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    Plutarco 'antropologo': le Quaestiones Romanae

    Abstract tesi di dottorato di Claudia Piazzini

    Le Quaestiones Romanae costituiscono l’ennesima testimonianza della centralità che Roma riveste nella riflessione storiografica e filosofica dello scrittore di Cheronea. Il greco Plutarco, che soggiorna a lungo nell’Urbe e riceve persino la cittadinanza romana, a più riprese esplora la storia e la cultura dei dominatori latini, mettendo il loro mondo a confronto con il proprio: un raffronto che costituisce la struttura stessa delle Vite Parallele, e che più volte anima i trattati del corpus dei Moralia.
               Come segnala il titolo greco, negli Aitia Romanika Plutarco si propone di spiegare le cause, le origini remote di una serie di usi romani che, per la loro stranezza o per una forte differenza rispetto alla cultura greca, potevano suscitare curiosità o risultare di difficile comprensione agli occhi dei greci colti a cui la raccolta si indirizzava. Il carattere asistematico dell’opera ne ha decretato la scarsa fortuna negli studi della critica. Pochi sono gli studiosi che hanno rivolto finora la loro attenzione alle Quaestiones Romanae: classificate tra gli scritti eruditi di Plutarco, si è guardato in genere ad esse come ad un’opera di antiquaria, certamente utile per la conservazione di notizie soprattutto riguardo alle pratiche cultuali romane, ma di scarso peso nell’ambito della produzione dell’autore; una raccolta di aneddoti e curiosità da avvicinare al Septem sapientium convivium o ai nove libri delle Quaestiones conviviales, testimonianza della vastità degli interessi dello scrittore di Cheronea. L’etichetta di ‘trattato di antiquaria’ ha portato le Quaestiones Romanae a condividere il destino di tante altre opere della stessa categoria: quello di essere saccheggiate e ripetutamente citate (magari nelle note a pie’ di pagina) da chi si occupa di antichistica romana, dagli archeologi e dagli studiosi di religione, senza diventare mai protagoniste, oggetto cioè di uno studio sistematico, di uno sguardo d’insieme.
               Quando, soprattutto nella seconda metà dell’Ottocento, si è prestata attenzione a questo singolare trattato, pressoché unica direzione di studio intrapresa è stata quella della ricerca delle fonti di cui Plutarco si servì, direttamente o indirettamente, per la sua opera di ‘erudizione’. Thilo dedicò nel 1853 la sua tesi di dottorato in filologia classica alla ricerca dei probabili prestiti di Plutarco da Varrone; un obiettivo ripreso, quasi trent’anni dopo, da Glaesser. L’altro nome su cui si è insistito è quello di Giuba, il re letterato della Mauritania spesso citato da Plutarco, ma di cui sappiamo ben poco: i soli frammenti conservatici sembrano rinviare ad un’opera di tipo lessicografico, nella quale l’autore poneva forse a confronto parole greche e latine, anticipando quella tendenza alla comparazione che percorre anche le Quaestiones Romanae. La discussione sulle fonti continua ad occupare ampio spazio anche nel commento di Rose, dell’ormai lontano 1924 ma tuttora punto di partenza essenziale per ogni studio sulla raccolta. Dopo questa data infatti l’interesse per le Quaestiones Romanae sembra esaurirsi: dobbiamo attendere il 1999 per vedere pubblicata una nuova edizione dell’opera, tradotta e commentata assieme alle Quaestiones Graecae dai francesi M. Nouilhan, J. Pailler e P. Payen; e nel 2002 le Quaestiones Romanae fanno finalmente la loro comparsa nella collana “Les Belles Lettres”, a cura di Jacques Boulogne. Entrambe le edizioni francesi non aggiungono tuttavia materiali ed osservazioni significative rispetto allo studio di Rose.
