Musica scenica



L’etichetta cumulativa "musica scenica", vale a dire musica per il teatro (teatro in musica e teatro con musica), abbraccia molti generi e repertori. L’opera, principalmente, e tutti i suoi derivati. Ma anche le musiche di scena, ossia quelle composizioni pensate come ’colonna sonora’ di drammi recitati. A rigore anche il balletto, che merita una trattazione a parte.

Prima di delineare storicamente le tappe peculiari dell’evoluzione del teatro musicale, poniamo alcune considerazioni preliminari sul teatro in musica. A proposito, per esempio, del fatto che chi agisce sul palco non parli ma canti. Circostanza assolutamente innaturale: tale, in effetti, pareva ai primi fruitori dell’opera, che tuttavia la tolleravano perché a esprimersi così erano dei, semidei, pastori, creature di una felice età aurea, mitica e lontanissima; con il tempo, tuttavia, l’inverosimiglianza si convertì in abitudine, e non stupì troppo neppure sentir cantare personaggi della storia o della contemporaneità. O a proposito del rapporto dell’opera con lo scorrere del tempo: il testo cantato, difatti, procede molto più a rilento di un testo recitato, cosicché mentre in genere il dramma di parola ha un andamento continuo, l’opera in musica è invece discontinua. Ma anche simultanea, giacché è capace di sovrapporre tante voci senza, per questo, impedire la comprensione degli eventi all’ascoltatore. E ciò perché la drammaturgia che regola questo teatro poggia su principi essenzialmente musicali: l’originalità del plot, la pregnanza scenica delle situazioni, il ricorso all’azione, alla gestualità, al ragionamento, al dialogo, altrove fondamentali, qui stanno invece in posizione subalterna.

Indice

L’opera prima dell’opera
Teatro musicale nel Seicento
Il Settecento
L’Ottocento
Il Novecento



L’opera prima dell’opera



E’ noto che la tragedia greca non veniva soltanto recitata, o perlomeno non esclusivamente. Attori e coro, infatti, si esprimevano perlopiù in una sorta di declamazione intonata difficile oggi da immaginare. Ai personaggi sul palco (tutti interpretati da uomini) erano affidati monodie, duetti, terzetti. I coreuti dispiegavano il loro canto al momento dell’ingresso in orchestra ("parodo"), tra gli atti ("stasimi"), all’uscita ("esodo"). Dapprima tali interventi si caratterizzavano per la forte tensione emotiva, in seguito assunsero tono più lirico, svincolandosi dal resto dell’azione. Di quella musica, di cui erano autori gli stessi tragediografi, a noi resta soltanto un lacerto papiraceo, di epoca posteriore nonché di problematica decifrazione, proveniente dall’Oreste di Euripide. Tuttavia, possediamo una ricca serie di testimonianze letterarie. Alcune di carattere decisamente aneddotico: per esempio quella che racconta di come il canto delle Furie nelle Eumenidi di Eschilo producesse un effetto così spaventoso da far cadere in convulsioni per lo spavento i bambini che assistevano allo spettacolo. Altre ci aiutano a comprendere funzione e specificità della musica nel teatro greco dell’epoca di Eschilo, Sofocle, Euripide. Del primo (525-456 a. C.) conosciamo la severità dello stile, ottenuta attraverso la ripetizione di medesimi schemi ritmico-melodici perlopiù accompagnati dalla cetra. Sofocle (496-405 a. C.), ammirato dai contemporanei per la dolcezza delle sue melodie, portò il numero dei coreuti da dodici a quindici, introducendo anche più suonatori nell’orchestra tragica. Le innovazioni maggiori si ebbero però con Euripide (482?-406 a. C.), che inserì nelle sue tragedie vere e proprie arie virtuosistiche, perfino di tono popolare o esotico, al fine di ottenere il massimo coinvolgimento emozionale del pubblico. Ciò suscitò il biasimo di molti, tra cui il mordace Aristofane. Nella commedia, invece, solo di quando in quando agli attori era richiesto di cantare - e al coro esclusivamente negli intermezzi fra gli atti.

Anche nel teatro romano dialoghi parlati si alternavano a sezioni cantate non sempre di gusto sorvegliato. Come si ricava da un passo del dialogo di Luciano Sulla danza (ca. 165 d. C.) dove viene descritto un attore da tragedia: "Urla, si piega avanti e indietro, a volte canta addirittura le sue battute, rendendo melodiche le sue sventure (il che è certamente il colmo dell’indecenza) [...]. A dire il vero, fino a che interpreta un’Andromaca o un’Ecuba il suo canto si può anche tollerare; ma quando finge di essere Ercole in persona, e gorgheggia una canzonetta [...], un uomo equilibrato può veramente giudicarla una cosa sconveniente". Riguardo al coro, non è ancora chiarito se esso partecipasse o meno alle tragedie, e che in misura. Di sicuro, comunque, a esibirsi tra gli atti delle commedie era spesso un’orchestra numerosa e fragorosa. Tibie, cetre, zampogne, strumenti a percussione, e perfino voci, costituivano l’organico d’accompagnamento a mimo e pantomimo, generi spettacolari affermatisi nel I secolo a. C., sovente con donne protagoniste.

