Musica vocale
Questa sottosezione si occupa di forme e generi di musica vocale,
sia monodica (che prevede cioè una sola linea melodica) sia polifonica
(che prevede invece la sovrapposizione di due o più linee melodiche
distinte), escludendo gli ambiti di pertinenza della musica
scenica e della musica vocale strumentale.
A quest’ultimo proposito è bene produrre qualche precisazione.
Il repertorio oggetto delle osservazioni che seguono è quello tramandatoci
da fonti scritte - a partire dalle origini della civiltà occidentale
moderna – che, nel rimandare esplicitamente ad una realizzazione di
tipo vocale, non recano indicazioni di parti strumentali autonome. Occorre
tuttavia tenere presente che il documento notato non rappresenta che una traccia
di realtà sonore complesse: riprendendo un felice parallelismo con
le arti figurative, si potrebbe parlare della sinopia rispetto all’affresco
compiuto. Fino almeno a tutto il secolo XVI - come rendono talora evidente
testimonianze fornite da documenti d’archivio, letterari o iconografici
– anche buona parte dei generi vocali di cui si tratterà in questa
sede prevedeva, in sede di prassi esecutiva, l’apporto integrativo o
sostitutivo di uno o più strumenti musicali.
D’altra parte, non tutte le occasioni di intonazione di un testo hanno
avuto registrazione per iscritto, o almeno non in tempi ad esse prossimi:
soprattutto in ambito profano o devozionale, il fenomeno della scrittura ha
coinvolto eminentemente la polifonia. Fonti tardive, perlopiù primocinquecentesche,
rimandano per esempio all’esistenza di un repertorio di formule melodiche,
i cosiddetti aeri, cui si ricorreva in presenza di determinate strutture metriche:
“aeri da cantar ottave”, “aeri da cantar sonetti”,
“aer de capitoli” ecc. Della musica su cui intonava i propri testi
il liutista ferrarese Pietrobono dal Chitarrino, il musico-poeta del Quattrocento
più citato dalle fonti coeve, nulla ci è pervenuto. Comprensibilmente
assai arduo è dunque tentare di ricostruire questo tipo di realtà
sonore, affidate per lo più all’improvvisazione.
Tempo della parola
Dal punto di vista dello stile di canto e dei rapporti che è possibile
registrare sotto questo profilo tra voce cantata e parola, il repertorio della
monodia liturgica cristiana presenta un’ampia varietà di comportamenti
ai cui estremi si collocano, da una parte, la semplice recitazione
intonata con prevalente insistenza su un solo suono; dall’altra,
l’ampio vocalizzo melismatico. Rientrano
nella prima categoria tutte le formule di declamazione intonata con cui il
celebrante e gli altri ministranti recitano alcune parti della messa
e dell’ufficio delle ore (orazioni,
Pater noster, letture, epistole, vangeli). Anche la salmodia
(canto dei salmi), pur con un’articolazione e una formularità
diverse, prevede l’intonazione sillabica - e il soffermarsi su una ‘corda
di recita’ - dei salmi e dei cantici della Bibbia da parte del celebrante
ed eventualmente della comunità. Sono invece vocalizzi melismatici
quei canti in cui moltissimi suoni si succedono appoggiandosi ad una sola
vocale Così avviene ad esempio nell’acclamazione alleluiatica,
utilizzando l’ultima vocale della parola alleluia. Una celebre descrizione
dell’antica usanza dello jubilus è riportata anche da Sant’Agostino
(354-430). Qui la musica si effonde sì a partire da un testo, ma sono
le articolate, spesso virtuosistiche volute della voce ad assumersi il compito
di esprimere la gioia della lode a Dio. Il tempo scandito dall’eloquio
è dunque fermo e può crearsi, grazie al canto, uno spazio di
meditazione estatica. Tra questi estremi si colloca la maggior parte dei canti
che costituiscono il repertorio destinato all’Ufficio delle ore e alla
Messa (antifone, graduali, tratti, responsori ecc.), che presentano dunque
al loro interno soluzioni sillabiche o semisillabiche (ovvero neumatiche:
ogni sillaba si associa rispettivamente ad un suono o a un piccolo gruppo
di suoni, espressi con un solo segno grafico detto neuma), oppure melismatiche.
