Prassi esecutiva



Nessuna arte, se si eccettua la danza, come la musica ha la necessità così intransigente di avere un intermediario fra la creazione e la fruizione. Anche il più esperto conoscitore del linguaggio musicale non trarrebbe dalla lettura a tavolino di una partitura se non limitate informazioni sul brano di cui essa costituisce la traccia grafica (ovviamente la difficoltà cresce al crescere della complessità del brano). Peraltro è noto che lo stesso compositore ha bisogno di sentire il suo pezzo eseguito per avere un’esperienza completa di ciò che ha scritto ed anzi, proprio dopo l’ascolto, può succedere che egli apporti modifiche anche di una certa entità. Ci si potrebbe addirittura chiedere se l’opera d’arte musicale esista in se stessa anche senza l’esecuzione e quindi senza l’esecutore che la realizzi fisicamente. È vero che anche la letteratura teatrale è affidata agli attori e sicuramente un grande attore, con un’interpretazione efficace, può rendere il testo più penetrante e significativo. Ma chi eventualmente legga solitariamente lo stesso testo in un libro si può rendere conto da sé del significato del testo e seguire abbastanza dettagliatamente il pensiero dell’autore e lo sviluppo dell’azione drammatica. Cosa, appunto, che non accade con la musica.

L’interprete musicale inoltre ha davanti a sé un testo che contiene segni grafici (v. altezza/nota) che nel corso dei secoli hanno avuto una notevole evoluzione, non tanto nella grafica delle note, che si stabilizza soprattutto con l’avvento della stampa musicale, quanto nelle indicazione accessorie. Se si guarda da lunga distanza l’evolversi della scrittura musicale si può notare una sempre maggiore precisazione di dettagli esecutivi che descrivono parametri sempre più sottili. Si giunge, con le estreme propaggini del Romanticismo, ad una quasi maniacale cura dei dettagli: quasi ogni nota possiede un’indicazione, o dinamica, o agogica, o di espressione, quasi che il compositore voglia suggerire all’interprete ogni minima inflessione del suono (emblematico il caso di Gustav Mahler).

Se invece si guardano le prime testimonianze di musica scritta, ancor prima che entri in uso la notazione moderna, si osserva la totale assenza di ogni indicazione; i segni servivano nella maggior parte dei casi ad aiutare la memoria dell’esecutore in determinati frangenti. Questa apparente libertà di chi esegue è mitigata da una sua forte partecipazione ad una tradizione che permette di interagire secondo schemi ben conosciuti. La situazione non cambia molto se si pensa alla musica del Cinquecento o a quella barocca. La prassi esecutiva, ricca di libere varianti, poggia su una conoscenza della tradizione che da maestro a allievo trascorre senza problematicità, rendendo l’interprete perfettamente padrone di modelli e stilemi a cui egli si riferisce continuamente e che non si ritiene necessario scrivere. L’autore del Seicento o del Settecento, insomma, sa che l’esecutore capisce benissimo ciò che egli ha scritto anche senza specificargli molto.

La stessa enigmaticità della scrittura spinge a far considerare assolutamente necessaria l’intermediazione di un interprete (nel vero significato della parola) per decodificare il linguaggio scritto in un messaggio sonoro che tutti possano intendere. Proprio questa “enigmaticità”, questa possibilità di molteplici interpretazioni, è il fondamento di una della massime attrattive dell’arte musicale. Questo è chiaro specialmente al giorno d’oggi, in cui quasi tutti gli enti organizzatori di eventi musicali (v. Le strutture organizzative) puntano soprattutto – in qualche caso esclusivamente – sugli interpreti. Basterebbe guardare l’aspetto grafico della pubblicità di quegli enti per constatare che, con le dovute eccezioni soprattutto in campo operistico, l’esecutore ha la supremazia tipografica assoluta, mentre l’autore o gli autori e i titoli dei pezzi in programma sono relegati in piccoli e molto meno leggibili trafiletti. Non è difficile sostenere che questa supremazia dell’interprete sull’autore, che si consolida sempre più al nostro tempo, dipende dall’affermarsi di un repertorio basato quasi esclusivamente su autori del passato, sia prossimo che remoto, che viene riproposto continuamente e che trae interesse proprio dalla varietà degli esecutori che lo propongono.