La polemica cristiana contro il teatro, condannato in quanto luogo del falso istituzionalizzato, trionfo della corporeità e perciò di libidine e sfrenatezza sessuale (risale a quest’epoca l’equiparazione attrice = meretrice, dura a morire) conduce, a partire dal V secolo, all’eclissi della teatralità in senso proprio. Ma non della spettacolarità, intesa come pratica performativa ad ampio raggio geografico, sociale, culturale, che trova alimento in mille occasioni festive, pubbliche o private. Ciò detto, appare dunque alquanto singolare che la rinascita medievale del teatro sia ascrivibile proprio alla Chiesa, essendo infatti avvenuta all’interno dell’ufficio sacro. L’atto di nascita di quel che poi verrà comunemente chiamato dramma liturgico (denominazione tuttavia molto contestata, giacché queste rappresentazioni non si svolgevano durante la messa: ecco perché forse sarebbe più opportuno parlare di "dramma ecclesiastico") è ravvisabile nel Quem quaeritis attribuito al monaco Tutilone e tramandato da due manoscritti del X secolo: due brevi battute scambiate tra l’angelo e le pie donne presso il sepolcro di Cristo ormai vuoto. Si tratta di un tropo, ovverosia di un testo cantato aggiunto alla liturgia tradizionale, da eseguirsi durante la processione introduttiva alla messa di Pasqua. La visita dei Magi a Gesù, la strage degli innocenti, l’Ascensione, i miracoli dei santi e diversi altri episodi di storia sacra vennero adattati allo stesso modo. Via via il dramma liturgico ampliò la propria durata, arrivando ad accogliere diversi personaggi e scene di realismo comico. Finché uscito da monasteri e chiese, sostituito al latino il volgare, svolgendo soggetti epici e di leggende popolari assieme a quelli biblici e agiografici, non trovò posto nelle piazze di fronte a folle eterogenee di spettatori. Presero così a svilupparsi, dalla prima metà del XIII secolo e in certi casi fino a pieno Cinquecento, miracles e passioni in Francia (terra di origine del troviere Adam de la Halle, autore del primo esempio noto di teatro profano in musica, lo Jeu de Robin et de Marion, rappresentato alla corte napoletana nel 1283 o 1284, in cui sezioni parlate si alternano a brani cantati le cui melodie popolaresche potrebbero essere semplici citazione di canzoni preesistenti), autosacramentales in Spagna, miracle plays e morality plays in Inghilterra, spettacoli a scena multipla con i luoghi deputati sovente rappresentati in più giornate. In essi vi era molta musica di scena: melodie gregoriane, pezzi polifonici, danze, canzoni popolari, pagine strumentali, speciali effetti acustici in relazione a determinati personaggi o situazioni. Pressappoco i medesimi caratteri musicali, benché probabilmente con prevalenza maggiore di declamazione intonata, possedeva pure la sacra rappresentazione italiana (erede della lauda drammatica due-trecentesca), la cui massima fioritura poetica e scenotecnica si realizzò nella Firenze di Lorenzo il Magnifico.

Il recupero del teatro classico a opera degli umanisti tardoquattrocenteschi condusse al riallestimento scenico di quei testi e, a partire dalla Cassaria di Ludovico Ariosto (Ferrara 1508), alla loro imitazione-ricreazione in chiave moderna. Larga fortuna godette in specie il genere comico. Tra gli atti, in sostituzione dei cori antichi, vi vennero collocati intermedi di varia natura, perlopiù di soggetto mitologico o allegorico. Alcuni mimati o danzati, in genere denominati moresche; altri affidati a voci soliste oppure, in conseguenza della voga madrigalistica che impazzò per tutto il sedicesimo secolo, eseguiti da ensembles vocali (spesso sostenuti da strumenti); altri ancora, infine, veri e propri spettacoli della meraviglia alle cui definizione concorrevano azione, parola, canto, movimenti coreografici, effetti speciali, costumi lussuosi, persino profumi. Quest’ultima tipologia di intermedi era prediletta dalle grandi corti rinascimentali italiane, dalle quali veniva approntata in occasione di festeggiamenti dinastici e diplomatici di particolare rilievo. Ne furono campioni i Medici: memorabili gli intermedi alla Pellegrina, la commedia di Girolamo Bargagli messa su nel 1589 per il matrimonio di Ferdinando de’ Medici con Cristina di Lorena. Episodio spettacolare altrettanto ragguardevole, nei medesimi anni seppure in altro ambito, la messinscena dell’Edipo re di Sofocle a Vicenza per l’apertura del Teatro Olimpico (1585): i cori della tragedia, in traduzione italiana, portavano la musica di Andrea Gabrieli che con il suo assetto omoritmico assicurava la piena intelligibilità del testo. Genere specificamente cinquecentesco fu la favola pastorale, azione di soggetto amoroso ambientata in selve idilliache e campi ameni che vede protagonisti pastori, ninfe, divinità silvane propense al canto e al ballo.

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Teatro musicale nel Seicento


