificazione tra armonie buone e cattive, tra quelle utili per una
positiva catarsi dalle passioni più violente e
quelle dannose per la salute. Sono riflessioni determinanti per lo sviluppo della
filosofia della musica di Platone prima e Aristotele poi; il punto di mediazione tra
le due scuole filosofiche è rappresentato dalla figura di Damone di Oa (V secolo a.C).
Nei suoi scritti, Damone insiste sul legame tra musica ed etica, in particolare
nell’educazione dei giovani, riprendendo e rafforzando l’idea che solo
alcune armonie trasmettano i valori fondanti di una comunità e diano accesso
alle virtù del buon cittadino.
Una visione “conservatrice” è fatta propria anche da Platone,
il quale si occupa della musica in numerosi dialoghi, pervenendo nella Repubblica
ad una sistemazione organica. Il filosofo ateniese – che nella sua città ideale
identifica nella musica la palestra dell’anima, così come la ginnastica è
quella del corpo – sceglie un’impostazione molto restrittiva, ammettendo solo
due modi musicali, il Dorico e il Frigio. Più in generale, Platone ha nei confronti
della musica una posizione ambivalente: da un lato la considera un pilastro della struttura
razionale della realtà – nella forma cosmica dell’armonia delle sfere e
in quella umana dell’elevazione spirituale dell’individuo e della
collettività – dall’altro la ritiene, nelle forme strumentali che
considera più volgari, come un potenziale elemento di disordine, un prevalere
della sottomissione ai piaceri sulla ricerca della virtù.
Opinioni meno unilateralmente negative riguardo la dimensione edonistica della pratica
musicale si manifestano già con Aristotele, che evita di considerare i modi musicali
totalmente positivi o negativi e preferisce evidenziarne le caratteristiche, ritornando sul
potere catartico della musica come medicina dell’anima. La musica rimane tuttavia
oggetto di speculazione e non cadono i pregiudizi nei riguardi dei musicisti professionisti,
considerati artigiani volgari e sin troppo intraprendenti.
Per il superamento di tali pregiudizi bisognerà attendere Aristosseno di Taranto
(IV secolo a.C.), capace di ribaltare il rapporto di subordinazione della pratica musicale
alle astrazioni speculative e di riportare al centro del dibattito il fatto sonoro,
così come dato nella combinazione tra percezione sensibile e memoria.
Il primato dell’orecchio sul calcolo matematico
e la riduzione del valore etico dei modi musicali a dato storico-culturale relativo
professati da Aristosseno non riuscirono tuttavia a fare davvero breccia nel dibattito
filosofico, che nei secoli successivi si sarebbe nutrito più della speculazione
pitagorica e platonica che del metodo empirico del musico di Taranto.
Pensare la musica nel Medioevo
Non è difficile trovare nel mondo latino di età tardo-antica e altomedievale
indizi del debito profondo della filosofia della musica di orientamento platonico e pitagorico.
Anzi, la svalutazione intellettuale della pratica musicale, riferita soprattutto alla
musica strumentale, si accentua: la musica viene
considerata degno oggetto di studio solo in quanto scienza delle proporzioni e inserita per
questo nel quadrivium delle arti liberali al fianco di aritmetica, geometria e
astronomia, secondo il modello di erudizione classica rielaborato in chiave cristiana da
Agostino.
Modello e punto di riferimento di tale atteggiamento è il filosofo Severino Boezio
(V-VI secolo d.C.), autore del De institutione musica, trattato cui si richiameranno
tutti i successivi contributi sulla speculazione musicale di epoca medievale e non solo.
Boezio sviluppa l’eredità del pensiero greco identificando tre tipi di musica
che i commentatori successivi inseriscono nel contesto della cultura cristiana: quella
mundana coincide con l’armonia delle sfere
di Pitagora e Platone e viene associata al divino, quella humana esprime
l’equilibrio tra l’uomo e il creato, quella instrumentalis coincide
con la produzione del suono attraverso la voce (anche se nell’alto medioevo la musica
vocale è associata alla humana) o gli strumenti musicali. Solo
quest’ultima tipologia di musica è udibile in modo sensibile, mentre
le prime due sono per Boezio oggetto di speculazione, dunque di un’indagine
di livello superiore, nel segno di un primato dell’intelletto sull’orecchio.
