UNA CORALE PER VOCE SOLA
APPUNTI DI LETTURA SU UN RARO DI LUZI
di Rosaria Lo Russo
«Ma, e questa Rosalia, [...] che nomini nel sonno e invochi,
sarebbe la santa di Palermo... o la tua sposa? [...] – Né santa
e né
sposa, sua eccellenza. È solamente il nome...»
«L’amor simultaneo e confuso che scorre per la cerchia, che
brucia e libera d’ogni egoismo e peso, ch’esalta ognuno, ogni
rosa
del rosario, e che s’esalta, che prende tutti insieme e che
trascina,
vorticando fortemente, verso l’Altro, verso l’Amor sublime.
Ed era io l’istromento, l’anello, il passaggio necessario, il
motore
primo del miracolo» (parole dalla confessione di Rosalia)
Vincenzo Consolo, Retablo
Perché il Corale di Luzi per
Santa Rosalia? Teatro di poesia, ma qui soprattutto poesia di un sentimento del
teatro interiore, dell’invisibile teatro delle voci: la «festa barocca» è un unicum
nell’opera del poeta; poesia della fisicità, felice versus di
un’opera dall’anelito alla creaturalità disincarnata; e poi lavoro anomalo, su
commissione, e infatti, paradossalmente, il più intrinsecamente ‘spettacolare’
nella drammaturgia dell’autore e il più suggestivo e stimolante per
un’appassionata cultrice dell’effimera materialità del teatro, e di altra sacra
materialità: la devozione popolare come bisogno d’incarnazione, il rituale
della processione del corpo santo, sono temi di questo teatro in poesia e temi
anche del mio ‘teatro’ poetico per voce o per scritto: Invocazione e
Incarnazione, l’Incarnazione che avviene, che accade tramite l’Invocazione,
l’esclamazione. Il Corale è per la voce. Il poeta-«cantore »,
cantastorie, si è reso acquiescente ad accogliere le altrui voci per
restituirle nella mimesis teatrale, sopraffatto dalla fascinazione, dal
piacere della lettura della prosa del gesuita secentesco, la storia e la
leggenda Di Santa Rosalia, vergine palermitana; il poeta riscrive quel
racconto, sradicato dalle proprie radici culturali e espressive, mimetizzandosi
in cantore popolare: così mimando il narrare del cantastorie mimetizza il suo
dettato poetico, ma senza perdere la sua cifra di riconoscibilità,
trasponendolo per voce, cioè non rivolgendo al lettore solitario ma ad
una collettività di ascoltatori un testo che è formulare, rituale, dunque in sé
orale, un corale. Nella mimesis teatrale, nell’imitazione
del Teatro Barocco come luogo dell’anima, si riflette la sapienza orale di un
cantare popolare gaiamente nitido eppure estremamente ridondante, da
proclamare, dunque da declamare, riproducendo la semplicità formale, metrica e
prosodica, tipica della poesia popolare: la struttura prosodica fortemente
divaricata nei suoi pochi, elementari, registri di base, la compattezza ritmica
tambureggiante, raggiante, dei versi brevi, esclamativi, la ritmicità
accentuata dalla costanza dell’andamento anaforico e ritornellante, l’uso
generoso (barocco) delle rime baciate, interne, alternate, sono mezzi che
favoriscono la mnemotecnica del cantastorie, e la memorabilità del sacro
racconto popolare, ma anche restituiscono la memoria del «cantore»-poeta, e del
«cantore» che il testo nomina, così chiamando implicitamente in causa qualcuno
cui la voce del testo si affidi. Allora qui vorrei ricordare
l’esperienza di un’incarnazione vocale, ovvero dell’invocazione solitaria
del racconto corale. Tralasciando la struttura drammatica, il testo si
trasforma in un monologo di più voci, la voce sola diventando moltitudine di
voci per raccontare il corale.
«Sembra che gli eruditi arabi, parlando
del testo, usino questa stupenda espressione: il corpo certo», scrive Roland
Barthes ne Il piacere del testo, dove leggiamo ancora: «Tutto lo sforzo
consiste nel materializzare il piacere del testo». Ma se soggetto e oggetto
coincidono, dobbiamo immaginare una sinonimia fra i termini centrali di questo
ossimorico discorso corale per voce sola: incarnazione e invocazione convergono
nella figura di Rosalia, è lei il testo, il corpo certo,
in quanto soggetto/oggetto dell’invocazione/incarnazione, e lo sforzo della
lettura, della vocazione del testo, consiste proprio nel materializzare
la sua figura testuale; il piacere del cantore/poeta – Luzi nelle pagine
prefatorie ricorda che è stato quel prezioso libro barocco, prezioso nella
foggia l’oggetto di lettura, preziosa la sua scrittura, ad insinuargli «la
voglia (e il piacere)» di raccontare di nuovo, di rivivere la leggenda della
santa – come poi del cantore/lettrice, consiste nel restituire agli ascoltatori
l’evento vocativo di quest’incarnazione tramite il racconto, come
poi del suo farsi nuovamente presente nel racconto della voce recitante.
