Le riflessioni sul linguaggio
L’uso filosofico di lingue diverse
dal greco comportava prima di tutto i
problemi legati alla traduzione: di ciò
era stato già consapevole Cicerone
in età classica. All’inizio
del medioevo Boezio,
oltre a porre le basi del vocabolario
filosofico utilizzato nei secoli successivi
in occidente, introdusse la discussione
di termini come natura, persona, tempo,
eternità, segnalando nel vivo l’esigenza
di ripensare il significato del linguaggio
filosofico nel mutato contesto di pensiero.
A partire dal dibattito sulla dialettica
questa esigenza si ritrova nella questione
se i termini indicanti le dieci categorie
aristoteliche (sostanza, accidente, quantità,
qualità, relazione, modalità,
stato, abito, tempo, luogo) o quali fra
essi e come possano essere applicati a
Dio. Traducendo Porfirio, lo stesso Boezio
aveva introdotto nella discussione occidentale
il problema degli universali:
i termini che indicano il genere o la
specie (‘animale’, ‘uomo’)
indicano realtà di livello superiore
a quelli che indicano l’individuo
(‘Pietro’), oppure sono semplicemente
dei segni linguistici senza riferimento
ontologico? Le risposte a questa domanda
configurano le posizioni dette ‘realismo’
e ‘nominalismo’. Ma non fu
solo il problema degli universali, sorto
all’interno della logica, a spingere
alla riflessione sul linguaggio utilizzato
nella filosofia: il confronto fra logica
aristotelica e strutture grammaticali
della lingua si impose sia ai filosofi
che scrivevano in latino che a quelli
che scrivevano in arabo, anzi in realtà
a questi ultimi per primi (ma le loro
riflessioni in questo ambito non interessarono,
comprensibilmente, i traduttori del XII
sec.). Nel mondo cristiano, la corrispondenza
fra parola e realtà fu affrontata
da Anselmo
d’Aosta analizzando il problema
dei paronimi,
ovvero di quei termini che designano una
sostanza attraverso il riferimento ad
una sua proprietà. L’esempio
è quello del sostantivo grammaticus
(il maestro di grammatica), che ha come
contenuto significativo una qualità,
la conoscenza della grammatica, ma designa
una sostanza, l’uomo che conosce
la grammatica. La connotazione del termine,
ovvero il suo contenuto significativo,
differisce dalla cosa denotata: si trattava
di un problema semantico che non ha corrispondenza
negli scritti di Aristotele. Nella logica
del XII sec. e nei suoi sviluppi successivi
(logica
moderna o terminismo) l’interesse
per il modo in cui le parole assumono
diversi significati a seconda dei diversi
contesti proposizionali dette infine luogo
alla distinzione fra significato e ‘supposizione’
(suppositio). Un termine ‘suppone
per’, ovvero denota, cose aventi
lo stesso contenuto significativo ma diverso
referente: per esempio il termine ‘uomo’
suppone (sta) per l’individuo Pietro
(‘quest’uomo mi piace’),
la specie umana (‘l’uomo è
mortale’), il termine grammaticale
stesso (‘uomo è un sostantivo’).
Alla fine del medioevo la riflessione
sul linguaggio, fattasi sempre più
raffinata, divenne strumento primario
delle dottrine scientifiche: l’analisi
non era più limitata alla modalità
di significazione dei nomi, ma riguardava
tutte le parti del discorso, sia quelle
aventi significato proprio (categorematiche:
nomi e verbi) sia quelle che acquisiscono
significato solo nella proposizione (sincategorematiche:
preposizioni, congiunzioni ecc.). Nel
frattempo l’uso delle lingue volgari
aveva cominciato a interessare anche la
filosofia, con le opere di Dante,
in italiano, e di Raimondo
Lullo, in catalano alla fine del XIII
sec., per allargarsi nei secoli XIV e
XV. A Dante si deve la prima riflessione
sull’evoluzione delle lingue, il
De vulgari eloquentia.
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