L’incontro di musica e testo verbale avviene nel segno di un rapporto
di dipendenza di quella da questo: la voce cantata ne amplifica la dimensione
fonica (il testo si percepisce più facilmente), rituale (gli viene
conferita maggiore sacralità e autorevolezza), melodica (il latino
altomedievale ha ormai sostituito al sistema delle sillabe brevi e lunghe,
proprio dell’epoca classica, un sistema di altezze corrispondenti all’accentuazione
moderna). Inoltre, anche in ragione del fatto che il testo liturgico si presenta
in prosa, non v’è luogo al costituirsi di forme chiuse: l’articolazione
di questi canti, in altre parole, non è segmentabile in strutture periodiche.
E’ questa invece una caratteristica dell’innodia
ambrosiana; o, successivamente, di alcuni tropi
e soprattutto delle sequenze, forme nuove in
cui si espresse, in ambito liturgico, la spinta creativa e innovativa del
dominio carolingio (IX secolo). Solo grazie alla molteplicità di esperienze
poetiche e musicali maturate in ambito sacro e profano dalla lirica mediolatina
sarà possibile spiegare il raffinato fiorire delle civiltà poetico-musicali
legate alle lingue nazionali, di cui ci occuperemo nei successivi paragrafi.
Musica e poesia alle origini delle letterature nazionali
Il binomio musica-poesia ha goduto a lungo di una posizione di privilegio
assoluto nella considerazione dei teorici. Tale privilegio ha più o
meno consapevolmente riposato sulla valorizzazione degli elementi comuni necessari
all’estrinsecarsi delle due “arti sorelle” (tempo, ascolto,
memoria), sia - in particolare per quanto concerne proprio le letterature
neolatine – dell’originaria condivisione del numerus,
ovvero di una “scansione ritmica nella quale valori quantitativi e accenti
si alternano con regolarità e seguendo determinati principi”
(Petrobelli 1986, p. 229). Alle origini della storia della letteratura europea,
la validità di questa simbiosi è confermata dalla prassi seguita
dai poeti delle civiltà trovadorica (dalla
fine del secolo IX alla fine del XIII) e trovierica
(secoli XI-XIV): il poeta, oltre ad essere autore del testo, inventava (trovava)
anche la melodia sulla quale intonarlo. Basterebbero nomi quali canso
o chanson, utilizzati nelle rispettive
lingue per indicare il principale filone di organizzazione poetico-musicale,
a testimoniare questo stretto legame.
Quanto alla letteratura italiana, accreditate teorie la vorrebbero nata invece
sotto il segno del “divorzio” tra poesia e musica (Roncaglia 1978).
Senza riaffrontare in questa sede la controversa questione (nella prospettiva
musicologica, a partire da Pirrotta 1980, mancano argomenti per ipotizzare
uno strappo così netto e tale divorzio andrebbe perlomeno posticipato),
ci limiteremo a notare come l’onomastica delle principali forme in cui
si espresse la lirica italiana delle origini (“sonetto”, “canzone”,
“ballata”) documenti un rapporto ancora strettissimo con la musica;
e come interi filoni di poesia italiana – pur essendo fruibili anche
secondo una modalità di esecuzione recitata – trovino la loro
più completa realizzazione attraverso la veicolazione della musica,
monodica (lauda) o polifonica (caccia,
ballata, madrigale antico, frottola), e in taluni casi attraverso il
suo concorso interpretativo ed espressivo (madrigale
rinascimentale).
