Incontrare gli dei. La percezione della divinità nei poemi omericiAbstract tesi di dottorato di Angela Giardino“Chi potrebbe
vedere con gli occhi un dio che non vuole quando va qua e là?”,
si chiede Odisseo nel canto 10 dell’Odissea.
Nei poemi omerici, infatti, nessun uomo può scorgere una
divinità che non si sia resa percettibile ai suoi occhi assumendo
un corpo non suo: corpo di uomo, corpo di animale, corpo che comunque
possa cadere sotto i sensi degli uomini. Giacché nel loro stato
“naturale” gli dei dell’Iliade e dell’Odissea restano al di
fuori della portata degli occhi umani. La questione delle forme con le quali
le divinità si presentano ai mortali nei poemi omerici si colloca
all’intersezione di due problemi: quello dei rapporti tra uomini e
divinità e quello delle teorie sulla visione. Diventa
indispensabile, quindi, ricostruire quali fossero gli elementi ritenuti
necessari perché il processo visivo avesse luogo; è sullo
sfondo del modello culturale del processo visivo in generale che si
potrà comprendere appieno come fosse concepita la visione delle
divinità. Come si può immaginare, nel campo delle teorie ottiche i poemi
omerici non sono una fonte particolarmente ricca. Per ricostruire la
configurazione culturale arcaica e classica relativa alla vista, dunque,
bisogna ricorrere a una documentazione diversa, in particolare alle
opere filosofiche. Lo studio delle teorie presocratiche e platoniche
relative al funzionamento della vista porta alla ricostruzione di un
modello che fa della reciprocità la base del processo visivo: non
solo chi osserva, ma anche chi è osservato partecipa in qualche
modo alla visione emanando una sorta di “flusso”; è proprio
l’incontro tra il flusso emanato dall’osservatore e il flusso emanato
dall’osservato a permettere la visione, mentre un solo flusso non
è sufficiente.
La reciprocità si conferma il modello in cui si inquadra la
visione anche nell’Iliade e nell’Odissea: non solo la
maggior parte dei termini del vocabolario ottico può indicare
tanto l’azione del vedere quanto quella dell’essere visti,
ma soprattutto i mortali si trovano sempre potenzialmente l’uno nel
campo visivo dell’altro e non possono vedere i loro simili senza
contemporaneamente essere visti da loro. Soltanto un intervento divino
può rendere un uomo invisibile agli altri uomini, e tali
interventi volti a rendere impercettibili i mortali ai loro pari sono
rappresentati nei poemi ora come “versamenti” di nebbia (achlys)
sugli occhi di un uomo da parte di un dio,
ora come “nascondimenti” nella nebbia (aēr)
o nella notte (nyx).
Si tratta di una rappresentazione metaforica dell’invisibilità,
che in sé pare un concetto assente dall’epica omerica, ove non si
incontrano mai casi di “smaterializzazione” o di semplice
impercettibilità umana: l’invisibilità degli uomini
è sempre pensata e descritta come un obnubilamento della vista di
chi osserva o come un nascondimento di chi è osservato nella
nebbia o in un’oscurità di origine divina.
La forza del modello della reciprocità della visione è
attestata, tra gli altri, dal passo dell’Odissea che descrive
l’arrivo di Odisseo a Itaca dopo vent’anni, nel quale si narra che Atena
versa una nebbia che impedisce a Odisseo da un lato di essere visto bene
– cioè di essere riconosciuto – dall’altro di vedere bene –
cioè di riconoscere i luoghi circostanti.
Il problema dell’invisibilità e della visibilità degli
uomini introduce e in qualche misura inquadra il problema della
visibilità degli dei tanto agli occhi dei mortali quanto agli
occhi degli altri dei. Come abbiamo affermato in apertura, nei poemi
omerici alle divinità è attribuita una intrinseca
invisibilità al cospetto degli uomini. Un passo del canto 5 dell’Iliade
spiega l’invisibilità divina imputandola non alle qualità
proprie delle divinità, ma alle deficienze della vista umana, che
non è in grado di cogliere con i sensi la presenza degli dei. La
vista degli uomini, infatti, è ostacolata da una nebbia – di
nuovo achlys – che impedisce loro di vedere le divinità.