               Un commento breve, che miri essenzialmente a ricercare le fonti di Plutarco ed a suggerire alcuni passi paralleli sull’argomento discusso, tradisce nei lavori fin qui citati l’ovvio presupposto interpretativo che le Quaestiones Romanae siano un’opera di antiquaria. Quest’ultima definizione, normalmente adottata a partire dalla classificazione dei Moralia di Ziegler, risulta del tutto condivisibile se si valorizzano nelle Quaestiones Romanae l’eterogeneità dei contenuti, la frequente arcaicità dei costumi analizzati e la tendenza a soffermarsi sul particolare piuttosto che descrivere una cerimonia nel suo complesso. Ma l’erudizione non è che una delle componenti di questo singolare trattato. Partendo dal titolo greco della raccolta, si potrebbe parlare infatti anche di opera eziologica: il termine Aitia indica che Plutarco non si accontenta di descrivere ai suoi compatrioti un costume romano (“i Romani fanno questo”), ma vuole soprattutto spiegarne le cause, le origini (“i Romani fanno questo perché…”). Il ruolo del filosofo di Cheronea non è così per noi quello di un semplice testimone di alcuni importanti aspetti dell’antica civiltà romana, quanto piuttosto quello di un interprete: la notizia dal passato non ci arriva, come accade solitamente, nuda e semplice, ma corredata di una o più spiegazioni, che Plutarco poteva attingere dalle sue svariate letture o formulare personalmente, sulla base delle sue riflessioni. Riflessioni di un ‘antico’, e come tali estremamente preziose per noi moderni che tentiamo di ricostruire le coordinate culturali della civiltà classica. La nostra indagine sul mondo romano si trova così ad essere preceduta e guidata da quella di un osservatore che certo a quel mondo era più vicino di noi. Rispetto ad altri studiosi ‘dall’esterno’ del popolo romano, che si occupano di narrare la storia di Roma soffermandosi occasionalmente su usanze che suscitano la loro curiosità (è il caso ad esempio di Dionigi), Plutarco imposta a priori la sua opera proprio come ricerca sui significati dei singoli costumi. La mera notizia di antiquaria in questo modo si arricchisce, si amplifica, in un ventaglio di possibili soluzioni del problema rivelatrici, ciascuna, di un particolare meccanismo del pensiero antico.
    Ma torniamo al nostro problema di ‘genere’. Prendendo in considerazione l’aspetto formale delle Quaestiones Romanae (il cui impianto retorico fisso prevede una domanda introdotta dal modulo dia ti, cui segue una serie di possibili risposte, nella forma di interrogative disgiuntive), Italo Gallo classifica la raccolta come Problemata Literatur, filone letterario diffuso nelle scuole di filosofia ed in particolare nel Peripato. Ora, l’originalità di Plutarco nell’utilizzare questo modello formale consiste nell’applicarlo ad una cultura diversa dalla propria: i contorni dell’opera di antiquaria e di pura erudizione si complicano nella misura in cui interviene da parte dell’autore una componente che potremmo definire ‘etnografica’. L’operazione di Plutarco è per molti aspetti l’operazione di un antropologo. Il mondo greco e quello romano infatti, pur presentando tra sé indubbi collegamenti e similarità, costituiscono comunque due culture diverse, ed è sulla diversità che lavora l’antropologo; e questa collocazione dello scrittore all’esterno della cultura indagata gli consente di formulare come problemi alcuni aspetti del costume, del rituale e della vita quotidiana che un Romano probabilmente non vedrebbe come tali. A condurre questa indagine sul mondo romano è inoltre una figura di letterato tutt’altro che comune: un greco colto erede, testimone e interprete del grande patrimonio della cultura classica, ma allo stesso tempo buon conoscitore di Roma, in virtù dei suoi soggiorni nella città e della frequentazione di una cerchia di amici dell’élite politico-intellettuale. Una personalità a cavallo tra i due mondi, in grado meglio di ogni altro di notare somiglianze e differenze tra le due culture. Plutarco è dunque capace nella sua ricerca di intuizioni felici dovute alla sua familiarità col mondo romano, ma allo stesso tempo è passibile di errori, di fraintendimenti nella lettura delle fonti latine, di schemi di interpretazione rivelatori di un’ottica pur sempre greca.
    A partire da questa definizione delle Quaestiones Romanae come opera di ‘antropologia’ (le virgolette sono d’obbligo, quando si applica al mondo antico una categoria di pensiero moderna), la tesi di dottorato si propone essenzialmente di analizzare i caratteri della raccolta restituendo centralità alle osservazioni ed alle scelte dell’autore, allo scopo di ricostruirne e tracciarne il ‘metodo d’indagine’. Una prima osservazione merita senza dubbio la selezione del materiale da parte di Plutarco. Le questioni sono state da tempo raggruppate secondo quattro tipologie tematiche fondamentali: il rituale, la parentela, le istituzioni e il calendario. Ma i meccanismi di elaborazione delle domande si rivelano assai più complessi. Se ci chiediamo quali ‘molle’ fanno scattare l’interesse di Plutarco verso un certo costume, arriviamo infatti a visualizzare cinque meccanismi fondamentali:
    -         Proibizione: un numero elevato di questioni è formulato al negativo o contiene verbi che esprimono divieto: l’antropologia di Plutarco è rivolta di preferenza a quelli che potremmo definire, con termine moderno, i tabù, le proibizioni che colpiscono la società romana nel suo complesso o singole figure religiose quale il Flamen Dialis.