Pastorale e intermedi vengono considerati precursori diretti del melodramma, ’invenzione’ fiorentina che nella decisa presa di posizione in favore del valore espressivo della monodia, nella riflessione sulla musica degli antichi portata avanti negli ultimi decenni del Cinquecento dal circolo intellettuale ("camerata") riunitosi attorno al conte Giovanni Bardi, trova la sua armatura teorica di riferimento. Atto di nascita ufficiale dell’opera è l’Euridice di Ottavio Rinuccini con la musica di Jacopo Peri - e in minima parte di Giulio Caccini, che a tempo di record ne preparò pure una versione a stampa tutta sua per contendere al rivale-collega la paternità del nuovo genere - rappresentata durante i festeggiamenti nuziali per Maria de’ Medici ed Enrico IV di Francia (Firenze, Palazzo Pitti, 6 ottobre 1600). Vi si impiega, come annota Peri nella prefazione della partitura, una maniera di canto solistico a mezzo fra il parlare ordinario e il cantare vero e proprio: ciò che appunto veniva detto allora "stile rappresentativo", recitar cantando, ossia una linea vocale che, con studiata scioltezza d’eloquio e libertà formale, secondata da un accompagnamento piuttosto discreto (il basso continuo) asseconda l’andamento naturale della parola, le inflessioni e gli accenti dei versi, accrescendone la naturale musicalità e facendone vibrare gli "affetti" più riposti. Prevalenti nelle prime opere, queste parti ritmicamente libere divennero presto fastidiose, spingendo molti a deprecare il "tedio del recitativo". A metà secolo arie e duetti vaporosi, squadrati nel passo metrico come definiti nel profilo melodico, avevano tuttavia già preso il sopravvento sulla declamazione delle origini. A condurre a questo esito aveva contribuito il talento teatrale di Claudio Monteverdi, pervenuto con l’Orfeo (Mantova, 1607) a una sintesi magistrale tra opulenza scenica e strumentale degli intermedi, stile madrigalistico di fine Cinquecento, recitar cantando fiorentino. Inoltre un apporto importante alla strutturazione formale e melica dell’aria (dalla sagoma suadente e riconoscibile, fatta di versi misurati, musicalmente autosufficiente in quanto costruita su scrupolosi rapporti tonali e perciò pezzo chiuso slegato dai recitativi che la attorniano) era arrivato dalle opere patrocinate a Roma dalla famiglia Barberini a partire dal 1632, sovente su testi confezionati dal pistoiese Giulio Rospigliosi, futuro papa Clemente IX. I romani scrivevano anche commedie musicali, cominciando perdipiù a inserire scenette comiche in drammi seri - il che sarà poi una costante degli intrecci d’opera barocchi. Proprio in quest’ambito ha inizio la mutazione del recitar cantando in recitativo secco: ossia un discorrere frenetico, marcato, sviluppato entro un’estensione limitata, con frequenti note ribattute e pochi accordi di sostegno che sostituisce la monodia quasi melodica fiorentina. Nel corso del Seicento la distinzione tra recitativi (momenti di avanzamento dell’azione, nella libera alternanza di endecasillabi e settenari) e arie (riflessioni introspettive di un personaggio nel corso delle quali il flusso del tempo sulla scena si interrompe, v. aria) si farà sempre più marcata, giungendo a fine secolo alla definitiva cristallizzazione. Le arie, cuore musicale delle partiture su cui si catalizzerà l’interesse dell’uditorio, assumeranno tratti emotivi e tecnico-musicali sempre più stereotipati. Nel Settecento se ne ascolteranno di sentimento, di carattere, di mezzo carattere, di bravura, di agilità, di portamento, cantabili, parlanti, declamate, spianate. E ancora, in base alla funzione nel contesto drammatico o alla situazione rappresentata: di pazzia, di sdegno, infuriate, con catene, del sonno, di sortita di seconda parte o di sorbetto (affidata a personaggio di minor rilievo, durante la performance dei quali era uso mangiare gelati). Infine le arie di baule, quelle che i virtuosi si facevano confezionare su misura, portandosele poi sempre appresso, per sostituirle all’occorrenza, o secondo il proprio capriccio, a quelle previste dal compositore.

Nata come intrattenimento cortigiano d’èlite, nella Venezia del 1637 l’opera in musica approda nei teatri a pagamento. Divenendo impresa commerciale e dovendo adattarsi a ritmi di produzione forsennati, rinuncia in pratica ai cori, costosi oltre misura almeno rispetto alla scarsa considerazione che suscitano nel pubblico, per puntare piuttosto all’accrescimento di tutto quanto può far spettacolo: dunque scenografia, macchinistica, ma soprattutto virtuosismo canoro, condotto dalle ugole ampie, atletiche, potenti e assai estese dei castrati a esiti sovrumani nelle loro fantasmagoriche arie solistiche. Il puntare tutto sulla messinscena e sulla funambolismo delle voci va ovviamente a scapito della qualità poetica dei libretti, incoerenti e ripetivi sul piano narrativo. Sui palcoscenici veneziani accanto a soggetti mitologici e pastorali fanno la loro prima comparsa anche temi storici (capostipite L’incoronazione di Poppea di Monteverdi, 1642), mentre le arie privilegeranno accompagnamenti strumentali via via più sostanziosi che in passato, pur rimanendo comunque soggetti alle esigenze della linea melodica.

In gran parte d’Europa l’opera italiana coabita con (o si innesta su) floride tradizioni autoctone di teatro musicale - spesso pure di drammi parlati, nei quali peraltro non era insolita l’inserzione di numeri musicali. Come in Shakespeare. E prendiamo difatti l’Inghilterra, dove l’opera attecchì tra fine Seicento e metà Settecento, riscuotendo attenzione soprattutto dalla nobiltà. Generalmente però il pubblico più vasto prediligeva forme spettacolari ibride, fatte di dialoghi recitati, danze, musica strumentale, songs popolareschi quali il masque allegorico-pastorale (che toccò il suo apogeo all’epoca di Giacomo I e Carlo I, 1603-49), la balad opera settecentesca (che determinerà il declino dell’astro händeliano), a fine ottocento le savoy operas di Gilbert e Sullivan, fino al musical.