Forse oggi stiamo procedendo ancora in quel processo, cominciato alla fine del Romanticismo, che, in teoria e in pratica, ha sempre più separato l’autore dall’esecutore creando quella nuova figura specialistica dell’interprete di musiche di altri che per secoli era stata invece concentrata nella sola persona del compositore. I pianisti Ferruccio Busoni, Sergeij Rachmaninov, Sergeij Prokof’ev sono gli ultimi esempi del compositore virtuoso di antica tradizione. Soltanto nel campo della direzione d’orchestra il fenomeno oggi persiste: si pensi a Giuseppe Sinopoli, a Esa Pekka Salonen, a Pierre Boulez. Questo dualismo dell’interprete, alle prese con l’aspetto tecnico e quello dell’espressione, si vede anche nella critica musicale di oggi alle prese con l’analisi delle interpretazioni. Fermo restando il fatto che sempre meno, a partire dagli ultimi dieci-quindici anni, sui giornali si possono trovare recensioni di concerti (fanno eccezioni gli eventi legati ai soliti celebri nomi e ai soliti celebri teatri) e, dove si può (maxime nell’opera), ci si sofferma soprattutto sugli aspetti non musicali (regia, scene e costumi), la critica musicale sembra sottolineare con chiarezza quel dualismo. È un modo tradizionale – almeno per quanto riguarda l’ultimo secolo - di inquadrare un aspetto dell’interpretazione che sembra riflettere in maniera speculare quello che accade ai giorni nostri alla cultura occidentale alle prese con l’apparente inconciliabilità fra scienza ed umanesimo, fra ragione e sentimento, fra spirito e materia. Infatti non è difficile trovare negli articoli che riportano critiche di concerti interpreti definiti da frasi del tipo “bravissimo ma freddo”, “tutta tecnica” o simili che dichiarano esplicitamente questo dualismo. Da qui poi tutta una serie di stereotipate conseguenze antropologiche che vedono, per esempio, prevalere nella nazione tedesca l’aspetto tecnico mentre in quella italiana il sentimento (“sì, talvolta sbaglia, ma ha tanto cuore”, si è sentito dire di un pianista nostrano).

Negli ultimi cinquanta anni un nuovo filone esecutivo si è innestato in un aspetto molto caratteristico della nostra epoca, quello del RESTAURO delle opere d’arte, con conseguenze dagli sviluppi imprevedibili. A partire dagli anni 1930-‘40 si è cominciato a riscoprire il repertorio della musica antica (dei secoli XVII e XVIII), anche italiana, – oggi omnicomprensivamente chiamata barocca – soffocato all’epoca dalla strapotenza della tradizione del melodramma. Proprio sulla scia di questo nuovo fenomeno, corroborato anche dalla pubblicazione sempre più frequente di revisioni moderne di quelle musiche, una volta consolidata e data per scontata la validità di queste musiche, ha preso vigore la ricerca di un nuovo modo di eseguirle. Con la stessa mentalità dei restauratori di opere d’arte pittoriche, alcuni interpreti hanno cominciato a ripulire le partiture da incrostazioni e danni del tempo, da convenzioni e ritocchi successivi quasi esse fossero appunto affreschi o pitture ad olio. Per far questo, a partire dalla seconda metà del secolo scorso, alcuni esecutori di area tedesco-olandese (si citano come padri fondatori Gustav Leonhardt e Nikolaus Harnoncourt) hanno cominciato a individuare alcuni strumenti atti allo scopo. Primo fra tutti il ricorso a strumenti musicali originali o copie degli stessi, con relativa fioritura straordinaria di botteghe artigianali impegnate nella costruzione di questi ultimi. Poi lo spoglio delle fonti documentarie e iconografiche che potevano illustrare le caratteristiche fisiche delle esecuzioni antiche. Quindi lo studio di metodi di apprendimento scritti nel periodo barocco e di seguito il controllo del numero degli esecutori modellato sull’originale e la meticolosa ricognizione di ogni aspetto anche secondario delle esecuzioni antiche. Tutti elementi che talvolta sono stati spinti fino ad un certo radicalismo da cui è derivato in alcuni casi l’equivoco che bastava seguire i dettami sopra esposti per avere un’interpretazione vera.

Proprio la verità sembra essere il fine di questa prassi esecutiva che secondo l’opinione degli stessi esecutori avrebbe la capacità di ricreare l’esecuzione originale come si sarebbe potuta ascoltare ai tempi dell’autore, mettendo lo strumentista quasi nel ruolo di collegamento direttore fra il musicista dell’epoca e l’ascoltatore di oggi. Il raggiungimento di questo fine, che mostra chiaramente aspetti utopistici, è la causa del fervore che negli ultimi anni ha infiammato il mondo delle esecuzioni filologiche (ed ha vivificato i relativi cataloghi discografici) e che può essere elogiato non tanto per averci avvicinato alla verità ma per aver aperto gli orizzonti di uno sterminato panorama fantastico che ci ha permesso di ascoltare musiche note ammantate di sonorità inaspettate e nuove. C’è stata addirittura una corsa all’interpretazione “autentica” che, attraverso elementi caratterizzanti quali una certa velocità di tempi, una costante messa di voce sulle note lunghe, una accentuazione del ritmo, una certa spigolosità del fraseggio ha portato anche a soluzioni estreme, quasi ad un restauro eccessivo, magari legato alla novità di un atteggiamento bisognoso all’inizio di gesti quasi provocatori. L’esempio che segue è molto indicativo della divergenza di idee.