La lettrice non dovrebbe interpretare,
spostare l’attenzione su di sé, quanto piuttosto, recuperando l’origine
emozionale del testo, riscriverlo per voce; dovrebbe essere invisibile, farsi
solo voce. Dalla lettura ad alta voce deve emergere non un significato
oggettivo, ma il senso oggettuale del testo, la sua originaria, perduta
(nella scrittura) tridimensionalità orale: maneggiando l’impasto verbale del
testo di lettura (con la mente, ma anche letteralmente manipolando i brani per
conoscerlo) alla ricerca delle sue dominanti sonore (ma anche delle devianze
alle norme, delle distorsioni, degli accidenti non casuali), la lettura
dev’essere ricerca e poi restituzione del macrosignificante metrico-prosodico
del testo, del suo proprio accento. Appropriarsi del testo fino allo
stordimento, fino a dimenticare anche la propria opinione riguardo al testo,
per trovarsi di fronte ad un magma sonoro indistinto che, inizialmente
ricondotto alla sua sostanza primaria, deve poi riprendere la sua propria
forma, deve essere ricostruito come oggetto di lettura: allora si può oggettualizzare
le voci del testo. Trovare e restituire il respiro proprio, il pnèuma che
circola nel testo: la lettura ad alta voce è un modo dell’ex-stasis; il
movimento vocale recuperando le dinamiche foniche e ritmiche del testo poetico
estroflette, inarcandola, la giacenza tipografica. Ecco la «festa barocca» del
teatro della voce, del teatro luziano delle Voci: invocando l’Altro, gli
altri, si può uscire dal sé, dall’esperienza solitaria della poesia, per
incontrare e riconoscere l’Altro, gli altri. Ecco la «festa barocca» della voce
recitante: farsi possedere dalle Voci, incarnandole, significa
materializzare l’Altro-in-sé, uscire dal sé facendo defluire le altre
voci-in-sé.
Materializzare questo piacere del testo-corpo
certo: ho cercato di dar voce alle voci del poema, al corpo poematico (il
racconto) sviluppato dal testo drammatico: se il corpo testuale, la
scrittura, invoca l’incarnazione della parola-nome in un corpo femminile, il
corpo vocale invoca quell’epifania del nome-corpo femminile attestandola nell’emissione
della materia sonora del testo scritto. Insomma il farsi corpo di un nome
fragile, l’esistenza, forse la sopravvivenza stessa della leggenda del corpo
santo di Rosalia, dipende dalla voce corale del cantore, implicita nel
testo, ma può farsi esplicita nella lettura per voce sola, se la voce stessa è medium
estatico della santità del corpo, il soffio che lo anima, nella nominazione.
Il soffio entusiastico, il pnéuma enthousiastikòn, è dono della voce che
racconta agli altri il racconto, perché accoglie con acquiescenza le voci del
racconto facendosi di esse mero tramite. La voce è tramite corporeo del testo,
la vocazione diventa canale di trasmissione del godimento del testo.
Il centro della vicenda, il cuore del
«racconto» (e della vocazione) è il ritrovamento delle ossa, e forse di un
cranio, dell’essenza di quella che, forse, fu «una creatura umana»; il cuore
del racconto è l’essenza della devozione: scavare nella pietra, disseppellire
ossa, dalla spoglia durezza dischiudere il corpo di Rosalia, ricostruire dai
miseri «frammenti» di un ossario il corpo santo. È la devozione mistica ad
istituire l’immaginaria sinonimia fra invocazione e incarnazione. Per devozione
il Coro desidera il racconto, vuole ascoltare la storia narrata dall’Angelos
soltanto in quanto riguarda direttamente la presenza di Rosalia: il Coro
tramite il racconto, tramite il desiderio del racconto, desidera la santa,
s’innamora di Rosalia, chiede e ottiene la sua incarnazione tramite
l’invocazione, reclamando la vocazione dell’Angelos; e per
devozione-vocazione l’Angelos, messaggero del racconto, messaggero oblativo,
donando il racconto, tramite il racconto, fa delle reliquie un grande corpo di
donna, è l’amoroso che dona, a chi accoglie il suo messaggio, il corpo della
santa.
