Il concetto di forma:
prospettive storico-estetiche
Trattando dei principi formali, è necessario distinguere preliminarmente
la nozione di forma musicale, generale e definita per astrazione,
dalle accezioni particolari talora attribuite al termine ‘forma’,
accezioni che rimandano ai fenomeni storici dell’origine e dell’evoluzione
dei generi musicali e delle specifiche tipologie formali. Ma tale
distinzione non implica affatto che possa darsi una definizione positiva,
universale e astorica di forma musicale. Definizioni formulate in
epoche diverse, e in differenti contesti culturali, alla prova dell’indagine
critica hanno dimostrato di possedere valore sostanzialmente relativo:
basti limitarsi a prendere in esame la tradizione di quella che si
definisce musica colta occidentale per comprendere come gli ambiziosi
tentativi di pervenire a definizioni di forma stabili e assolute siano
in realtà sempre originati dalla conoscenza e dall’analisi
di particolari repertori, ai quali in definitiva resta circoscritta
la validità gnoseologica dei risultati conseguiti.
Altrettanto indispensabile è riconoscere come gli approcci
intuitivi al problema della definizione della forma musicale, non
diversamente dai processi discorsivi e dalle enunciazioni più
sistematicamente analitiche, ricorrano volentieri all’uso del
linguaggio metaforico, piuttosto che a quello tecnico-denotativo.
È l’identità stessa della musica, del resto, ad
essere concepita mediante una metafora (musica come artefatto, come
linguaggio, come organismo biologico, ecc.).
Il linguaggio figurato pare dunque essere particolarmente adatto alla
trattazione di una materia difficilmente definibile qual è
la forma musicale. E se da una parte esso implica una certa approssimazione
logica, in quanto il trasferimento di significato dall’uno all’altro
termine della relazione metaforica comporta di necessità degli
scarti, dall’altra può fruttuosamente valersi delle qualità
conoscitive e chiarificatrici della metafora.
La riflessione classicistica:
la razionalizzazione del molteplice
Si fonda sulla metafora della musica come discorso uno dei temi centrali
della riflessione musicologica generale, ovvero, con una certa approssimazione
concettuale, la questione della comprensibilità della musica
(si voglia intendere qui la parola ‘musica’ nella sua
accezione universale o piuttosto come singolo brano musicale). Sulla
base teorica fornita dalle formulazioni dell’estetica settecentesca,
si è individuata la condizione di tale ‘intelligibilità’
– concepita come vero e proprio valore estetico – nel
sufficiente grado di uniformità posseduto da una molteplicità
di opere musicali (in realtà, costituenti a priori un corpus
piuttosto omogeneo).
Il conseguente, notevole impulso alla categorizzazione formale, al
quale si devono le tassonomie esemplate sui modelli organicistici
della biologia, trae i suoi principi dalla riflessione aristotelica
sulla tragedia, in particolare dalle prescrizioni riguardanti la struttura
della fabula: avendo premesso che «la tragedia è imitazione
di un’azione compiuta e costituente un tutto [...]», e
che «il tutto è ciò che ha principio, mezzo e
fine» (Poetica, VII), Aristotele asserisce che i rapporti tra
le parti nelle quali si articola la fabula debbano essere necessari
e, parallelamente, giudica «peggiori» i racconti e le
azioni definiti «episodici» («chiamo infatti ‘episodico’
quel racconto in cui non c’è né verosimiglianza
né necessità che gli episodi si susseguano in un certo
modo»; ivi, IX). Nella stretta correlazione tra forma e contenuto
che tale concezione presuppone risiede quindi il nucleo irrinunciabile
di una riflessione sull’opera musicale che eviti il rischio
di ridursi semplicisticamente alla mera descrizione di schemi strutturali.