Forme della poesia, forme della musica
Pur consapevoli del fatto che non è possibile imbrigliarne la varietà
in pochi e rigidi schemi formali, con questo paragrafo ci proponiamo un brevissimo
excursus storico sui principali generi antichi di musica vocale non liturgica,
monodica e polifonica, la cui articolazione formale sia segmentabile in strutture
periodiche (strofi, strofi
e ritornello ecc.). Tale articolazione, che si impronta fin dalle origini
ad un principio generale di economia combinato alla necessità di corrispondenza
con l’assetto formale della componente poetica, si basa di solito sulla
varia combinazione di due soli episodi musicali. La CANSO trovadorica prevede
ad esempio che ogni strofa (cobla) si serva del primo episodio (A) per le
prime due coppie di versi (pedes) e della seconda (B) per i due o tre versi
conclusivi (cauda): ogni cobla presenta dunque lo schema musicale AAB. Il
medesimo principio, passando alle tre forme fisse in cui venne organizzandosi
il genere della CHANSON* in area trovierica, governa la struttura della ballade,
mentre sono più articolati gli schemi del virelai
(ABBAA) e del rondeau (AB AA AB AB).
E’ in particolare con l’avvento della polifonia e della musica
mensurabilis, ossia con la determinazione precisa del valore di una
nota in rapporto alle altre, che la dimensione temporale della musica può
assumere caratteristiche più incisive, più marcate e relativamente
autonome rispetto all’andamento del testo. Ciò che si riflette
anche nella struttura strofica dei generi frequentati dalla trecentesca ars
nova italiana come nel madrigale),
la caccia, la ballata)
e, oltre un secolo più tardi, dai frottolisti delle corti padane tardoquattrocerntesche.
In tutti questi casi, con parziale eccezione per la caccia, il rapporto tra
testo e musica è di natura squisitamente metrico-ritmica: ai segmenti
del testo poetico (terzine + distico o distici nel madrigale; ripresa + piedi
+ volta nella ballata) si applicano sempre due sole sezioni musicali A e B
(rispettivamente secondo gli schemi AAB per il madrigale e ABBAA per la ballata),
che a quelle si adattano in quanto ne rispettano il profilo sillabico-accentuativo.
Nessuna particolare collaborazione – se si eccettua la generale atmosfera
data dallo stacco ritmico, dall’ambito modale-scalare ecc. - può
scaturire invece con la sfera dei contenuti, giacché un medesimo modulo
musicale deve adattarsi a porzioni di testo diverse. La struttura internamente
più libera della strofe della caccia e, d’altra parte, il suo
contenuto vivace e realistico, con corredo di grida e richiami (descrive infatti
scene venatorie, piscatorie, incendi ecc.), consentono un più fruttuoso
incontro di suono e immagine. La concitazione della situazione rappresentata
si enfatizza ulteriormente nella struttura imitativa dell’intonazione
musicale: delle tre voci impegnate, le due superiori si “rincorrono”
(di qui il termine “caccia”, o anticamente anche “fuga”),
ovvero la seconda intona la medesima melodia della prima, iniziando però
a una determinata distanza di tempo.
Con il titolo collettivo di frottola
ci è stato tramandato un ampio repertorio poetico-musicale polifonico,
in voga specificamente negli ambienti delle corti italiane settentrionali
(Ferrara, Mantova, Urbino) e in parte del Veneto nel tardo Quattrocento e
nei primi del Cinquecento, caratterizzato da semplicità e chiarezza
strutturale: la stratificazione polifonica vede ovunque la predominanza della
voce superiore e assegna alle altre, che procedono in modo sostanzialmente
omoritmico, la funzione di sostegno armonico. Alla civiltà musicale
fiorentina della medesima epoca appartengono i canti
carnacialeschi, canzoni a ballo (ossia ballate di ottonari) a 3 o 4
voci dalla struttura poetico-musicale analoga a quella appena descritta. Numerosi
indizi portano oggi a ritenere che il repertorio frottolistico, così
distante dalle complessità contrappuntistiche proprie della coeva scrittura
musicale delle MESSE* e dei MOTTETTI* dei maestri franco-fiamminghi, ma anche
dallo stile imitativo della CHANSON francese*, si configuri quale possibile
esito della prassi dell’intonazione umanistica a voce sola – pur
da quella differenziandosi per la natura di prodotto finito, di vera e propria
composizione - e ne consenta per certi aspetti il parziale recupero.