Chi è Rosalia? La santa e l’amante,
l’Amante Divina: l’Angelos afferma che Rosalia nasce «dall’attesa degli uomini»
e il Coro replica: Rosalia è l’«amante» «con cui vogliamo far festa». L’Amante
Divina: com’è esemplata nel romanzo di Consolo, dove continuamente s’invoca,
struggendosi nel desiderio della carne e dello spirito, il nome di
Rosalia-«rosario d’estasi», essendo nel nominare il nome il legamento d’amore,
essendo il nome di una vergine l’ambiguo legame fra santa e prostituta.
Così questo raro di Luzi sembra accodarsi mimeticamente al linguaggio della
tradizione contemporanea della committenza che lo ha prodotto, a quella linea
imperante dello «stilnovismo patologico» di cui diceva Sciascia, in Pirandello
e la Sicilia, a proposito delle ossessioni femminili degli scrittori di
Trinacria. Tale elemento ‘patologico’, allotrio alla poetica del Tu femminile
luziana, stravolge l’ordito testuale usuale del poema luziano: l’improbabile
barocco siciliano di Luzi ha il fascino – appunto metapoeticamente barocco
– di un profondo straniamento. I versi – come le azioni sospese – sembrano
srotolare un teatro dell’estraneità, dove ogni slancio elastico delle presenze,
invece che concretarsi, tende ad apparire per ritrarsi immediatamente, dove
ogni personaggio esiste per svanire.
Il racconto racconta la storia
dell’incarnazione di Rosalia e l’accesso d’amore estatico, mistico, che
quest’incarnazione suscita nel popolo, il tentativo del popolo di darle un
corpo tangibile, una voce udibile: per devozione mistica la voce popolare
«reclama» la santa, il sacro che s’incarna diventa sensuale. Restano soltanto
le «sante reliquie / di una santa desiderata, / la vergine Rosalia », di lei
restano solo frantumi petrosi: è la sua irriconoscibilità, che diventa
irraggiungibilità, a destare il desiderio, a stimolare il bisogno inesauribile
di ricostruire una sua possibile immagine, anzi la sua vera immagine: il
corpo-nome della vergine. Questi frantumi, questi frammenti indistinti,
sembrano provenire, secondo il Perito e il Chirurgo, non da femmina umana, ma
da «animale antico »: ecco, fra purezza verginale e ferinità atavica si colloca
l’essenza misteriosa dell’ambiguità del desiderio mistico per la santa
incarnata; la ferinità del reperto aumenta il desiderio di ricostruzione della
sua immagine corporea femminile. Desiderio condiviso anche dalla devozione
della donna santa che patisce la «dimenticanza» del suo corpo: anche Rosalia
partecipa della generale invocazione, vuole la propria incarnazione.
Straordinariamente anche Rosalia, corpo-reliquia che la devozione popolare
vuole ricreare nella sua interezza, vuole allo stesso modo e per le stesse
ragioni riaffermare la propria sensualità; in Conversazione di santi dice:
«Ho molto a lungo patito / la sottrazione del corpo, / la sottrazione dell’io»,
parole che corrispondono in maniera inquietante alla voce e agli intenti
dell’Infermo. Ascoltiamo al proposito anche il Cardinale: «il corpo di
Rosalia», una volta «dissepolto», diventa congiunzione col divino e dunque
«trionfo» «da ogni malattia», salvezza da ogni deturpamento corporeo, ma anche
da ogni ‘caduta’ effettiva nel corporeo. Allora come potrebbe Rosalia
riprendere effettivamente sensi umani? Questo è l’interdetto. Creato dal
desiderio maschile, l’ambiguamente venerato corpo santo dice il tripudio,
l’esaltazione del corpo femminile, ma anche la penitenza inferta alla beatrice
dalla venerazione, dalla beatificazione: «Così mi danno dolcezza / e insieme
supplizio», confida Rosalia; ogni beatrice, proiezione dell’altrui desiderio,
patisce la sottrazione del suo corpo reale, ed è perciò l’Inferma per
eccellenza: di lei, in lei si desidera l’anima, e solo per atavica etimologia
anche l’animale.