In Germania l’opera fiorentina viene importata nel 1627 da Heinrich Schütz, che aveva studiato in Italia. Il nuovo genere prospera nelle corti, mentre i teatri a pagamento si appassionano di piéces dialogate con musica. La sola eccezione è l’Opera di Amburgo, tra il 1678 e il 1738 fucina di uno stile autenticamente germanico che purtroppo però, sul momento, non avrà modo di maturare a dovere: i testi, in lingua tedesca, benché non di rado traduzioni dall’italiano, vi venivano musicati per intero; ampio spazio era lasciato all’elemento comico, che talvolta rasentava la volgarità; semplici le arie di natura liederistica e di facile assimilazione. Assoluta originalità di lineamenti presenta l’opera francese coeva - e questa orgogliosa diversità rispetto a ogni altra tradizione musicale rimarrà un tratto costante della sua storia. Nella Parigi di metà Seicento dal trapianto di moduli drammaturgici e musicali italiani sulla tradizione nazionale delle mascherate, del ballet de cour, delle comédies-ballets (celeberrimi i frutti della collaborazione fra Molière e Lully, tra cui Le Bourgeois gentilhomme, "Il borghese gentiluomo"), nonché della tragedia di Corneille e Racine, prende vita la tragédie en musique. Artefici, il poeta Philippe Quinault e il compositore di origine fiorentina Jean-Baptiste Lully (1632-87). Caratteri peculiari di tale genere, che attraverso la Académie Royale de Musique godeva del patrocinio regio, sono l’assoluta centralità del testo letterario necessariamente in lingua francese, la nobile imponenza di uno spettacolo assai curato (anche perché se ne produceva uno solo all’anno) che profonde danze, cori e tableaux vivants in gran copia, il rilievo drammatico e coloristico dell’orchestra (affidataria di un’introduzione orchestrale, ouverture, nella forma standard adagio-allegro), un recitativo pervasivo modellato sulla prosodia francese, prendendo a esempio la dizione degli attori della Comédie-Française, che solo di tanto in tanto si stempera in periodi ariosi o in arie, le quali però sono affatto diverse dalle italiane per via della brevità, del fraseggio irregolare, del limitato ricorso a passaggi virtuosistici.

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Il Settecento


La tradizione della tragédie-lyrique fu continuata da Jean-Philippe Rameau (1683-1764) e profondamente rinnovata dal tedesco Christoph Willibald Gluck (1714-87) secondo i principi che informano anche la sua precedente riforma dell’opera italiana, come diremo più oltre. In Italia, fu quello veneziano il modello d’opera che si diffuse a macchia d’olio nel resto della penisola (a Napoli darà vita a una fulgida tradizione di lunga durata: dapprima locale, in seguito di respiro internazionale) e all’estero, dapprima nelle corti poi nelle sale pubbliche, dove l’idioma italiano (nel senso di lingua vera e propria, ma pure di codice drammaturgico, di scrittura musicale e di concezione delle vocalità) resterà in vigore, sia pur di frequente aggredito, contestato, combattuto, fino al Romanticismo. Si pensi a Georg Friedrich Händel (1685-1759), autore di opere serie tutte in lingua italiana, nonostante la nascita tedesca e l’impiego inglese; o al salisburghese Wolfgang Amadeus Mozart (1756-1791) che porta a compimento il tragitto dell’opera italiana del Settecento, seria e buffa, integrandone la peculiare vocalità nel sinfonismo viennese maturo. D’altronde è proprio in quest’epoca che ha inizio l’uso tuttora in vigore di scrivere le indicazioni di agogica e dinamica musicale nella nostra lingua (a tempo, allegro, adagio, piano, forte, ecc.).

Si deve ad Alessandro Scarlatti (1660-1725), che va considerato come il vero iniziatore della scuola napoletana del Settecento, il consolidamento delle tre principali innovazioni stilistico-formali dell’opera italiana di quell’epoca: lo schema allegro-adagio-allegro della sinfonia introduttiva (di cui si approprierà poi la musica strumentale), l’adozione dell’aria con il da capo (struttura a-b-a’, dove a’ è la ripresa variata in termini bravuristici della prima sezione, v. aria), del recitativo accompagnato (sorretto dall’orchestra, anziché dal solo basso continuo come in quello secco). Da qui in avanti Napoli assurge, nella penisola, a baricentro produttivo teatrale, al contempo irradiando la sua musica e i suoi musicisti per ogni dove in Europa: tant’è che "opera napoletana" diviene sinonimo di opera italiana. Grazie ai libretti di Apostolo Zeno (1668-1750) e Pietro Metastasio (1698-1782), musicati decine e decine di volte nel corso del secolo, si attua entro i primi decenni del Settecento una effettiva divaricazione tra intrecci tragici (di soggetto classicheggiante) e comici.

Dopo questa fondamentale regolazione contenutistica e strutturale, l’opera seria settecentesca sarà fatta oggetto di altre riforme. Tra queste la più notevole fu quella compiuta dal poeta livornese Ranieri de’ Calzabigi in collaborazione con Gluck a partire da Orfeo ed Euridice (Vienna 1762). Le loro opere ’riformate’ mirano alla creazione di un organismo drammatico unitario dove la musica è funzionale al clima generale dell’azione: banditi il recitativo secco e le colorature vocali; coro e orchestra rivestono una funzione emozionale forte; si preferisce l’organizzazione formale per arcate ampie piuttosto che la frammentazione in pezzi chiusi; la sinfonia iniziale, fino ad allora considerata un brano strumentale indipendente, viene posta tematicamente in relazione con l’opera, e anzi vi si riversa dentro senza soluzione di continuità. Riguardo ai soggetti farseschi o quotidiani va ricordato come questi ultimi, confinati dapprima tra gli atti dell’opera seria in qualità di intermezzi (concepiti per cantanti-attori che non disdegnavano neppure di esprimersi in dialetto; tra di essi il più noto è La serva padrona di Giovanni Battista Pergolesi, 1733), acquistata in seguito una propria autonomia, diano origine all’opera buffa. Nella quale, in virtù delle definizione realistica dei personaggi, vengono a costituirsi tipi psicologici ben caratterizzati (i "ruoli") correlati alle voci di tenore, soprano, basso (a quest’ultimo sovente affidatario di versi da eseguirsi mitragliandone le sillabe a velocità sostenuta); e dalla quale a fine Settecento il repertorio serio mutuerà i brani d’assieme di fine atto, i cosiddetti concertati. E’ dall’esportazione degli intermezzi napoletani a Parigi tra il 1752 e il 1754, e dalla loro interazione con la tradizione locale di commedie con musica, che in Francia prende avvio una vera e propria opera comica nazionale, con dialoghi parlati in luogo dei recitativi secchi italiani: l’opéra-comique, vitale ancora a fine secolo, seppure molto modificata nello stile e perfino capace di interessarsi a soggetti tutt’altro che leggeri - tale è, per esempio, Carmen di Georges Bizet (1875). Peraltro nella Parigi del Secondo Impero (1852-70) crescerà dallo stesso troncone la frizzante satira sociale dell’opéra-bouffe di Jacques Offenbach (1819-80), che trasferitasi nell’impero asburgico e intingendosi nel sentimentalismo nostalgico farà nascere l’operetta viennese.

