Universit� di Siena
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    Il lessico della 'tradizione'

    Abstract tesi di dottorato di Vanessa Ghionzoli

    Il progetto di ricerca inizialmente presentato, a cui avevamo dato il titolo, puramente indicativo, di "Mos, mores maiorum: come pensare l'identità del popolo romano", intendeva indagare la categoria antropologica del mos maiorum, ma non delineava chiaramente i limiti e gli orientamenti della ricerca stessa, proprio perché si trovava in una fase più propositiva che definitiva.
    Ci sembrava interessante studiare quelle fonti da cui trarre notizie utili alla costruzione del modello antropologico rappresentato dal mos maiorum, nell'intento di delineare i contorni, individuare i contenuti e forse anche, in una fase successiva, comprendere la sostanza di quella categoria che più di tutte identifica la civiltà romana, che la fa radicare nella tradizione e che costituisce l'humus fertile da cui si origina e si alimenta la memoria culturale degli antichi Romani.
    Seguire le direttrici di un tale progetto di studio, che si proponeva di indagare il valore, il ruolo, ma soprattutto le molteplici funzioni, plasmanti e plasmabili al tempo stesso, che il mos maiorum esercita nella società romana, avrebbe comportato sondare, in ultima analisi, le fondamenta e gli sviluppi della cultura romana stessa, sia nelle sue infinite implicazioni e articolazioni, sia sotto tutte le possibili prospettive conoscitive, in una dimensione diacronica (dall'origine del mos maiorum alle sue successive evoluzioni e ri-determinazioni), e sincronica (in quanto il mos costituisce la costante più significativa e caratterizzante della civiltà romana).
    Con l'avvio dell'indagine ci siamo resi conto che da un lato la categoria del mos si pone come istanza collettiva e unitaria, percepita dagli stessi Romani come fondante del loro essere, appunto, Romani, dall'altro si rivela e si realizza concretamente come una pluralità composita di costumi, come una articolazione variegata di abitudini e valori, come un conglomerato di tradizioni ricche di sfaccettature non sempre concilianti e coerenti tra loro: insomma mos da un lato, mores dall'altro,"tradizione"/ "tradizioni".
    Si sarebbe aperto alla nostra attenzione un ventaglio assai ampio di mores maiorum: virtus, fides, pietas, constantia, modestia, pudor, gravitas, dignitas, auctoritas, concordia, amicitia, humanitas, probitas, honor, etc.; questi ed altri, infatti, i “costumi degli antenati”, per cui il plurale mores dispiega tutta la sua valenza qualitativa.
    Ma quanti altri ancora sono i valori che si fregiano del titolo di mores maiorum?
    In che modo concorrono a definire questa categoria una e molteplice?
    Se molti sono i “valori – cardine” intorno ai quali deve ruotare l'esistenza del civis Romanus, l'individuo, l'uomo sociale, che si realizza nella realtà collettiva, il populus Romanus, e se molte sono le modalità in cui tali "costumi" si presentano nel corso della storia romana, risulta quanto mai difficile, se non impossibile, controllare e definire questa fitta trama di accezioni, questo intreccio di implicazioni storiche e antropologiche che configurano un quadro sociale fluido e statico al tempo stesso; i mores sfuggono ad una traduzione unica e definitiva proprio perché si fondano su una contraddizione imprescindibile: essere da un lato concepiti come il più indiscutibile codice di regole comportamentali, dall'altro essere oggetto di rideterminazioni e risemantizzazioni, dapprima lievi ed appena percettibili, ma col tempo talmente significative da mettere in discussione ogni definizione precedentemente acquisita.
    Ci siamo ovviamente posti alcuni interrogativi proprio nel momento in cui ci proponevamo il raggiungimento di alcuni obiettivi, seppur preliminari: ci siamo, infatti, domandati se sia mai verificabile in maniera scientifica quel paradosso, che sta alla base del mos, per cui per la sopravvivenza dello stesso mos, i maiores devono scendere continuamente a patti con i minores; inoltre ci siamo chiesti quali fossero i criteri di metodo con cui sarebbe stato possibile rintracciare e analizzare tutti i singoli casi in cui i Romani si permettono di "negoziare" con gli antenati, di modificare il dettato del mos per adattarlo di volta in volta alle situazioni, a quel presente che non può sfuggire ai cambiamenti ed alle trasformazioni.
    Ma soprattutto, seguendo quale pista avremmo potuto ricondurre quei singoli casi ad un unico paradigma antropologico?
    Ed ancora, come affrontare concretamente un tema così vasto e complesso e come selezionare le numerose fonti a disposizione? Queste ed altre sono state le nostre perplessità, per altro condivise dagli stessi docenti.