    -         Eccezione: rilevata una certa regola, Plutarco si sofferma sulle sue apparenti deviazioni: se tutti i sacerdoti possono essere esiliati o deposti, non così l’augure, che mantiene a vita la sua carica (q. 99).
    -         Opposizione: riguarda molto speso l’asse maschile/femminile: uomini e donne si vestono e si comportano differentemente in occasione dei funerali dei genitori (q. 14); in giorni diversi cade il loro dies lustricus, la cerimonia di imposizione del nome (q. 102).
    -         Anomalia: Plutarco si propone di spiegare casi che sembrano andare contro un modo di pensare comune, una ‘regola antropologica’ di vasta diffusione: così l’avis sinisteria, l’uccello proveniente dalla sinistra e considerato di buon auspicio, viola palesemente il principio della preminenza della parte destra (q. 78).
    -         Specializzazione: concerne spesso le denominazioni linguistiche: quale moneta in particolare è detta lucar (q. 88); quale differenza corre tra la qualifica di patres e quella di patres conscripti (q. 58).
     
    Un’analisi attenta meritano anche le risposte che Plutarco elenca per ogni problema. Nella successione delle disgiuntive le soluzioni vengono proposte dall’autore secondo un ordine di ‘probabilità’. Le preferenze date da Plutarco ad una spiegazione saranno indicatrici del modo di procedere dello studioso, dei criteri organizzativi del suo metodo d’indagine; ma anche le risposte da lui scartate come meno probabili o addirittura rifiutate come assurde (ipotesi che Plutarco poteva aver trovato nelle sue fonti o forse addirittura raccolto oralmente nel suo soggiorno a Roma) potranno permettere di scoprire aspetti importanti della mentalità antica, e specificamente i processi con cui il pensiero antico creava ed elaborava le sue radici, le cause da porre all’origine delle proprie istituzioni. L’ordine delle soluzioni, i passaggi attraverso cui si snoda la riflessione di Plutarco, restano invece in ombra nei commenti alle Quaestiones Romanae, tesi unicamente all’individuazione ed alla discussione della ‘risposta giusta’, della soluzione corretta alla domanda proposta. Sarebbero invece da evidenziare anche in questo caso i ‘binari’ su cui si muove Plutarco: la preferenza data alle cause etiche (per cui un costume si trasforma spesso in un insegnamento codificato); la ridotta presenza di racconti e personaggi (che costituivano il modello più tradizionale di eziologia), relegati frequentemente nelle prime risposte e visti come la ‘soluzione romana’ del problema; il richiamo costante alla Grecia come metro di raffronto, in un’antropologia che gioca spesso sulle somiglianze più che sulle differenze. Quest’ultimo aspetto è stato messo bene in luce dai recenti studi di Jacques Boulogne, che ha il merito di aver riportato l’attenzione della critica sulle Quaestiones Romanae. Nella sua lettura del testo l’antropologia di Plutarco viene tuttavia ridotta ad operazione politica e propagandistica: più volte la raccolta viene presentata come un’opera finalizzata a descrivere con accenti lusinghieri i mores romani, allo scopo di spingere i compatrioti di Plutarco a meglio tollerare il giogo politico dei dominatori, oppure (posizione complementare alla precedente) a dimostrare la ‘grecità’ della cultura romana, le radici greche di religione, istituzioni, modelli di pensiero del popolo romano, in un programmatico tentativo di appropriazione della cultura dell’altro.
    La nostra ricerca ha dunque l’obiettivo primario di tracciare i caratteri dell’antropologia di Plutarco, mostrandone gli stimoli, gli strumenti, i meriti ed i limiti. A questa parte di carattere generale seguirà una sezione in cui saranno oggetto di un’analisi più approfondita le questioni riguardanti il matrimonio, nell’ambito delle quali si cercherà di distinguere quanto della ricostruzione di Plutarco è autenticamente ‘romano’, quanto è invece spia di un modo di pensare greco, e quanto infine appartiene alla visione personale ed ideale che Plutarco più volte traccia del rapporto tra marito e moglie, ad esempio nei Coniugalia Praecepta.