Musica, mito e religione
L’affinità tra musica e dimensione spirituale ha radici
antichissime e, pur in forme diverse, si è manifestata e si manifesta nella maggior
parte delle culture umane. Ne costituisce una prova, oltre che un terreno d’indagine
inesauribile, l’universo dei miti delle origini, in cui
la musica riveste sovente un ruolo di primo piano: il canto della sillaba OM dà
origine al mondo in alcune mitologie orientali, la voce degli dei dà forma alla
realtà nei miti nordici, la risata di Thot coincideva con la creazione dell’universo
per gli antichi egizi, nell’India antica l’universo nasce al ritmo della danza di Shiva,
per alcune popolazioni dei nativi americani il canto della divinità, ripetuto tre volte,
dà origine a tutte le cose.
Lo studio della presenza della musica nei miti, nei riti e nelle liturgie religiose è
stato condotto prevalentemente dagli etnomusicologi (v. Etnomusicologia)
e ha prodotto innumerevoli contributi che hanno fatto luce su altrettanto numerosi popoli e
culture del pianeta, varietà impossibile da riassumere qui. Illustreremo quindi le
linee generali dell’argomento, tenendo come riferimento principale la cultura occidentale,
ma senza rinunciare a riferimenti ed escursioni in altre prospettive culturali.
La musica, il mito, il tempo
La musica è una presenza costante nelle mitologie di tutto il mondo. Solo nella mitologia
greca si contano decine di personaggi legati alla musica, da Apollo alle Muse, dagli
“inventori” degli strumenti – Pan l’omonimo flauto, Atena l’aulo,
Hermes la lira, ecc. – agli incantatori sonori, come Orfeo o le Sirene; analoghe figure
si ritrovano in altre culture: nella Genesi biblica Yuval (Iubal o Jubal in altre trascrizioni)
viene definito “padre di tutti i suonatori di cetra e di flauto”, il leggendario
imperatore cinese Ku viene considerato creatore di molti strumenti musicali, e l’elenco
potrebbe facilmente continuare.
Si possono individuare alcune tipologie fondamentali delle ricorrenze della musica nel mito,
ricorrenze caratteristiche non solo della cultura greca:
1) Occorrenza fondamentale nei miti delle origini, sia come parte dell’atto creativo
divino che come garante dell’ordine universale (armonia delle sfere).
2) Insegnamento, conservazione e trasmissione delle conoscenze musicali dal divino all’umano;
il mito rivela i comportamenti musicalmente ammissibili e i divieti da non infrangere.
3) Il conflitto: la musica diventa arma nel confronto rituale tra
uomini e divinità. L’emblematico mito di Apollo e Marsia ha tanto valore religioso –
censurando l’ hybris del satiro che vuole farsi pari a un dio – quanto musicale,
ribadendo la superiorità degli strumenti a corde di origine divina sui popolari strumenti a fiato.
4) L’incanto: il mito racconta ed esalta il potere ammaliante
dell’esperienza musicale, con un messaggio religioso ambivalente. Se figure come le Sirene
ribadiscono i limiti da non superare nella ricerca della conoscenza, miti come quello di Orfeo
mostrano come la musica possa elevare l’animo umano e rivelare un ordine superiore al di
là di ciò che è visibile. Il personaggio del bardo-profeta è peraltro
tra i più diffusi nelle mitologie e nelle religioni di tutto il mondo (si pensi anche al
re Davide, cui è attribuita l’invenzione dei salmi).
La figura che riassume le diverse tipologie di connessione tra musica e mito è quella
dell’aedo, personaggio reale che viene anche trasfigurato
mitologicamente, si pensi al leggendario Omero “inventore” dei poemi epici o alla
sua personificazione letteraria Demodoco, cantore nell’Odissea. Non è un caso che
entrambi siano ciechi: è l’udito e quindi la superiore sensibilità musicale
a metterli direttamente in contatto con il divino e la dimensione trascendente.
Aedi, rapsodi e cantori epici sono figure storiche presenti in numerose culture e la loro
funzione sociale di custodi della memoria e dei valori religiosi di cui il mito è intriso
sottolinea ulteriormente fino a che punto esperienza musicale e racconto mitico risultino
indissolubilmente legati: la parola cantata ha più forza ed è più sacra
perché trasfigura e nobilita la lingua comune.
Le connessioni tra musica e mito sono state oggetto di una celebre analisi dell’antropologo
Claude Lévi-Strauss (1908-2009), contenuta nei volumi Il crudo e il cotto e
L’uomo nudo. L’idea di Lévi-Strauss è che tanto la musica
quanto il mito abbiano radici nel linguaggio verbale (v. Musica e linguaggio)
e ne rappresentino una versione imperfetta: il mito si fonda sul senso ma non sul suono – ciò
che conta è il racconto, non le parole con cui è espresso – la musica viceversa si basa
sul suono ma non sul senso. Entrambi cercano di rimediare alla propria carenza: la musica cerca di organizzare
i suoni in funzione di un senso, il mito cerca – attraverso formule ripetute, canti rituali ecc. –
di recuperare la dimensione sonora.