L’impercettibilità degli dei di fronte agli esseri umani – che
è solitamente data per scontata nei poemi omerici – viene
però talvolta rappresentata con le stesse metafore impiegate a
proposito degli uomini, ovvero la nebbia che circonda o copre.
L’invisibilità degli dei agli occhi degli altri dei, invece,
viene espressa tramite il nascondimento in un diverso elemento
atmosferico, ovvero la nuvola, che le divinità possono “indossare”.
In effetti, nella cultura greca il concetto di invisibilità pare
legato in modo privilegiato all’idea dell’abito o dell’accessorio da
indossare: ne sono testimonianza oggetti che conferiscono
l’invisibilità quali l’elmo di Ade
e l’anello di Gige,
che rispetto ad altri oggetti della tradizione classica che rendono
invisibili sono accomunati tra loro e con gli episodi omerici appena
ricordati proprio da questa particolarità: per essere efficaci
vanno indossati.
Se tramite la nuvola viene rappresentata l’invisibilità degli
dei al cospetto degli altri dei, ciò significa che questo
elemento è concepito come impenetrabile agli occhi delle
divinità. La nuvola, infatti, rende esplicita l’idea che le
divinità non sono né onniveggenti, né onniscienti,
ma che la loro vista può spingersi solo fino a un certo punto:
non può scorgere altri dei che si siano resi invisibili
coprendosi con questo speciale elemento, né può
attraversare le nubi che circondano l’Olimpo rendendolo inaccessibile
allo sguardo dei mortali, ma contemporaneamente isolando le
divinità che vi risiedono impedendo loro di guardare in basso.
Invisibilità, però, non è sempre sinonimo di
impercettibilità nell’Iliade e nell’Odissea
né, in generale, nella cultura greca arcaica e classica: gli dei
sono immaginati spesso, sia nei poemi omerici, sia, ad esempio, nella
tragedia, come udibili anche se invisibili, e sono sempre tangibili.
Il modello che si può ricostruire, allora, corrisponde e
conferma un modello che è stato studiato soprattutto per quanto
riguarda la storia e la storiografia, ovvero la supremazia del senso
della vista sugli altri sensi.
La vista è considerata dalla cultura greca il senso che porta a
un maggior grado di verità e, di conseguenza, vedere direttamente
gli dei porterebbe a una conoscenza molto diretta e completa del mondo
divino, conoscenza che si rivelerebbe dannosa, come mostrano ad esempio
i miti di Semele,
di Tiresia
e di Atteone.
Per questo i poemi epici non raccontano epifanie divine dirette se non
in un caso, quello di Achille di fronte ad Atena,
ma raccontano di molte comunicazioni solamente orali tra gli uomini e
le divinità. L’udito e il tatto, infatti, portando a una
conoscenza più mediata e perciò meno completa, risultano
meno pericolosi nel contatto con il mondo divino e diventano quindi uno
dei canali privilegiati per costruire le comunicazioni tra mortali e
immortali.
Come abbiamo detto, la visione diretta delle divinità nel loro
corpo divino è esclusa dal panorama dell’Iliade e dell’Odissea.
Nel mondo omerico, gli dei che vogliono rendersi visibili agli uomini
superano il loro stato naturale di invisibilità assumendo un
corpo che i mortali possano scorgere. In primis, gli dei
prendono sembianze di uomini: le “rubano” a un mortale
– che in quel momento si trova in un altro luogo o comunque non compare
sulla scena finché vi rimane il dio che ne ha assunto la forma
– oppure le creano appositamente
– si tratta allora delle sembianze generiche di un araldo, di una donna,
di un vecchio. E, insieme alle sembianze, gli dei prendono anche la voce
dei mortali a cui si rendono simili.
La capacità di mutare il proprio aspetto è una
caratteristica che distingue le divinità dagli uomini in modo
netto: nessun mortale, per quanto potente o dotato di capacità
profetiche, gode di un simile potere metamorfico, che resta nel mondo
omerico una prerogativa esclusivamente divina.
Così come divina è l’immortalità, che, insieme ad
altri elementi quali l’assenza di invecchiamento, la presenza di “icore”
e non di sangue nel corpo, l’alimentazione speciale a base di nettare e
ambrosia, definisce gli dei in contrapposizione agli uomini.