Una visione che, inevitabilmente, confinerà ancora in secondo piano il godimento
estetico dell’esperienza musicale, la quale sarà considerata valida solo in
relazione alla capacità di elevare lo spirito umano verso Dio attraverso
l’armonia e l’equilibrio.
Tuttavia, il De institutione musica di Boezio consegna all’Occidente
proprio l’indagine sulla musica strumentale, oggetto di studio matematico in relazione
alla natura proporzionale delle consonanze, che attraverso ulteriori apporti di Calcidio,
Macrobio e dello stesso Agostino influenzerà l’approccio alla speculazione
musicale successiva (musica e scienza). In età
carolingia, e fino almeno al secolo XI, lo sviluppo del canto liturgico e della sua notazione
indirizza il recupero del pensiero musicale boeziano alla fondazione di una dimensione scientifica
della musica (scientia musicae), sorta dall’esigenza di una giustificazione teorica,
etica ed estetica del canto della chiesa. I monaci e gli ecclesiastici eruditi sono quindi spinti
a inquadrare i problemi speculativi in ambito musicale facendo riferimento a una specifica
prassi musicale, la quale viene anzitutto relazionata
all’armonia cosmica e dei cori angelici e all’armonia del corpo e dell’anima umana.
A partire dal secolo XII, grazie ai nuovi interessi naturalistici, e ancor più marcatamente
nel secolo XIII, con lo sviluppo della cultura universitaria e della filosofia di impianto aristotelico
e con l’emergere della polifonia d’arte sacra e profana, il pensiero filosofico sulla musica
si orienta verso la natura dell’esperienza musicale: la musica è arte o scienza? Riconosciuta
quale arte pratica e scienza teorica insieme,
la musica è ora definita come scientia media tra la matematica e la filosofia naturale,
mentre al suo linguaggio, che si esprime ormai compiutamente nella notazione, è attribuita la
qualifica di artificium, ovvero frutto della maestria e della sensibilità umana.
Ed è proprio dagli sviluppi del linguaggio polifonico
(v. Monodia e polifonia) che emerge un nuovo problema speculativo,
ovvero la questione della natura e della misura del tempo musicale,
alimentata dal contemporaneo dibattito filosofico sul tempo. L’esigenza, infatti, di un’accurata
misurazione e annotazione scritta della polifonia, soprattutto nell’ambito dell’ Ars nova,
stimola teorici della musica e matematici come Giovanni de Muris (circa 1300-1350) all’intuizione che il
tempo musicale è divisibile e misurabile secondo parametri convenzionali, funzionali alle esigenze compositive.
Alle soglie dell’Umanesimo, la necessità di una svolta nell’impostazione speculativa della
musica si accompagna alla sempre più professionalizzata trattatistica musicale, che affronta i problemi
concreti della composizione. In questa prospettiva, Boezio e la sua musica speculativa sono ormai inadeguati a
dare risposte, sia a livello pratico che teorico: il musicus, divenuto compositore e teorico insieme,
rapporta ora il sapere musicale delle antiche auctoritates con riflessioni di natura pratica ed estetica,
da indirizzare alla creatività artistica e alla sua consapevole fruizione.
La nascita dell’estetica musicale e il pensiero musicale nell’epoca dei lumi
L’idea che la musica susciti interesse speculativo solo in ragione delle proporzioni matematiche che
la informano resiste, tuttavia, per secoli, soprattutto in ambito filosofico, anche dopo il tramonto del
sistema di prescrizioni etiche e di carattere religioso in cui Boezio e i secoli del Medioevo l’avevano
inserita; basti pensare che ancora Cartesio, pur spogliando le sue riflessioni sulla musica di ogni teleologismo,
la considera prevalentemente in ragione delle combinazioni intervallari (v. Intervallo)
che la costituiscono, da classificare non in relazione alla loro bellezza ma alla loro intrinseca razionalità.
Già in Cartesio, tuttavia, si fa strada l’idea che la fisica del suono sia incapace di rendere ragione
del piacere dell’ascolto: un intervallo di quarta è matematicamente più perfetto di un intervallo
di terza, ma non necessariamente più gradevole all’orecchio.
