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L’uomo e il suo destino

Un’altra tesi di origine aristotelica che fu oggetto di condanna nel 1270 e nel 1277, come quella relativa all’eternità del mondo, toccava l’idea stessa di essere umano. L’antropologia agostiniana, che concepiva platonicamente l’uomo come ‘un’anima che si serve di un corpo’, aveva dominato dal VI al XII sec.: l’anima razionale, immagine divina nell’uomo, era considerata la parte essenziale dell’essere umano; la sua sopravvivenza individuale, con la pena o la ricompensa nell’aldilà, non era in discussione, come non lo erano i criteri della vita morale (uno dei dibattiti dell’epoca carolingia aveva posto, in termini platonici, il problema del rapporto fra anima individuale e anima del mondo, ma non aveva avuto sviluppi). Accanto alla lettura strettamente dualistica, prevalente nell'ambito teologico, che vedeva il corpo come carcere dell’anima e giustificava il distacco dal mondo (contemptus mundi) e l’ascesi monastica, era stata elaborata un’idea più complessa di tripartizione dell’essere umano, in cui i due estremi, anima e corpo, erano connessi e armonizzati da un’entità intermedia, lo spirito; quest’idea aveva trovato espressione anche nella medicina araba e, attraverso le traduzioni, nella medicina scolastica. Nel corso del XII sec. era poi venuta emergendo nella riflessione etica e giuridica un’idea di individuo e una definizione di persona umana basate sull’identificazione fra uomo e anima razionale. Alla fine del secolo cominciò a circolare il De anima di Aristotele, che offriva un’immagine ben diversa: l’anima è forma del corpo (‘atto del corpo fisico organico che ha la vita in potenza’) e di conseguenza ogni essere vivente – uomo compreso – è un sinolo (sostanza unica), composto appunto di forma (anima) e materia (corpo). Ma che ne è della sopravvivenza dell’anima umana? Aristotele non si era posto il problema in questi termini; tuttavia aveva sottolineato l’irriducibilità della razionalità al piano puramente biologico chiedendosi se l’intelletto (la parte superiore dell’anima, propria dell’essere umano) non possa ‘venire da fuori’ ed essere considerato ‘divino’. I filosofi credenti affrontarono il problema collegandolo al processo conoscitivo descritto nello stesso De anima, e tutti - tranne Averroè e i suoi seguaci, gli averroisti latini, che sostennero l’unicità dell’intelletto per tutta la specie umana - elaborarono risposte intese a salvaguardare sia l’universalità della conoscenza che l’immortalità individuale, attraverso l’analisi delle nozioni di intelletto agente e possibile presenti nel De anima e delle interpretazioni che ne avevano dato i commentatori tardo-antichi. La soluzione proposta da Tommaso d’Aquino fu particolarmente brillante, perché non solo riuscì a salvare, attraverso un’attenta manipolazione della nozione di sostanza, il naturalismo aristotelico (con importanti conseguenze nell’ambito dell’etica e della politica) e l’idea dell’anima immortale, ma seppe servirsi di questa nuova antropologia anche per spiegare filosoficamente uno dei dogmi più difficoltosi, quello della resurrezione dei corpi, sostenendo che l’anima-forma, sopravvissuta al disfacimento del corpo-materia, alla fine dei tempi ‘ricostituirà per sé’ dalla materia stessa il corpo glorioso.

L’uomo e il suo destino
Università di Siena - Facoltà di lettere e filosofia
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