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L’Ottocento


Nella prima metà del secolo Parigi è la capitale europea dell’opera: in essa convergono diversi compositori stranieri che vi cercano la consacrazione internazionale; da essa prendono il volo titoli circolanti ovunque in Europa, non poco influenti sulla tradizione italiana (la quale è comunque totalmente autosufficiente sul piano produttivo) e sul nascente teatro musicale tedesco. Da fine anni Venti vi germina il grand-opéra: poderosa congiunzione di intrecci storici di carattere eroico ridotti allo stile del romanzo d’appendice per palati borghesi, grandiose scene spettacolari e corali, inserti coreografici, singolare predilezione per il color locale e per la ricchezza della veste strumentale, brillante atletismo vocale da sfoderare in pezzi solistici e d’assieme, nelle arie di coloratura e di passionalità drammatica, o magari da tenere a freno nelle ballate di gusto popolare. Tra gli iniziatori di questo genere, di cui diverrà campione Giacomo Meyerbeer (1791-1864), vi è Gioachino Rossini (1792-1868), emigrato in Francia al termine della sua carriera italiana, clamorosa sebbene poco più che decennale. Nelle sue opere non si discosta mai da una concezione classicistica di "bello ideale", inteso come proporzione armoniosa dell’opera d’arte nel suo insieme e nelle singole parti, dunque anche nella vocalità fiorita, piena e morbida. Per lui la musica è di per sé asemantica: acquista un determinato significato soltanto nel momento in cui la si lega a una certa situazione drammatica, tant’è che un motivo d’effetto comico nel Barbiere di Siviglia (1816) può essere impiegato, con risultati del tutto opposti, nel momento più tragico del coevo Otello. L’orchestra rossiniana cresce in esuberanza e in attività: emblematica l’abolizione del recitativo secco nell’opera seria in favore di quello accompagnato, nonché l’adozione del cosiddetto "crescendo", un procedimento che prevede il progressivo incremento di strumenti, di dinamica e di agogica nel punto culminante delle sue sinfonie introduttive e nei finali d’atto. Rossini inoltre è il codificatore delle convenzioni formali che governeranno l’opera italiana fino a verso il 1870 - la solita forma secondo la definizione che se ne darà a metà secolo. Quadripartito lo schema dominante nelle arie solistiche: scena - cantabile - tempo di mezzo - cabaletta; ovverosia, in altre parole: dialogo tra il protagonista e un comprimario - momento contemplativo, in tempo lento - accadimento imprevisto che richiama il personaggio alla realtà, all’azione - sezione in tempo veloce, dalla vocalità pirotecnica. Struttura simile ha pure il grande finale centrale, pagina clou di ogni opera, seria o buffa che sia, nella quale sono il coro e tutti i personaggi: coro introduttivo - tempo d’attacco (equivalente alla scena dell’aria solistica) - pezzo concertato (equivalente al cantabile) - tempo di mezzo - stretta (equivalente alla cabaletta).

Nell’Italia del dopo Rossini l’opera seria tende decisamente a prevalere sull’opera buffa, come si evince dai cataloghi di Vincenzo Bellini (1801-35), Gaetano Donizetti (1797-1848), Giuseppe Verdi (1813-1901), nei cui libretti penetrano soggetti romantici ricavati da Walter Scott, Byron, Schiller, Victor Hugo. Ne è tema dominante l’esaltazione del sentimento amoroso: amori perlopiù infelici, che si concludono in tragedia, impernianti sulle voci di soprano e tenore, per gli amanti, con un baritono come antagonista. Artefice di melodie eleganti, eteree, affusolate, da delibare nota dopo nota, Bellini è il primo italiano ad affermare con consapevolezza il suo ruolo di musicista-drammaturgo, anche attraverso la collaborazione strettissima instaurata con il librettista d’elezione Felice Romani; Donizetti, poi, importa nelle sue partiture lo strumentalismo viennese e le esperienze più recenti dell’opera francese. Verdi, grande uomo di teatro, è il dominatore assoluto delle scene italiane per cinquant’anni. Secondo la sua concezione drammaturgica il compositore è responsabile in tutto della riuscita dell’opera, sui cui deve vigilare dalla genesi del libretto (ed è noto come letteralmente torturasse i suoi poeti finché non gli fornivano un testo per lui soddisfacente) alla messinscena. A partire da Traviata (1853) Verdi comincia a pensare ai propri melodrammi come a insiemi unitari dove i singoli numeri vengano integrati in ampie campate architettoniche misurata sull’ampiezza di un intero atto o di gran parte d’esso: un procedimento già in vigore nel grand-opéra da cui anche Wagner verrà condizionato. I princìpi fondanti del teatro verdiano sono la rappresentazione realistica dell’uomo (l’"inventare il vero") e la concisione. Conta, cioè, la situazione, l’effetto drammatico subitaneo prodotto dalla musica; il cuore della scena va raggiunto presto, senza troppo perdersi in versificazioni lambiccate difficilmente afferrabili dall’uditorio, e tuttavia facendo emergere al momento opportuno una breve frase, una sola parola (la "parola scenica") che, stagliandosi chiara dalle ugole dei personaggi sul tappeto strumentale, fornisca immediatamente allo spettatore le coordinate dell’azione. Dall’amato Shakespeare e da Hugo apprende che il triviale, il grottesco, il comico possono ben stare accanto al tragico, e anzi farlo risaltare per contrasto, come accade in Macbeth (1847; revisione 1865) e Rigoletto (1851).