Si apre quindi un nuovo spazio per la riflessione filosofica sulla musica, spazio che viene per la prima volta
illuminato dall’opera di Jean-Baptiste Dubos (1670-1742). Dubos libera la musica dall’inquadramento
matematico e razionalizzante, considerandola nelle sue manifestazioni sensibili e dunque mettendo al centro
della sua analisi la pratica musicale strumentale e vocale. Esprimendo la
convinzione che la musica sia imitazione della realtà e abbia per vocazione il ruolo di potenziare
emotivamente la parola poetica, Dubos scardina la visione filosofica della musica come espressione
dell’ordine razionale delle cose e pone l’accento sulla ricezione dell’esperienza
musicale, dominata dal sentimento assai più che dalla ragione; il gusto estetico, definito dal
piacere dell’ascolto e temperato dall’esperienza, diventa quindi il termometro del valore
artistico di un’opera musicale.
Con Dubos, si compie dunque la transizione da una concezione etica a una ormai già pienamente
estetica del fenomeno musicale, malgrado il termine “estetica”
nasca ufficialmente solo nel 1750 con Alexander Gottlieb Baumgarten.
Nonostante il suo contributo sancisca definitivamente la dignità teorica del giudizio estetico
nella valutazione della natura e del significato dell’opera d’arte musicale, in parallelo
con un’evoluzione della concezione filosofica di ragione da garante dell’ordine universale
a strumento critico soggettivo di interpretazione della realtà, l’inquadramento speculativo
matematico e spirituale della musica fatica a cadere anche nel secolo dei Lumi. Il retaggio più
resistente è senz’altro la scarsa considerazione per la
musica strumentale, cui solo il Romanticismo attribuirà
finalmente un ruolo centrale nella riflessione filosofica.
Al centro della speculazione degli Enciclopedisti c’è dunque principalmente
la musica vocale, con una trattazione che, specialmente
in Jean-Jacques Rousseau (1712-1778), si sviluppa però in direzione polemica rispetto a
ogni razionalizzazione astratta del fenomeno musicale. Si assiste a un ribaltamento del sistema
che si era imposto per secoli nel dibattito filosofico: i tentativi di descrivere gli intervalli
musicali come un sistema organico e naturale di proporzioni vengono giudicati un occultamento della
natura più profonda della musica, della sua spontaneità e della sua derivazione diretta
dal sentimento. La musica non può più essere interpretata come linguaggio universale,
ma al contrario come espressione delle passioni dell’individuo e della nazione a cui appartiene.
Il piacere e il gusto sostituiscono il calcolo e la ragione come strumenti di interpretazione del
fenomeno musicale, ma non permettono alla musica di risalire la gerarchia delle arti. Ancora nel
pensiero di Kant (1724-1804), la musica è classificata come gioco fuggevole “senza
concetto”, arte dal significato intraducibile e dunque incapace di raccontare il mondo con
la stessa intensità di poesia e arti figurative.
Pensare la musica nel Romanticismo
L’asemanticità della musica, suo tallone d’Achille nella filosofia settecentesca,
diviene il suo punto di forza in età romantica e il punto di partenza di un’estetica
musicale non più sorella minore dell’estetica tout court, ma sua dimensione
trainante.
Già anticipato dalla sensibilità degli autori dello Sturm und Drang, il
nuovo atteggiamento filosofico nei riguardi della musica si dispiega in un’intera generazione
di scrittori, filosofi e intellettuali tra cui spiccano Wilhelm Heinrich Wackenroder, Ernst Theodor
Amadeus Hoffmann, Ludwig Tieck e Friedrich Schelling.
L’evidenza che la musica non possa esprimere un significato determinato viene reinterpretata
alla luce di sistemi di pensiero in cerca di un Assoluto che non può essere compreso attraverso
il mero esercizio della ragione, ma come possibilità di accesso a un nucleo di verità
altrimenti inaccessibile. La musica strumentale, svincolata
dalla parola e dunque da qualunque associazione semantica potenzialmente riduttiva, assurge al ruolo
di arte rivelatrice per eccellenza, ribaltando gerarchie sedimentate nei secoli. L’autore di
musica assoluta assume di conseguenza i contorni del profeta, del genio
capace di attingere a significati impenetrabili alla ragione e di renderli disponibili attraverso la
pratica compositiva ed esecutiva.