Le operazioni necessarie a definire concretamente il grado di uniformità
di un dato repertorio consistono nell’individuazione degli elementi
strutturali ricorrenti e nella loro classificazione, stabilita non
soltanto in base alla rispettiva configurazione e alla posizione normalmente
occupata da ciascuno di essi nel contesto dell’opera, ma anche
– rimanendo sempre fondante la metafora del linguaggio - rispetto
alla loro funzione sintattica. Tali modelli formali si presentano
come veri e propri paradigmi a più livelli, articolati in sezioni
binarie o ternarie a loro volta suddivisibili. Nella prassi, la loro
individuazione costituisce sostanzialmente il momento centrale di
una operazione intellettuale che si risolve in finalità prescrittive
e didascaliche, concernenti tanto l’ambito delle modalità
dell’ascolto, quanto quello dell’attività compositiva.
Uno degli scopi precipui di tale orientamento didattico è,
infatti, quello di sviluppare nell’ascoltatore le facoltà
intellettuali necessarie per superare la dimensione della pura esperienza
sensoriale e guadagnare la distanza estetica dalla quale riconoscere
le articolazioni formali di cui qui si tratta: ciò che si dice
ascolto strutturale. L’altro obiettivo
didattico, perseguito in modo più o meno sistematico dalla
trattatistica sulla forma musicale, è l’istruzione degli
allievi compositori attraverso l’esercizio della riproduzione,
dell’imitazione, della variazione dei paradigmi formali proposti.
Tuttavia, per effetto della tendenza vieppiù spinta alla modellizzazione,
tali paradigmi finiscono per essere assimilati progressivamente ai
generi musicali. Si giunge per questa via – come nota Dahlhaus
– a identificare la teoria della forma con la descrizione dei
generi e a ritenere che le tassonomie formali, che la musicologia
ha desunte dalla sistemazione enciclopedica del sapere, tipica del
pensiero scientifico del tardo Settecento, possano rappresentare quasi
una historia naturalis delle tipologie musicali. Si determinano così
l’assoluta preminenza dei principi formali e universali rispetto
alle particolarità della prassi e la preponderanza degli elementi
unificanti a discapito dei contrasti interni; di qui l’ammonimento,
ricorrente nell’ambito dell’ampia trattatistica a carattere
pedagogico, a non definire la forma musicale di una certa opera soltanto
sulla base della sua rispondenza ai modelli disponibili nei formulari,
ma a considerarla in ogni caso come il risultato della interazione
di tutte le sue specifiche componenti, dai minimi dettagli compositivi
sino all’intero complesso strutturale. D’altra parte,
già la critica primonovecentesca aveva dimostrato che il constatare
la rispondenza di una composizione musicale a un dato modello formale
non comporta di per sé alcun vantaggio quanto alla comprensione
dei valori estetici a essa intrinseci. La teoria della forma musicale
fondata sui principi dell’estetica settecentesca e sviluppata
secondo i modelli della concezione organicistica presenta, inoltre,
evidenti limiti di applicabilità: il suo valore euristico è
infatti limitato alle opere e agli stili del cosiddetto “common
practice period”, ovverosia all’insieme di quei repertori
dai quali essa stessa era stata desunta; sembra così chiudersi
il cerchio di un sistema sostanzialmente autoreferenziale.
La prospettiva novecentesca:
tra forma e indeterminazione
«Aspettarsi che una discussione sulla forma musicale produca
definizioni e prescrizioni sarebbe ingenuo. Non è affatto certo
che cosa sia la forma nella musica, e ogni tentativo di formulare
regole provocherebbe null’altro che derisione»: l’acuta
affermazione di Carl Dahlhaus (Form, 1966) pare riassumere compiutamente
il cambiamento di prospettiva sulla questione della forma musicale
operatosi nel Novecento. Cade definitivamente il fraintendimento per
cui si è a lungo ritenuto che le prescrizioni estetiche generate
dalle teorie della forma musicale fossero descrizioni della realtà
esperienziale dell’ascolto; dalla ricerca psicologica proviene
inoltre l’ampia dimostrazione dell’assenza di relazioni
oggettive tra le forme definite sul piano culturale e le strutture
della percezione musicale. I principi formali derivanti dalla concezione
aristotelico?classicistica e la categorizzazione tassonomica e organicistica
della forma musicale entrano manifestamente in crisi – e con
essi la pretesa di un controllo integrale e coesivo di ogni costituente
– nell’epoca in cui appare chiaro che le forme, i generi
e i costrutti ereditati dalla tradizione sono destinati a disintegrarsi
progressivamente e finanche a dissolversi. Conseguentemente, gli approcci
novecenteschi al problema della forma, ben lungi dal poter considerare
ancora il materiale musicale alla stregua di un ente di natura, debbono
constatarne l’irriducibilità all’organizzazione
concettuale ereditata dalla tradizione sette-ottocentesca.