Il fenomeno più eclatante nella musica ottocentesca è certo l’emergere delle scuole nazionali. Il che determina, in ambito teatrale, la nascita di nuove drammaturgie nelle lingue locali (quella russa la più ragguardevole, di cui Modest Musorgskij, 1839-81, e Pëtr Il’ic Cajkovskij, 1840-93, incarnano le due contrapposte tendenze: l’uno, entro una visione di arcaica crudezza e fatalismo, l’attaccamento al popolo e alla terra; l’altro un’aristocratica eleganza di stampo occidentale), nonché l’emancipazione di generi fino allora considerati minori e popolari, quali l’opéra-comique e il consanguineo germanico singspiel, generatosi dall’interazione tra questa e il melologo, una rappresentazione teatrale in cui gli attori vengono accompagnati dall’orchestra o le si alternano. A favorire la crescita del Singspiel sono Mozart (Die Entführung aus dem Serail, "Il ratto dal serraglio", 1782; Die Zauberflöte, "Il flauto magico", 1781) e Fidelio di Beethoven (l’unico suo lavoro teatrale, più volte riveduto: 1805, 1806, 1814). Ma a decretarne la fortuna presso i romantici è soprattutto Der Freischütz ("Il franco cacciatore", 1821) di Weber, atto di nascita ufficiale dell’opera tedesca, avversa tanto al melodramma italiano quanto al grand-opèra francese. Peculiare di questo repertorio, che si serve ampiamente della forma popolareggiante del lied, è il sostanzioso spirito sinfonico che lo informa, l’idea di un’intima fusione con l’espressione poetica e, nelle trame, il forte legame con la natura, il ricorso a elementi fantastici, soprannaturali, leggendari. Al di là del teatro musicale, il contributo dei compositori tedeschi (Beethoven, Weber, Franz Schubert, Felix Mendelssohn-Bartholdy, Robert Schumann) ai palcoscenici nazionali va pure valutato sulla base del loro catalogo di musiche di scena per drammi parlati. Diverse ouvertures scritte per tali rappresentazioni godettero di tale fortuna da essere eseguite come pagine concertistiche autonome cui restava della funzione originaria soltanto il titolo (per esempio l’ouverture beethoveniana per l’Egmont di Goethe o quella mendelssohniana per il Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare). Da tale pratica prende origine una produzione di ouverture con programma letterario sotteso (antesignane di ciò che sarà poi il poema sinfonico) non legate a specifiche occasioni esterne.

L’opera tedesca raggiunge il suo apogeo con Richard Wagner (1813-1883), colui che più di chiunque altro ha influenzato la cultura musicale del secondo Ottocento e della prima metà del Novecento. Non solo. In questo ambito cronologico il wagnerismo si è imposto come tendenza estetico-culturale dirompente anche in letteratura, nella filosofia, nelle arti figurative, nello spettacolo, perfino nella politica. Per dire del linguaggio musicale: è fuor di dubbio che il suo dramma musicale Tristano e Isotta (1865) rappresenti un punto di svolta nella concezione dei rapporti armonici così come erano venuti configurandosi dall’età barocca in avanti. Quanto questa partitura abbia messo in crisi il sistema tonale (v. armonia), o meglio sia stata in grado di captare e fissare icasticamente in suoni una crisi già da tempo latente, lo attestano le numerosi interpretazioni (armoniche-drammaturgiche-psicologiche-filosofiche-simboliche) scatenate dal primo accordo che si sente nell’opera, il cosiddetto "accordo del Tristano". Per dire invece degli effetti sul costume e sulla fruizione dell’evento spettacolare, che diviene quasi rito mistico di natura iniziatica, da seguire in una sala completamente buia - a differenza che in passato, quando l’opera era svago mondano e a teatro si andava per cenare, giocare, far pubbliche relazioni, prestando solo di tanto in tanto orecchio alla musica. Con l’edificazione del teatro di Bayreuth, infatti, Wagner intendeva creare un vero e proprio tempio per la sua musica: dapprima per Der Ring des Nibelungen ("L’anello del Nibelungo"), il mastodontico ciclo di quattro opere concepito nell’arco di un trentennio e rappresentato integralmente nel 1876; poi per Parsifal (1882, che mai nelle intenzioni del compositore avrebbe dovuto esser visto fuori da Bayreuth), nel quale si giunge alla spregiudicata appropriazione del cristianesimo e del cerimoniale eucaristico a fini di estetizzante teatralità. Wagner, che persegue l’idea di "opera d’arte totale" (Gesamtkunstwerk), è teorico di se stesso e librettista dei propri lavori nei quali, vagheggiando l’ideale tragico greco, attua l’integrazione organica, tra parola, musica, azione (Wort-Ton-Drama). Drammi musicali li definisce: un’espressione con cui ne vuole rimarcare la diversità costituiva rispetto al melodramma e al grand-opéra, da lui aborriti sebbene decisivi nella sua formazione. In essi il tradizionale ordinamento sintattico del periodare strofico e regolare, scandito dalla cadenza (v. tonalità), è abbandonato in favore di un processo, per così dire, di prosa musicale. Inoltre i pezzi chiusi vengono aboliti e sostituiti da un sviluppo sinfonico libero, ininterrotto fino al termine di ciascun atto, la cui innervature architettonica è costituita da motivi conduttori ricorrenti (leitmotive) rivestiti di una fondamentale funzione drammaturgica: quella di segnale inconscio, di reminiscenza o premonizione legata a personaggi, oggetti, affetti, situazioni; e sono anche il mezzo che permette al narratore onnisciente Wagner di commentare l’azione.