Da una filosofia della musica fondata sulla (presunta) oggettività delle leggi fisiche e della
ragione, il pensiero romantico approda a un’estetica musicale fondata sul soggetto e trova
quindi una sponda significativa nella filosofia idealista. Non è perciò un caso che
la musica si ritagli uno spazio autorevole nella filosofia di Hegel (1770-1831), che all’interno
del suo sistema la pone sì al di sotto della poesia – giudicata più libera da vincoli
materiali e vicina alla pura espressione dei concetti – ma al di sopra di tutte le altre arti e persino
alla pittura per l’emancipazione dalla spazialità e la natura squisitamente temporale. Hegel
riconosce alla musica la capacità di mettere tra parentesi la distanza tra soggetto e oggetto,
inducendo l’Io a contemplarsi attraverso il sentimento puro, privo di riferimenti a emozioni specifiche,
ma le rimprovera un’insuperabile tendenza all’astrazione, al farsi puro arabesco autoreferenziale e
insignificante.
Nel pensiero di Schopenhauer (1788-1860) la musica compie un ulteriore passo in avanti: più che conquistare
il primato tra le arti, essa acquisisce uno status autonomo e al pari delle Idee viene considerata immagine diretta
della Volontà, la forza irrazionale alla radice della realtà. La musica è per Schopenhauer
infatti non solo l’arte dell’interiorità pura e priva di materialità, ma anche la vetrina
degli archetipi universali del sentimento. Ciò fa della musica una lingua universale
e al tempo stesso intraducibile; se potessimo tradurla in parole, afferma Schopenhauer con un celebre paradosso, essa
sarebbe la vera filosofia (v. Musica e linguaggio).
Nella seconda metà del XIX secolo il dibattito sulla musica non è più
patrimonio esclusivo dei filosofi e anzi, avviando una tendenza che si imporrà in maniera ancor
più decisa nel Novecento, vede compositori e critici musicali esporsi in prima linea e dividersi
in due schieramenti su una domanda: può la musica esprimere emozioni e significati?
Il manifesto di chi si schiera per il no è il saggio Vom Musikalisch-Schönen
(Il bello musicale) del critico Eduard Hanslick (1825-1904), che nella musica vede
null’altro che un gioco di forme sonore, incapace di esprimere emozioni; la bellezza
della musica risiederebbe quindi nella sua struttura formale, a prescindere dall’associazione
con qualunque tipo di contenuto razionale o sentimentale. Posizione, questa, che non solo darà
vita a una vera e propria scuola di pensiero formalista della musica,
ma consegnerà al solo musicologo – che detiene le conoscenze tecniche per decifrare la
struttura dell’opera musicale – l’accesso al giudizio critico ed estetico sulla musica.
Sull’altro lato domina invece la figura di Richard Wagner (1813-1883), che nella sua sintesi
tra attività di compositore e di teorico dell’arte costituisce il modello speculativo
di molti autori del secolo successivo. Per Wagner, la musica è inscindibile dalla rete di
significati storici e culturali coinvolti nella sua produzione e ricezione; richiamandosi alla
tradizione greca, egli reclama una nuova unità tra poesia, musica e danza nella suprema
sintesi del Gesamtkunstwerk (opera d’arte totale). Presa da sola la musica non
ha alcun significato: nella combinazione con la parola poetica essa diventa capace di esprimere
il mito e attraverso di esso il senso profondo della realtà in cui viviamo.
Pensare la musica nel Novecento
La cosiddetta “guerra dei romantici” non conosce vincitori, ma amplia ulteriormente il
campo di battaglia di filosofia ed estetica della musica, aprendo un dibattito che nel Novecento è
tanto ricco quanto complesso, anche a causa del numero di attori sulla scena. Le tradizionali questioni
dell’estetica musicale non sono infatti più patrimonio esclusivo della speculazione dei
filosofi, ma diventano oggetto d’indagine e discussione di scienziati, antropologi, sociologi e
molti altri, ma un ruolo di primo piano è ormai stabilmente detenuto dai compositori.