Nella prospettiva strutturalista di Lévi-Strauss, a un livello superficiale il linguaggio si
sviluppa nella dimensione temporale (v. Tempo), ma a uno stadio
più profondo ha una natura a-temporale, costituita dalle regole che orientano la costruzione del
discorso. Ciò è vero anche per il mito e per la musica: nel caso del primo il racconto si
svolge nel tempo, ma si riferisce a verità universali, nel caso della seconda il suono si dipana
nella temporalità, ma secondo ordini razionali astratti che «non hanno bisogno del tempo se non
per infliggergli una smentita».
La musica, in questa luce, non è dunque solo un complemento del racconto mitico, ma ne
condivide il codice genetico e la natura paradossale, rappresentando il punto di congiunzione
tra la finitezza del tempo umano e l’eternità del divino. Una teoria che, pur
essendo stata oggetto di diverse critiche, illumina non solo la fortuna del mito come elemento
ispiratore della creatività musicale – soprattutto nell’opera lirica e nella
religione dell’arte dei Romantici e in particolare di Richard Wagner
(v. Musica e filosofia) – ma anche la persistente
tendenza di religioni e pratiche cultuali a servirsi della musica come strumento
rituale di comunicazione tra uomini e divinità, come cercheremo di illustrare nel paragrafo
seguente.
Musica e rito religioso
È raro imbattersi in cerimonie e riti religiosi in cui la musica non svolga una funzione
determinante. Si possono individuare tre livelli di interazione tra musica e rituale, con un grado
crescente di collaborazione tra i due fenomeni. A un primo stadio, la musica costituisce un mero
complemento della liturgia, accompagna e scandisce la cerimonia, ed è un tratto largamente
caratteristico dei riti cristiani e in particolare di quello cattolico. A un secondo livello, la
musica può diventare chiave di accesso alla dimensione trascendente e cioè è
caratteristico di numerose esperienze religiose, dal sufismo all’induismo, dall’Islam
al buddhismo. Musica e rituale giungono infine a un punto di quasi totale identificazione nelle
pratiche di trance, possessione e sciamanesimo, in cui l’invocazione e l’evocazione
della divinità seguono precise formule musicali e coreutiche e s’impone la figura del
sacerdote-musicista.
Nella cultura occidentale, in cui prevalgono i primi due livelli, l’intervento della musica
nel rituale è connesso al rapporto privilegiato tra suono e parola. Nel mondo greco
l’unità di poesia, musica e danza – che emerge con particolare evidenza nella
struttura drammaturgica della tragedia – ha origine nelle pratiche di culto e si sviluppa
per amplificare l’eloquenza del racconto mitico (secondo un processo che, sottratto alla
sfera religiosa, è peraltro caratteristico anche della “liturgia”
dell’opera in musica).
Nella liturgia cristiana e in particolare in quella cattolica, il legame tra parola sacra
e musica è un dato fondamentale: prima il canto e in seguito gli strumenti entrano
nel cerimoniale rispondendo alla necessità di amplificare (anche sul piano prettamente
acustico) e far giungere la parola di Dio ai fedeli in ambienti sempre più grandi e affollati,
ma in primo luogo la musica valorizza e accresce l’efficacia comunicativa e l’impatto
emotivo del testo sacro.
Il rapporto parola-musica in Occidente si sviluppa in maniera biunivoca: la musica porta a emergere
suggestioni e significati nascosti nel testo religioso, mentre il desiderio di far risaltare la parola
sacra spinge la musica a un crescente grado di complessità. È infatti proprio all’interno
delle pratiche cultuali che si sviluppano le prime forme di polifonia e l’esigenza conseguente di
fermare per iscritto forme sonore sempre più complesse
(v. Monodia e polifonia),
determinante per la nascita della notazione musicale
(v. Oralità e scrittura).
L’unità di intenti che caratterizzava le prime fasi della polifonia liturgica
era tuttavia destinata a durare poco: se l’utilizzo di strutture ritmiche (v. Ritmo)
e soluzioni armoniche (v. Armonia) sempre più sofisticate metteva
al servizio del testo sacro una tavolozza espressiva sempre più ampia, la chiarezza e
l’intelligibilità della parola risultavano sempre più spesso compromesse
dalla complessità dei mezzi musicali impiegati dai compositori. Il dissidio giunge a
un punto di rottura con la Riforma protestante e poi con il Concilio di Trento; sia nella nuova
chiesa luterana che nel cattolicesimo post-tridentino si cercarono di mettere al bando
gli “eccessi” decorativi e artificiosi della polifonia, privilegiando forme
musicali più aderenti al testo sacro. Ciò sortì effetti soltanto in parte
e la conseguenza più duratura sulla produzione musicale fu la divaricazione sempre più
marcata tra uno stile sacro severo e impersonale e uno stile profano più libero da convenzioni
e aderente alla sensibilità del compositore. Come già in precedenza, non mancarono tuttavia
prestiti e imitazioni tra musica sacra e profana, con Messe ispirate da temi popolari e motivi a carattere
religioso fatti propri dalla musica profana.