A proposito della separazione tra immortali e mortali è
interessante notare che non esiste un vocabolario specifico che indichi
la voce degli uni distinguendola dalla voce degli altri, né il
corpo degli uni distinguendolo dal corpo degli altri. La terminologia
relativa all’apparenza fisica e alla voce è in Omero molto ricca
e complessa: i differenti termini che indicano il “corpo” (demas,fuē,chrōs,eidos)
possiedono ognuno una sfumatura di significato molto precisa, ma
nessuno di essi individua il corpo specificamente umano o divino.
Lo stesso vale per i termini che indicano la “voce” (audē,ops,
fōnē, fthongē), che – come quelli del vocabolario relativo al
corpo – sembrano indicare nell’Iliade e nell’Odissea “voci”
differenziate l’una dall’altra, ma che costituiscono tutte tratti comuni
degli uomini e degli dei e non elementi propri degli uni e non degli
altri.
Nei poemi omerici le divinità scelgono non solo forme umane per
rendersi percettibili agli uomini evitando loro la pericolosità
di una visione diretta, ma anche forme animali, in particolare di uccelli.
I passi che descrivono gli dei come uccelli sono piuttosto controversi,
in quanto né il contesto, né la terminologia impiegata
consentono di stabilire se il riferimento sia a una metamorfosi vera e
propria del dio in uccello o a una semplice similitudine.
Inoltre, le divinità possono apparire agli uomini sotto forma di
fenomeni celesti, quali vapori e comete.
Comunque sia, i poemi omerici sottolineano come gli uomini siano spesso
in grado di identificare gli dei al di là della forma umana,
animale o naturale che hanno assunto per manifestarsi. Sono soprattutto
i dettagli a rivelare agli occhi mortali la vera identità dei
loro interlocutori, e questo accade sempre – tranne in due casi: Elena e
Afrodite
e il già ricordato caso di Achille e Atena
– dopo che l’incontro si è concluso; spesso, infatti, ciò
che consente agli uomini di riconoscere gli dei è proprio il modo
con cui gli immortali si allontanano, caratterizzato da dettagli,
appunto, che non possono appartenere a un uomo. In questo senso, il
riferimento agli uccelli a cui gli dei sono detti simili sottolinea la
loro particolare andatura e la rapidità dell’allontanamento,
elementi che funzionano da spie, al pari della straordinaria bellezza
che a volte traluce pur sotto le apparenze umane
e della potenza della voce che le divinità emettono a dispetto
del loro aspetto mortale.
I tratti selezionati dai poemi omerici come specialmente significativi
nel processo di riconoscimento delle divinità in forma umana o
animale da parte dei mortali si inseriscono in un quadro coerente della
costruzione dell’identità nella cultura greca: l’andatura, ad
esempio, risulta essere un fattore importante non solo nell’Iliade
e nell’Odissea, ma anche nella tragedia e in numerosi miti, ove
piedi e modo di camminare, insieme ai capelli, alla testa, agli occhi,
svolgono una funzione importante nei meccanismi di riconoscimento –
ovvero di attribuzione o conferma di identità – dei protagonisti
delle vicende.
Tornando alle divinità omeriche, è interessante il fatto
che nel lasciarsi identificare dai mortali esse lascino trapelare
soltanto un particolare, un dettaglio della loro natura divina e
facciano intravedere appena che l’aspetto che hanno assunto per
comunicare con i mortali non è il loro vero aspetto. Gli dei
omerici sono dei che appaiono enargeis,
che, cioè, mostrano la loro vera identità in un lampo
veloce e mobile e permettono ai mortali di identificarli facendo
emergere in modo immediato, fulmineo, rapidissimo qualcosa della loro
reale natura – come un’illuminazione improvvisa che li smaschera come
divinità (se e solo se vogliono lasciarsi smascherare) nonostante
le sembianze umane che hanno assunto.
La percettibilità degli dei, insomma, si configura nei poemi
omerici come una percettibilità “selettiva”: gli dei possono
restare invisibili, rendersi percettibili tramite la sola voce, assumere
l’aspetto di chiunque, sparire con la velocità di un uccello –
forse trasformandosi davvero in uccelli. Se esistono popoli o individui
dai quali gli dei si lasciano riconoscere con più
facilità, come i Feaci
o alcuni eroi quali Achille
e Odisseo,
questo non è dovuto tanto alle qualità degli uomini,
quanto alla volontà degli dei che si manifestano, che scelgono da
chi, quando e come farsi vedere e riconoscere nella loro vera
identità divina.
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