Problema centrale della riflessione filosofica sulla musica nel Novecento, da cui discendono o a cui
si intrecciano tutti gli altri, è la definizione dell’opera
d’arte musicale, in un contesto storico in cui le “provocazioni” delle
avanguardie minano le convenzioni e i rituali performativi tradizionali. Se alcuni compositori,
tra i quali spicca John Cage (1912-1992), hanno inteso indebolire anche nei loro scritti la
fondatezza del concetto di opera musicale – giudicato un’indebita costruzione metafisica
che allontana dalla percezione autentica del fenomeno sonoro – molti filosofi l’hanno difesa,
seppure con presupposti e obiettivi differenti. Roman Ingarden (1893-1970), che muove da una prospettiva
fenomenologica, considera l’opera musicale come un oggetto estetico intersoggettivo, mediazione tra
intenzione dell’autore e percezione degli ascoltatori, un limite ideale che trascende la partitura
e le sue esecuzioni; Hans Heinrich Eggebrecht (1919-1999) ricostruisce l’evoluzione del concetto di
opera musicale per ribadirne il valore storico (v. Storia e storiografia;);
la cosiddetta New Musicology ha ricordato l’impronta fondamentale della biografia dell’autore
sulle scelte che danno forma all’opera.
Problema direttamente connesso all’ontologia dell’opera musicale è quello del suo significato,
discussione che prosegue con armi intellettuali più affinate la guerra dei romantici. Da un lato sopravvive,
in compositori come Stravinskij o pensatori come Peter Kivy (n. 1934), la prospettiva formalista di una musica
incapace di esprimere altro che se stessa, dall’altro studiosi come Leonard Meyer (1918-2007), avvalendosi
dei progressi della psicologia, hanno evidenziato l’attitudine della musica a produrre aspettative e
attraverso la loro realizzazione/delusione a suscitare emozioni. Altri ancora, rifacendosi alla fenomenologia
o all’ermeneutica, considerano la musica capace di esprimere significati attraverso l’interazione
con il contesto storico e culturale di produzione e ricezione.
Altro dibattito acceso è quello sulla natura temporale dell’esperienza
musicale. Alimentato dalle riflessioni sul tempo di Husserl e Bergson – che proprio sulla musica modellano
la loro filosofia sull’argomento – vive dell’opposizione tra chi, come gli strutturalisti
rappresentati da Claude Lèvi-Strauss (1908-2009), considera la struttura profonda della musica non
temporale e immutabile, e quanti invece considerano il tempo in modi diversi elemento costitutivo
dell’esperienza musicale. Tra questi occorre ricordare almeno Gisèle Brelet (1919-1973) –
per la quale la musica è caratterizzata da una temporalità irreversibile, che è la
manifestazione della temporalità del suo autore – Susanne Langer (1895-1985) – che
vede nella musica una forma simbolica della temporalità – e fenomenologi come Alfred Schutz
(1899-1959), che considerano il tempo la dimensione propria di esistenza e significazione della musica.
Alla convergenza tra le principali tendenze di pensiero qui evidenziate va collocata la riflessione
sulla musica di Theodor Wiesengrund Adorno (1903-1969), impossibile da riassumere per complessità
e ricchezza dei temi trattati. Nella sua filosofia della musica trovano posto sia riflessioni intrinseche
alla musica e alla sua organizzazione sia elaborazioni sistematiche delle relazioni della musica con la
società e in particolare delle sue capacità di orientare e manipolare la pubblica opinione
(v. Musica e società).
Pensare la musica oggi
Taluni hanno visto nel tramonto del concetto di opera musicale e dei sistemi di pensiero di
cui esso è stato architrave la fine dell’estetica musicale come strumento capace
di produrre nuovi contenuti di pensiero, confinandola nel ruolo di disciplina storica.
Tuttavia, se oggi è difficile identificare con chiarezza i punti di contatto tra riflessione
filosofica e musica, ciò non lo si deve all’impoverimento delle due discipline, ma alla
polverizzazione dei contenuti e dei contributi di riflessione. La musica ha infatti raggiunto oggi
livelli di diffusione senza precedenti e anche gli spazi per la speculazione filosofica sull’argomento
si sono moltiplicati di conseguenza: pensare la musica nel mondo globalizzato, pensare la musica nel contesto
delle nuove tecnologie, pensare la musica nella sua interazione con
altre arti sono solo alcuni dei sentieri che i filosofi della musica – o quanti osservano la musica da
una prospettiva filosofica – stanno percorrendo e dovranno percorrere nel prossimo futuro.
(AF e CP)
Bibliografia di riferimento
Eleonora Rocconi, Mousikè téchne. La musica nel mondo greco,
Milano, I.S.U. Università Cattolica, 2004.
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Giovanni Guanti, Estetica musicale. La storia e le fonti, Milano, La Nuova Italia, 1999.
Michela Garda, L’estetica musicale del Novecento. Tendenze e problemi, Roma, Carocci, 2007.
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