Le relazioni tra musica e religione mutarono radicalmente a partire dalla seconda metà
del XVII secolo. In Occidente infatti – a differenza che in altre culture, dove come
abbiamo accennato esperienza musicale e spirituale presentano punti di contatto maggiori –
aveva sin lì prevalso l’idea che la musica e le altre arti fossero un mero complemento
della liturgia, significativo certo ma non essenziale alla pratica del culto. L’estetica del
Romanticismo operò un decisivo ribaltamento, secolarizzando la religione e sacralizzando la musica;
intellettuali come Wackenroder (1773-1798) e Schleiermacher (1768-1834) disegnano i confini di una religione
dell’arte che ha nella musica, più astratta tra le arti e per questo più spirituale, il
suo faro. Ciò non significa che nell’Ottocento non si scriva più musica religiosa, che
sia destinata all’uso liturgico oppure solamente basata sui testi sacri (è sufficiente qui solo
far cenno alla Missa Solemnis di Beethoven); un afflato spirituale meno confessionale tuttavia anima
anche opere che nulla hanno a che vedere con tale contesto e che trovano posto in una nuova cornice rituale,
quella del concerto. A partire dalle osservazioni di Caroline Humphrey e James Laidlaw sulle azioni archetipiche
che caratterizzano le forme rituali, non pare infatti azzardato interpretare il concerto
come un rito che attinge consapevolmente alla liturgia a carattere religioso: l’artista ha la
funzione di celebrante, il palcoscenico diventa il suo altare, il pubblico assume i tratti dell’assemblea
e non a caso alterna silenzi ad applausi o fischi, secondo una cadenza cerimoniale.
Nel Novecento, con la figura di Arnold Schönberg (1874-1951), tale funzione messianica
appare estendersi dall’interprete al compositore; animato da vocazione profetica,
alimentata anche dalla componente ebraico-cabbalistica della sua formazione culturale, Schönberg
con l’introduzione della dodecafonia (v. Tecniche compositive)
intendeva contrapporre alla tirannia della bellezza la forza di una superiore verità.
Il concetto di musica religiosa si afferma perciò come qualcosa di più ampio e
trasversale rispetto alla musica per uso liturgico, che nei secoli precedenti ne aveva costituito
il nucleo principale; in compositori come Olivier Messiaen (1908-1992) o György Ligeti (1923-2006)
la musica sacra non intende più descrivere o esplicitare i contenuti del testo sacro, ma utilizzare
rappresentazioni simboliche per delineare orizzonti spirituali e spazi di meditazione.
La tensione spirituale ha alimentato la vocazione sperimentale della musica del XX secolo
spesso al di fuori dai contesti rituali tradizionali, orientando in particolare alcune tendenze
di elaborazione della dimensione temporale dei fenomeni sonori, superando il modello lineare
sino ad allora prevalente, fondato sullo sviluppo e la variazione del materiale musicale di
partenza (come i temi all’interno di una forma-sonata), per saggiare la possibilità
di un tempo verticale, non direzionato ed “eterno” (v. Tempo).
La traduzione pratica di tale aspirazione ideale ha prodotto tuttavia esiti diseguali quando non addirittura
opposti in autori diversi, si pensi al misticismo a-temporale di alcune opere di Karlheinz Stockhausen (1928-2007),
al cristianesimo sofferto di Bernd Alois Zimmermann (1918-1970) – che nutriva i suoi lavori dodecafonici
di suggestioni sonore molto eterogenee per restituire l’idea di un contrasto superficiale dominato da
un ordine superiore – o alle composizioni dell’estone Arvo Pärt (n. 1935), in cui
l’eternità del divino viene ricreata con uno svuotamento del linguaggio musicale, ridotto a
un’essenziale polifonia, punto di partenza della corrente del cosiddetto
minimalismo sacro.
La scena contemporanea, caratterizzata da un’estrema eterogeneità di linguaggi,
è particolarmente ricca di fenomeni attinenti alla sfera mitico-religiosa. Anche nella
musica esplicitamente destinata a scopi liturgici – in ambito cattolico specialmente dopo
il Concilio Vaticano II – si è assistito a un progressivo allentamento dei vincoli,
che ha permesso l’ingresso nella pratica del culto di interventi musicali che attingono
a repertori estranei alla tradizione quale la popular music. Ciò non ha prodotto
tuttavia un nuovo corpus riconoscibile all’interno del repertorio liturgico;
la produzione di musica a carattere religioso appare ormai un fenomeno prevalentemente esterno
alla funzione rituale e nonostante ciò molto vitale, risposta a un diffuso bisogno
spirituale che in parte fatica a riconoscersi nelle forme e nelle istituzioni determinate
dalla storia e dalla tradizione.
(AF)
Bibliografia di riferimento
Enciclopedia della musica, diretta da Jean-Jacques Nattiez,
vol. III, “Musica e culture”, Torino, Einaudi, 2003, pp. 279-501
(Parte terza. Musica e religione).
Girolamo Garofalo (a cura di), Musica e religione, Roma, Squilibri, 2006.
Susanna Pasticci, Musica e religione, in Enciclopedia della musica,
diretta da Jean-Jacques Nattiez, vol. I, “Il Novecento”, Torino, Einaudi,
2001, pp. 420-443.