Dalle prime prove dodecafoniche di Schönberg e dal serialismo
postweberniano integrale e ‘iperdeterminato’dei primi
anni Cinquanta, sino alla musica aleatoria, alle poetiche ‘informali’
ed irrazionalistiche dell’avanguardia degli anni Sessanta, al
minimalismo, alle più recenti estetiche ‘neoromantiche’,
la stessa grande varietà degli esiti cui approda la ricerca
dei compositori nel corso del ventesimo secolo rende particolarmente
problematico il discorso sulla forma musicale, ed esige di volta in
volta l’impiego di specifici approcci analitici. Il paradigma
sintattico e le metafore formali ad esso legate entrano in crisi con
la musica “non linguistica” del Novecento; d’altro
canto, l’impiego acritico di modelli strutturalistici derivati
dalla linguistica, in particolare nell’indagine sulle qualità
formali della musica seriale, può rivelarsi insussistente e
fuorviante.
Tutt’altro che scevra da ambiguità è infatti la
trasposizione in ambito musicologico della classica distinzione saussuriana
tra langue e parole. Com’è noto, ad essa corrisponde
– nell’ambito di un ‘linguaggio’ musicale
postulato per analogia – la dicotomia tra i piani sintagmatico
e paradigmatico, in base alla quale vengono individuate, da una parte,
le strutture pertinenti alla successione nel tempo degli eventi musicali,
ordinate secondo convenzioni e regole di successione e rappresentate
su un asse orizzontale (diacronico); dall’altra, le unità
lessicali e morfematiche, disposte idealmente lungo un asse verticale
(sincronico) e costituenti nel loro insieme l’intero repertorio
delle opzioni selezionabili nell’atto del comporre (il notevole
squilibrio dovuto alla prevalenza pressoché costante del piano
sincronico è uno dei difetti solitamente imputati all’analisi
formale strutturalistica). Inoltre, se è assolutamente ragionevole
indagare sui rapporti intercorrenti tra strutturalismo e teoria dei
processi compositivi, cercare di individuare la presenza di ‘strutture
strutturalistiche’ nella musica seriale – nella quale
pure la qualità costruttiva è assolutamente preminente
– è senz’altro un anacronismo: infatti la libera
sperimentazione condotta dai serialisti sul materiale musicale e sui
processi poietici, i linguaggi e il nuovo sistema musicale da essi
creati in base a principi tutt’affatto autonomi vengono antistoricamente
ricondotti ai modelli strutturalistici soltanto nella seconda metà
degli anni Sessanta.
Al contrario, il ricorso alla nozione echiana di metafora epistemologica,
ovvero al rapporto di analogia che lega le forme artistiche alle teorie
scientifiche e filosofiche contemporanee – il principio di indeterminazione,
la teorie della relatività e della probabilità –
consente, in una prospettiva di precoce allontanamento dalla ortodossia
strutturalistica, una maggiore vicinanza alla realtà formale
del serialismo, pervenendo alla definizione di una poetica dell’apertura
come «organizzazione originale del disordine» (Umberto
Eco, Opera aperta, 1976).