Peraltro, sono osservabili qui, nell’impiego di generi metrici quali
lo strambotto o la canzone a ballo e nelle relative forme di intonazione musicale,
anche tracce di contaminazione con la sfera del popolare. Anche nel Cinquecento,
alla civiltà aulica del madrigale di cui ci apprestiamo a trattare
nel prossimo paragrafo si affianca – ad opera per lo più dei
medesimi madrigalisti – una ricca produzione di canzoni
alla villanesca, villotte, villanelle greghesche, giustiniane, mascherate
e generi simili, accomunati dalla struttura strofica, dall’intonazione
sillabica del testo, con cesura musicale in fine di verso, dalla polifonia
semplice e destinata ad un numero ristretto di voci, dal frequente ricorso
al dialetto o a “diversi linguaggi” espressionisticamente elaborati
in funzione antiaccademica.
Una lettura musicale della poesia: il madrigale rinascimentale
Datano tra il 1520 e il 1540 le prime redazioni manoscritte di un nuovo genere
musicale, il madrigale, che per il resto
del secolo XVI e i primissimi decenni del successivo avrebbe egemonizzato
la produzione di musica vocale profana italiana di ambito aulico, conoscendo
peraltro una singolare fortuna anche all’estero. Nel secolo precedente,
l’arte polifonica franco-fiamminga aveva messo a punto, tra le altre,
tecniche di descrizione e di potenziamento del senso del testo tramite mezzi
musicali. Queste possibilità venivano adesso a incrociarsi con nuove
sollecitazioni provenienti dal mondo letterario: nelle sue “Prose della
volgar lingua” (1525), Pietro Bembo aveva sottolineato l’importanza
imprescindibile dell’effetto sonoro del testo sulla sua significazione
complessiva, individuando in Petrarca il modello per eccellenza di scrittura
poetica. Si affermò quindi il madrigale poetico,
derivante probabilmente dall’evoluzione della singola stanza di canzone
e dunque diverso dall’omonimo metro trecentesco perché privo
di una struttura predefinita.
Libertà compositiva e gusto del suono trovano piena realizzazione nell’intonazione
musicale, tesa ora a stabilire un rapporto esclusivo con la parola: la componente
musicale, non più articolata in strofe simmetriche, non è più
dunque semplice veicolo di trasmissione di un testo verbale ad esso sostanzialmente
indifferente, ma se ne fa interprete. La composizione procede attraverso una
lettura musicale del testo che, tenendo sempre nel conto il ritmo del verso,
si preoccupa soprattutto del significato delle parole. E’ quest’ultimo
che la scrittura musicale madrigalistica intende sottolineare e amplificare
con i mezzi di significazione che le sono propri e tramite i quali le è
possibile rappresentare le nette opposizioni di senso (piacere/dolore; vita/morte/;
chiaro/scuro ecc.) proprie di quei testi. Anche all’aspetto iconico
della scrittura musicale si affida un compito descrittivo (ad es.: uso di
note bianche in rapporto a situazioni di purezza, candore, chiarore e, per
contro, di note nere in riferimento a oscurità, notte ecc.). Pur priva
di un esito fonico pertinente, questa prassi si giustifica sociologicamente
per.la sostanziale coincidenza delle figure dell’interprete e del fruitore:
il canto dei madrigali è pratica cortigiana, laddove il principe è
spesso committente e dunque egli stesso artefice dell’incontro di poesia
e musica. Più raramente – come nel caso del “concerto delle
dame” presso la corte di Ferrara - l’intonazione dei madrigali
è oggetto di esecuzione per un pubblico di ascoltatori.