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Il Novecento



Il teatro musicale del nascente Novecento (secolo che alla fruizione della contemporaneità preferisce la riproposizione di repertori del passato, caricando così il teatro di una funzione museale) si trova di fronte a un bivio: aderire al wagnerismo o rigettarlo? A questa domanda i compositori (sempre più impegnati su tutti i fronti della scrittura musicale, non solo in quella per le scene come perlopiù in passato) rispondono ovviamente ciascuno a suo modo, avendo comunque ormai ben metabolizzato sia l’idea di opera come dramma (e spettacolo, in cui dunque l’aspetto della messinscena e della recitazione non è meno importante della riuscita orchestrale e canora) che si dipana entro un fluire orchestrale continuo, sia la tecnica del Leitmotiv. Chi, almeno in un primo tempo, sembra abbracciare senza riserve l’espressione wagneriana è il tedesco Richard Strauss (1864-1949): nella potenza, varietà, spessore dell’ordito sinfonico, nell’armonia ora sontuosa, nella gestualità grandiosa ed esaltata, nella facilità a formulare temi evocativi, nel canto nervoso, convulso, caratterizzato da ampi intervalli che richiedono voci d’acciaio. Tuttavia, in virtù dell’incontro con i sofisticati libretti confezionatigli dal poeta Hugo von Hofmannstahl, e a partire dal Rosenkavalier ("Il cavaliere delle rosa", 1911), il teatro di Strauss ricerca sempre più volentieri atmosfere di sapore settecentesco e mozartiano, fatte di edonistica levità, politezza formale, fine umorismo, sonorità distillate in amalgami cameristici, rovesciandosi infine in struggente malinconia senile. I paesi di lingua tedesca restano evidentemente più segnati dall’esempio di Wagner, delle cui istanze di rinnovamento linguistico si appropriano esasperando in chiave espressionistica il turgore armonico tristaniano (che nella cosiddetta Scuola di Vienna iniziata da Arnold Schönberg (1874-1951), e condotta a maturazione in ambito teatrale da Alban Berg (1885-1935), porta alla cancellazione della sintassi tonale in vigore da almeno quattro secoli, e in ambito canoro ad adottare un’emissione vocale strascicata a mezzo tra il parlato e il cantato, lo Sprechgesang, mutuata dagli usi del cabaret) per poi recuperare, dopo il primo conflitto mondiale, il controllo razionale della costruzione sonora: la dodecafonia (v. glossario) per Schönberg e i suoi sodali, la "nuova oggettività" ricercata da Paul Hindemith (1895-1963). Musica da cabaret, ritmi ballabili, canzoni triviali con ritmi e armonie deformate sono peraltro alla base delle partiture confezionate da Kurt Weill per Bertold Brecht, teorizzatore di un teatro anti-illusionistico, che dichiari in ogni momento la propria artificiosità costringendo lo spettatore allo straniamento, ossia alla dissociazione critica con quanto accade sulla scena. Come nella Dreigroschenoper ("L’opera da tre soldi", 1928).

Rifugge Wagner e imbocca una via del tutto personale il francese Claude Debussy in Pelléas et Melisande (1902). Musica e libretto, tratto senza quasi mutar virgola dall’omonima pièce simbolista di Maurice Maeterlinck, sono in tutto antiretorici e antidrammatici, improntati alla staticità, all’indeterminatezza, alla rarefazione di un tessuto sonoro raffinato e armonicamente sfuggente, al sussurro che rasenta il silenzio. L’orchestra al completo suona di rado: in partitura i "fortissimi" si contano sulle dita di una mano. I personaggi non agiscono ma sono succubi di un destino incomprensibile, e il loro canto si risolve in un declamato sillabico studiatamente privo di enfasi, di partecipazione emotiva. Da qui forse deriva la tendenza della musica francese degli ultimi cent’anni a negare il dramma musicale (eco wagneriana solo superficiale nell’idea di "fusione delle arti" da realizzarsi nel balletto predicata e praticata da quella strepitosa fucina di modernismo che tra il 1909 e il 1929 furono i Ballets Russes di Sergej Djaghilev), preferendo piuttosto mettere a nudo i meccanismi a orologeria del teatro in partiture antiromantiche concise, nervose, ironiche, sarcastiche, cristalline, eclettiche nello stile, rassicuranti sul piano tonale, spesso di piccolo taglio e in genere sempre molto, molto blasé. Un neoclassicismo di fondo il cui vero codificatore, nonché l’interprete principale, il più acuto e demistificante, è stato il russo Igor Stravinskij, esploso come fenomeno scandaloso a Parigi collaborando con i Ballets Russes. Nelle opere, nei balletti, nel teatro da camera ha professato sistematicamente la dissociazione tra poesia, musica, scena, azione, tra voce e personaggio, tra significato della parola e intelaiatura musicale, allo scopo di restituire all’arte il suo carattere originario di gioco scanzonato e privo di pathos che, attraverso la provocatoria commistione di scritture differenti per provenienza storica, geografica, culturale, e la riproduzione alterata, deliberatamente squilibrata, di stili del passato, di convenzioni e luoghi comuni, si fa caricatura irriverente, grottesca, fissata in fredda rigidità antinaturalistica e atemporale - ciò che accade nell’opera-oratorio Oedipus rex (1927), plumbeo pannello d’atmosfera mortuaria, cantato in latino e introdotto da un narratore in frac, nel quale i cantanti, pressoché immobili, entrano ed escono trasportati da pedane; o in The Rake’s Progress ("La carriera di un libertino", 1951), calco del melodramma italiano a pezzi chiusi con un’infinità di richiami musicali da Bach a Cajkovskij.