Antagonistica nei confronti delle applicazioni al discorso musicologico
delle categorie dello strutturalismo ortodosso – delle quali
pure sembra costituire l’ultima evoluzione – la prospettiva
post-strutturalistica trasforma il principio di differenza, da strumento
fondamentale della razionalizzazione progressiva e del metodo classificatorio,
in fondamento teoretico della destabilizzazione, della disgregazione
e persino della negazione ultima della struttura, quale metaconcetto
unificante e ordinatore. Così, con la critica dei concetti
di ‘struttura’, di ‘campo’, di ‘centro’,
si confutano la pretesa di scientificità ed il carattere apodittico
delle sistemazioni formali dello strutturalismo, proponendo al contempo
un concetto problematico dell’identità dell’opera
musicale: essa infatti non è più osservata come un oggetto
compiuto in sé stesso e in tutto coincidente con un diagramma
strutturale racchiuso in una figura definita, ma considerato piuttosto
come una configurazione aperta e in certo grado indeterminata, della
quale sono parte essenziale sia i processi generativi (compositivi
e interpretativo-performativi), sia gli atti percettivi in senso lato.
Similmente, le concezioni della forma influenzate dalla teoria decostruzionistica,
e dunque situate in un ambito concettuale connotato da importanti
intersezioni con il post-strutturalismo, pervengono in ultima analisi
alla rappresentazione sintetica di una ‘antiforma’ musicale,
ossia di un’aperta circolarità de-costruita, costantemente
reinterpretabile e quindi irriducibile a qualsivoglia forma di rappresentazione
univoca, costituita da serie indeterminate di relazioni sintagmatiche,
di volta in volta definibili e ridefinibili soltanto in base al rifiuto
di qualsiasi principio universale, generativo o teleologico che esso
sia, di ogni possibile idea di riduzione a unità. Se pertanto,
sul piano teoretico, il rimando imprescindibile è al concetto
di textualité nella formulazione originale di Derrida (L’écriture
et la différence, 1967), sul piano dei materiali musicali la
realizzazione estrema di una simile configurazione è da ritenersi
raggiunta nel linguaggio ‘anticomunicativo’ e in sommo
grado disgregato della musica post-seriale, ovvero di una musica avente
identità equivoca e policentrica.
Ovviamente, gli approcci novecenteschi al problema della forma sono
tutt’altro che scevri da aporie; basti pensare, per fare un
solo esempio, all’impasse logica derivante dalla reciproca inconciliabilità
delle molteplici letture decostruzionistiche di una stessa opera musicale
e all’impossibilità di determinare il valore relativo
di ciascuna di esse. In genere, è piuttosto controversa l’applicazione
pratica dei principi formali posti a fondamento delle teorie elaborate
nel XX secolo ad opere dotate, come la maggior parte di quelle anteriori
al Novecento, di un’organizzazione strutturale in base alla
quale possono darsi soltanto pochissime interpretazioni, tra loro
concordanti. In realtà, anche per quanto riguarda quelle opere
aventi configurazioni formali pienamente corrispondenti alle tipologie
tradizionali, il contributo delle metodiche definibili estensivamente
come postmodernistiche non manca di dimostrarsi valido, nella misura
in cui la forma musicale è definibile latamente come il fattore
coesivo necessario a garantire la persistenza di un’identità
musicale che, in ogni caso, è da considerarsi intrinsecamente
aperta. (GMa)
Riferimenti biobliografici
Raymond Boudon, A quoi sert la notion de «structure»?,
Paris, Gallimard, 1968 (tr. it. di Mario G. Losano, Torino, Einaudi,
1970)
Jean-Jacques Nattiez, Fondements d’une sémiologie de
la musique, Union Générale d’Éditions,
Paris, 1975
Umberto Eco, Opera aperta, Milano, Bompiani, 19762
Michela Garda, Lo strutturalismo musicale tra arte e scienza, in L’orizzonte
filosofico del comporre nel ventesimo secolo, a cura di Gianmario
Borio, Bologna, il Mulino, 2003, pp. 113-124
Talia Pecker Berio, ...What is the Word..., in
L’orizzonte filosofico del comporre nel ventesimo secolo, a
cura di Gianmario Borio, Bologna, il Mulino, 2003, pp. 283-300