    Abbiamo riflettuto a lungo, quindi, sulla necessità di circoscrivere l'argomento e di stabilire una prospettiva d'indagine più legittima da un punto di vista metodologico e valida scientificamente, per valutare in profondità la portata di quel codice che stabilisce l'appartenenza etnica e culturale dei Romani, che definisce la loro identità di popolo.
    Il dialogo con i docenti, le perplessità condivise con i colleghi dottorandi, i colloqui col coordinatore ci hanno aiutato a chiarire molti dubbi in merito, a superare alcune delle difficoltà iniziali, ad acquisire una maggiore consapevolezza e ad oggettivare gli interessi di studio, infine a delineare i principi metodologici di indagine.
    Il progetto preliminarmente proposto, quindi, è stato in parte modificato.
    Ci è sembrato opportuno, infatti, e certo più interessante, impostare il lavoro in una diversa prospettiva: per lavorare sulla contraddittorietà della nozione stessa di mores e per superare quella visione monolitica e parziale del mos,mores maiorum, si è imposto come principio fondamentale quello penetrare nei singoli “interstizi” del codice, nelle mancate connessioni con un sistema culturale che solo apparentemente conosce una ferma coesione, ma che di fatto realizza più di una volta un incontro con "l'anello che non tiene".
    Ma per analizzare e comprendere le contraddizioni interne e gli scarti tra un prima e un dopo, ci sembra indispensabile tracciare dei confini, dei limiti culturali, marcare ciò che è peculiare della civiltà romana da ciò che non le appartiene, individuare le differenze sostanziali, quindi caratterizzanti da un punto di vista antropologico, tra il codice romano e codici "altri", tra il sistema culturale romano e orizzonti culturali diversi; solo definendo questi "prolegomeni" della ricerca, sarà forse possibile giungere ad una definizione più attendibile del mos, ad una sua "traduzione" più verificabile.
    Confrontare per differenza: questa ci è sembrata la via di indagine più opportuna.
    Ma quale il sistema culturale con cui gli antichi Romani si sono da sempre confrontati, a quale civiltà "altra" si sono riferiti e rapportati, per differenza o analogia, se non a quella greca?
    Una riflessione di Quintiliano ha aperto uno spiraglio alla nostra ricerca, apportando stimoli impensati: mi riferisco al passo in cui Quintiliano constata l'impossibilità di rapportare il mos alla cultura ellenica: ethos cuius nomine ut ego quidem sentio, caret sermo Romanus; mores appellantur, atque inde pars quoque illa philosophiae ethiché moralis est dicta Sed ipsam rei naturam spectanti mihi non tam mores significari videntur quam morum quaedam proprietas; nam ipsis quidem omnis habitus mentis continetur  (Inst.or., 6,2,8-9).
    Non solo, ma anche Cicerone ricorre al termine mores per tradurre quod ethos illi vocant (De fato, 1, 1), arricchendo la lingua latina dell’aggettivo moralis; ma poi nell’Orator constata la profonda diversità semantica dei due termini e preferisce tradurre il senso di ethikòn con una perifrasi piuttosto elaborata: ad naturas et ad mores et ad omnem vitae consuetudinem accomodatum (Or. 37,128).
    Potremmo cercare di capire se è legittimo confrontare mos con una corrispondente categoria antropologica ellenica: ma, ci chiediamo, ne esiste una davvero corrispondente? Inoltre, è legittimo considerare ethos e mos come valori culturali simmetrici, pacificamente confrontabili? Godono, per così dire, di una sorta di "proprietà riflessiva" della traducibilità, ed è legittimo chiedersi se sia mai esistito un ethos ton pateron, o ton archaion, corrispondente a mos maiorum? E se ciò non fosse, per quali istanze antropologiche, per quali dinamiche storico-culturali, non avviene?
    La nostra impressione iniziale, ovviamente ancora tutta da verificare, è che i due termini, e quindi le due categorie, ethos- mos, non siano né coincidenti, né assimilabili.
    Questo il punto di partenza, da qui l'avvio della nostra ricerca: analizzare il lessico della "tradizione" a partire da ethos, per studiare altri termini vicini e quindi altre nozioni ad esso contigue nella civiltà ellenica, in una prospettiva comparativa in cui la categoria del mos / mores maiorum sia la direttrice di ogni movimento speculativo, l'inizio e la fine.
    In questo periodo sto cercando le occorrenze di ethos in tutte le sue declinazioni da Omero a Erodoto, dai lirici ai tragici, enucleando tutte le varie accezioni per incrociarle tra loro; in parallelo a questo lavoro mi sto dedicando allo studio linguistico della radice i.e. *swedw, che sta alla base di ethos e dei suoi derivati (a partire dal termine omerico hjqei'o", che dischiude un panorama assai interessante, ed ancora piuttosto oscuro, di relazioni sociali).