Per sole voci
A partire dalla fine del Cinquecento, con l’avvento del basso
continuo (v. tonalità)
e l’affinamento della sensibilità armonica
, la musica colta europea continuò a coltivare il canto per
sole voci (senza cioè parti scritte appositamente per organico strumentale),
soprattutto nell’ambito delle formazioni corali. Modello autorevole
di conservazione della tradizione del canto polifonico cattolico fu la Cappella
Sistina, fondata da Sisto IV nel 1473 e per la quale, anche in epoca di scrittura
concertante, si continuarono a comporre Messe e Mottetti secondo il cosiddetto
stile romano o alla Palestrina: quattro parti
vocali (SATB, cioè soprano, alto (contralto), tenore, basso, v. voce)
tessitura contrappuntistica (v. CONTRAPPUNTO*), struttura armonica consonante.
(Ciò che non escludeva, come si è gia avuto modo di osservare
in altri casi, la possibilità di impiego di strumenti in funzione di
raddoppio).
In ambito luterano, i corali (ma nella lingua
d’origine il termine corretto è kirchenlieder,
ovvero ‘canti di chiesa’) presuppongono la partecipazione al canto
della comunità dei fedeli e si basano su un repertorio di melodie vocali
- in taluni casi composte ex novo, da Lutero o da compositori da questi incaricati,
in altri appartenenti al repertorio folclorico tradizionale – per testi
poetici sacri. Caratterizzate dall’incedere sillabico e da una fraseologia
regolare, che evidenzia con cesure la divisione in versi, tali melodie risultano
sottoposte ad un semplice trattamento polifonico, consistente in una scrittura
a quattro voci (di cui esse costituiscono quella superiore) di prevalente
andamento omoritmico. La rilevanza sociale delle società corali nei
territori di lingua tedesca, unita all’importanza attribuita al cantare
in coro nell’educazione musicale, fanno sì che la tradizione
del canto a sole voci si perpetui anche in ambito profano, sia pure in misura
decisamente minoritaria rispetto a soluzioni miste di voci e strumenti, testimoniata
nell’Ottocento dalla frequentazione di Lieder, canoni, rielaborazioni
di Volkslieder, madrigali, ballate corali e altro.
Il Novecento conosce un nuovo generale interesse nei confronti della compagine
polifonica esclusivamente vocale. In ambito polifonico si è indicato
con i termini di ‘neomadrigalismo’ e di ‘neomottettismo’,
pur di discutibile pertinenza semantica, il rinnovato ricorso ad una scrittura
polifonica esclusivamente vocale con impiego di tecniche contrappuntistiche,
più espressionistica e vicina ai modi del madrigale dialogico tardocinquecentesco
nel primo caso, più composta e severa nel secondo. (MDS)
riferimenti Bibliografici
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F. Alberto Gallo, Dal Duecento al Quattrocento, in Letteratura italiana, VI,
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Francesco Luisi, La musica vocale nel rinascimento. Studi sulla musica vocale
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Il madrigale tra Cinque e Seicento, a cura di Paolo Fabbri, Bologna, Il Mulino,
1988
Pierluigi Petrobelli, Poesia e Musica, in Letteratura italiana, VI, Teatro,
musica, tradizione dei classici, Torino, Einaudi, 1986, pp. 229-244
Nino Pirrotta, I poeti della scuola siciliana e la musica, “Yearbook
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Nino Pirrotta, Poesia e musica e altri saggi, Firenze, La Nuova Italia, 1995
Aurelio Roncaglia, Sul “divorzio tra musica e poesia” nel Duecento
italiano, in L’Ars nova italiana del Trecento. IV. Atti del 3° Congresso
internazionale sul tema “La musica al tempo di Giovanni Boccaccio e
i suoi rapporti con la letteratura”, Certaldo, 1978, pp. 365-397