L’Italia agli albori del Novecento sviluppa l’insegnamento dell’ultimo Verdi e non disdegna di volgersi alla Francia di fine secolo, specie alla dolce sensualità e al lirismo sentimentale di autori quali Jules Massenet (1842-1912). Nel contempo il wagnerismo, pur avendo scarse ricadute sulle scelte drammaturgiche, incide sulla scrittura vocale e strumentale (vengono adottati, per esempio, i Leitmotive) determinando una notevole libertà formale nella costruzione delle scene musicali e imponendo all’orchestra una maggior presenza sinfonica. Le linee melodiche continuano ad avere profili pronunciati e rotondeggianti tendenti ora a un sentimentalismo commovente o sensuale, ora allo sfogo lirico prepotentemente esibito; ma si fa largo anche un cantare lesto e fluido che intende rispecchiare i modi del conversar quotidiano, benché poi la fortuna dell’estetica verista (cominciata con Cavalleria rusticana di Pietro Mascagni, 1890) porti con sé una declamazione più spinta, se non addirittura l’urlo. Ma il verismo, con la sua predilezione per ambientazioni contemporanee e plebee, non è che una delle inclinazioni del teatro musicale italiano di quest’epoca, che adora l’esotismo floreale (praticato da Giacomo Puccini, il maggior operista del momento e l’unico davvero sensibile agli orientamenti dell’avanguardia europea, in Madama Butterfly, 1904, e nell’incompiuta Turandot, data postuma nel 1926), si fa tentare da D’Annunzio (che la musica di Ildebrando Pizzetti traduce, da inizio secolo fino agli anni Cinquanta, in un declamato di aulica staticità), guarda con simpatia al Settecento. Quasi un presagio della corrente neoclassica che, dal primo dopoguerra in poi, si rivolterà polemicamente contro il "puccinismo" imperante. Nello stesso periodo matura anche lo stile di Luigi Dallapiccola, il primo italiano ad avvalersi del metodo dodecafonico (v. glossario), che con il Prigioniero (1950) porta sulla scena uno dei temi a lui più cari, quello della libertà (e della mancanza di libertà).

Nell’Est europeo la voce più originale è di sicuro quella del ceco Leóš Janácek: non privo di profonde valenze simboliche, il crudo naturalismo di Jenufa (1904) e Kát’a Kabanová (1921) è reso attraverso la libera concatenazione di temi ricorrenti con linee vocali che rispecchiano le curvature melodiche della lingua parlata. Pari violenza tragica, anche fonica ed erotica, non disgiunta però da una robusta vena satirica, sprigiona la Lady Macbeth del distretto di Mzensk del russo Dmitrij Šostakovic (1934) condannata dal regime stalinista perché contraria ai valori rivoluzionari, eroico-celebrativi e nazionalistici, fondativi del teatro musicale sovietico.

Per la Gran Bretagna l’operista di riferimento è Benjamin Britten, abilissimo comunicatore e artigiano della musica, interessato a indagare gli abissi interiori di personaggi emarginati dalla società o psicologicamente vulnerabili (come Peter Grimes, 1945). Nei suoi lavori, sempre ancorati alla tonalità, ricorrono sovente le forme della tradizione, sia nelle parti strumentali che in quelle vocali - le quali, del resto, hanno un ruolo preminente, aderendo perfettamente al senso e al ritmo della parola. Comunque nei Paesi anglofoni il genere più popolare è tuttora il musical, che peraltro ultimamente può perfino rinunciare ai dialoghi per farsi tutto cantato.

Ciò che contraddistingue l’evoluzione della musica scenica nell’ultimo cinquantennio è una pluralità di tendenze contrastanti, riflesso allo stesso tempo delle inquietudini e dei malesseri sociali, politici, artistici d’oggi, ma anche segno della sostanziale vitalità dell’opera, genere che dopo gli anni Venti, dopo Wozzeck di Berg e Turandot, in molti davano per spacciato, e che invece rinnovato soprattutto in contenuti e meccanismi (per esempio partiture concepite per radio e tv o per contesti multimediali) continua a parlare alla contemporaneità. Intanto, soprattutto con John Cage (1912-92), Mauricio Kagel (1931-viv.), Dieter Schnebel (1930-viv.), Luciano Berio (1925-2003), Sylvano Bussotti (1931-viv.), si è assistito alla teatralizzazione della musica strumentale o del canto da camera, la cui realizzazione trascende la compostezza del concerto tradizionale mutandosi in performance gestuale che mette in gioco anche la fisicità dell’esecutore, magari fiancheggiato da oggetti di scena o suoni elettronici. In ambito specificamente scenico, poi, c’è chi, come Berio, indifferente agli intrecci tradizionali, si è interessato piuttosto alla divaricazione dei piani prospettici e al rapporto instabile tra musica, testo, azione; chi come Luigi Nono (1924-90) ha perseguito con pervicacia l’idea di un teatro d’avanguardia in funzione politica; chi come Karlheinz Stockhausen (1928-viv.) ha voluto inquadrare la sua propensione alla sperimentazione più ardita entro la monumentalità di un ciclo operistico in progress intitolato Licht; chi, infine, prosegue nella formulazione di un teatro narrativo, e Hans Werner Henze (1926-viv.) ne è tuttora il capofila. (GMo)

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Riferimenti bibliografici

Enciclopedia Enciclopedia della musica, diretta da J. J. Nattiez, IV: Storia della musica europea, Torino, Einaudi, 2004 (cfr. saggi su argomenti teatrali)