Universit� di Siena
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    Sermo, semen, sanguis: un'antropologia del linguaggio nella cultura romana

    Abstract tesi di dottorato di William M. Short

    Nella tesi di dottorato, intraprendo un’esplorazione delle «reti di significazioni», come dice il Geertz, nelle quali a Roma il linguaggio viene implicato, per scoprire quali siano i modi in cui la cultura romana tende ad immaginare e rappresentare il linguaggio e quali siano i valori e le funzioni assegnatigli nel pensiero culturale romano. Mettendo a fuoco più specificamente il termine latino sermo, che per i Romani può significare le due nozioni, per noi distinte, di «conversazione» e di «lingua (nazionale)», faccio una mappatura delle caratteristiche concettuali di questo tipo di discorso che lo distinguono dagli altri nel lessico romano (cioè, quelli rappresentati dai verbi fari, loqui, dicere, narrare e orare, nonché dai sostantivi lingua e vox). In questa analisi, attingo all’evidenza della linguistica, alle etimologie sia antiche sia moderne e alle testimonianze degli scrittori latini che ce ne danno definizioni esplicite (emiche). In seguito, esamino una serie di metafore concettuali spesso utilizzate dai Romani, quando vogliono parlare del sermo e tramite le quali il linguaggio viene pensato, per così dire, come diversi fenomeni culturali: il filo, il grano, la moneta, il sangue, il seme. Da questa discussione risulta chiaro che nell’immaginario romano questi ‘aspetti’ culturali sono circondati dalle nozioni di ‘purezza’ e ‘contaminazione’, come anche i Romani concepiscono un “linguaggio puro” (purus sermo) e la possibilità che il linguaggio possa venire «contaminato», «corrotto», «adulterato». Secondo l’analisi di Mary Douglas, si può imputare tali preoccupazioni alla funzione che questi fenomeni svolgono come «mediatori»: dal momento che fanno da intermediario nell’interazione sociale, provocano delle ansie della loro ‘contaminazione’. Dall’altro lato, l’appartenenza del sermo alla sfera del padre, presupposto nell’espressione patrius sermo, fa sì che la si schieri assieme alle patriae arae, patrii dei, patrii mores e così via, come pure, ancora una volta, al sangue e al seme, in quanto istituzioni che nel pensiero romano appartengono definitivamente al ‘paterno’. Tutte queste istituzioni culturali hanno lo specifico valore antropologico di costituire l’identità collettiva (familiare). Quindi suggerisco che impiegate nel caso del sermo, le nozioni di ‘purezza’ e di ‘paternità’, le quali s’implicano mutuamente nella sfera della riproduzione sessuale, dove secondo gli ideali culturali è precisamente il sangue/seme del padre che debba costituire la contribuzione determinante dell’identità di qualcuno, e che per ciò rischia sempre la contaminazione, si possono capire soltanto se considerate in rapporto fra se stesse e basate nelle analogie funzionali fra il linguaggio e il sangue nella cultura romana. A Roma, per farla breve, il sermo viene ‘pensato’ come il sangue a causa del suo specifico comportamento culturale (da mediatore) e la sua specifica funzione culturale (da segno identificatorio); infatti, il sermo e il semen/sanguis sembrano subire una fusione nozionale completa, come risultato dei loro ruoli complementari dal più esterno e dal più interno determinante dell’identità.