Antonio Vivaldi, Il Cimento dell’Armonia e dell’Inventione op. VIII, Largo dal Concerto n. 4 in fa min. “L’Inverno” per violino, archi e basso continuo

Es. 1

Mischa Mischakoff, violino, NBC Symphony Orchestra, Guido Cantelli, direttore, (New York, 1951, dal vivo)

Es. 2
Alice Harnoncourt, violino, Concentus Musicus Wien, Nikolaus Harnoncourt, direttore, Teldec 1977

Quello che comunque è un dato di fatto è che questa prassi esecutiva originale è oramai diffusa in tutto il mondo e i complessi con strumenti originali pullulano ovunque, anche in Italia. Ed effettivamente si può constatare ormai anche una certa abitudine a quelle sonorità all’antica che fanno sì che sempre più le esecuzioni di musica barocca siano appannaggio di complessi specializzati e sempre meno si ascoltino suonate da grandi orchestre sinfoniche come avveniva fino a non molti anni fa, almeno nel nostro paese. Ulteriore conseguenza del suddetto atteggiamento restauratore è stato anche il diramarsi di questa particolare prassi esecutiva in epoche musicali anche successive al barocco, interessando via via l’epoca classica e romantica con esiti talvolta di grande interesse che ha finito per vivificare un vastissimo repertorio e per avvicinare alla musica un pubblico giovane “incuriosito” dalle nuove sonorità.

Tutto questo lascia lo spiraglio a un paradosso. La ricerca dell’esecuzione autentica si basa tutta su elementi storici e teorici (nessuna diretta testimonianza sonora ci è giunta dall’antichità come invece giungerà alle orecchie dei nostri posteri, attraverso le attuali registrazioni magnetiche, il nostro modo di suonare). Tutti coloro che oggi imparano a suonare uno strumento, o a cantare, o a dirigere l’orchestra, hanno l’insegnamento di un maestro che a sua volta ha appreso la base di ciò che sa da un precedente maestro e così via. Proseguendo con questo cammino a ritroso, naturalmente anche con l’ausilio delle vecchie fonti musicali a stampa o manoscritte, ci si ricollega idealmente agli antichi. Esiste ancora qualcosa dei vecchi insegnamenti che, trasportato sotterraneamente nel susseguirsi delle generazioni di allievi e insegnanti, traspaia ancora nel modo di eseguire dei giovani maestri? Non è forse proprio quella prassi esecutiva tradizionale, che la rivoluzione filologica ha voluto soppiantare, quella che ancora oggi può contenere almeno una piccola parte di quella “autenticità” che a volte così radicalmente gli interpreti moderni ricercano? Forse si potrebbe affermare che ciò che si cerca non è poi così lontano. Infatti, dato per scontato che si impara a suonare come si impara a parlare ascoltando gli insegnanti o i genitori, la linea che congiunge l’antico con il moderno – ovviamente entro certi limiti – non si è mai interrotta. Insomma si potrebbe affermare, anche se in maniera un po’ rigida, che per trovare l’autenticità esecutiva di un pezzo del recente passato si dovrebbe non interrompere la tradizione ma interrogarla meglio.

In un interessantissimo dvd pubblicato dalla NVC Arts nel 1999, nel capitolo dedicato ad Edwin Fischer, il grande pianista tedesco esegue un frammento del Clavicembalo ben temperato di Johann Sebastian Bach e spiega che egli lo sta suonando come lo suonava Beethoven. Infatti, sostiene sempre Fischer, Beethoven aveva insegnato il Clavicembalo ben temperato a Joseph Czerny, Czerny l’aveva insegnato a Franz Liszt, Liszt ad Eugen D’Albert, D’Albert a Edwin Fischer. Questa tradizione orale diretta ci permette quindi, se pur con una certa approssimazione, di avvicinarci ad una fonte autorevole con sufficiente attendibilità. (GB)



Riferimenti bibliografici

Piero Rattalino, Da Clementi a Pollini. Duecento anni con i grandi pianisti, Milano, Ricordi, 1984.

Richard Taruskin, Text and Act. Essay on Music and Performance, Oxford, Oxford University Press, 1995.

The Art of Piano. Great Pianists of the 20th Century, dvd NVC Arts 3984-29199-2, 1999.

Jonathan Dunsby, Analisi ed esecuzione musicale, in Enciclopedia della musica, vol. II “Il sapere musicale”, direttore J.-J. Nattiez, Torino, Einaudi, 2002.

Claudio Gallico, Edizioni critiche di musica barocca, in Enciclopedia della musica, vol. II “Il sapere musicale”, direttore J.-J. Nattiez, Torino, Einaudi, 2002.