Ma questa sensualità patita è la
ragione profonda del piacere d’ogni vocazione, anche del sottrarsi per
dar voce ad un testo.
Riporto qui di seguito gli appunti di
studio per la lettura del Corale della città di Palermo per Santa Rosalia,
articolata, rispettando la sequenza testuale, in sette parti:
1) ...Voci di popolo
Annuncio della «festa barocca» nelle due
tonalità dominanti: quella «esultante», gaia, rapida, presta, declamata in
levare, secondo la propria gradazione ritmica ascendente (climax), e
quella «triste», grave, cadenzata in battere, secondo la propria gradazione
ritmica discendente (anticlimax). La terza tonalità riguarda il
ritornello: «Nasce dalle sue ossa! / Principia dalla sua fossa!», qui
bisbigliato per suggerire l’avvento imminente dell’incarnazione e per dichiararsi
come voce di sottofondo, e di sfondo dell’intera vicenda narrata, del
poeta (perciò bisbigliante, accennante) che trascorrerà poi per tutto il poema
ma affidato, appunto, all’accento declamatorio delle Voci dal fondo. Qui il
poeta-cantore suggerisce le valenze profonde che come tali si esplicitano nella
sezione finale del testo in lettura.
2) Coro - Angelos
È l’avvio sognante, ancora confuso, del
movimento poematico, dell’ex-stasis vocale: il sogno d’incarnazione.
È il racconto nel racconto, il racconto che chiede insaziabilmente
d’essere narrato, di potersi dispiegare. La santa appare in sogno ad una donna
per dare indicazioni al popolo circa il suo ritrovamento nel Monte Pellegrino,
dove l’«antica voce isolana» leggendaria già narrava che vi fossero celate le
sue ossa. In sogno la santa convoca il suo popolo invocando il racconto; perché
il racconto avvenga, perché nasca il canto corale la voce della santa parla
tramite l’estasi di Geronima, invasa del pnéuma enthousiastikòn della
vocazione. Levità di sogno della dimensione originaria del racconto: l’Angelos,
rievocando un sogno estatico, dà l’annunzio con voce dolce e chiara,
sussurrante, ‘filata’ si direbbe nel linguaggio del canto lirico. Perché anche
se la prosodia è già densamente anaforica la rievocazione qui non
giustificherebbe accenti marcati, e dunque bisogna piuttosto assumere toni
lievi e sfumati. Quindi, dopo aver impostato i due ritmi e toni dominanti in
1), qui il racconto decolla in sordina perché Rosalia, tramite l’Angelos, che è
a sua volta tramite di Geronima, lamenta la «dimenticanza», con voce dolcemente
imperiosa accusa la smemoratezza, il suo essere «persa, caduta» dalla memoria
del popolo. Ma dopo una prima blanda rievocazione, in chiusura si fa già più
oscuramente martellante il ritornello delle Voci dal fondo: «Nasce dalle sue
ossa! / Principia dalla sua fossa!»
3) Coro - Angelos
Il personaggio principale, la figura
determinante per l’accesso alla rievocazione ‘corale’, è il «cantore», il poeta
come cantastorie del racconto, colui che invoca il nome di Rosalia; e viene
nominato in questo stralcio del testo. Quindi deve essere la parola-chiave per
la lettura di questo brano. Dopo la convocazione di Rosalia, tramitata
dal sogno di Geronima, può iniziare la vera e propria invocazione; il Coro
incalza chiedendo il racconto («Racconta, racconta»), aspetta «l’incarnazione»,
e l’Angelos, baldanzoso, lo accontenta: «il vostro desiderio risuscita l’evento
». Invocazione come nenia, litania processionale, orazione anaforica dell’Angelos
che, messaggero del desiderio nascente per il nome di Rosalia, racconta
l’invocazione incipiente: «un cantore» «invoca» Rosalia e subito ottiene il
«consenso» corale del popolo: all’origine del desiderio del racconto è la voce
dell’io poetante, e qui la lettrice deve mettersi nei suoi panni, imitarlo,
farsi a sua volta «cantore» di un desiderio nascente.
La lettura del racconto dell’Angelos
deve essere interrotta al momento culminante (climax) dell’affabulazione
narrativa, quando annuncia l’avvenuto ritrovamento del «tesoro»: «le ossa / di
una creatura umana». Se l’Angelos interrompe a questo punto la sua narrazione,
il poema, perché cominci la rappresentazione teatrale, l’accadere degli eventi,
la voce sola della lettrice deve fare altrettanto: si tronca qui la voce
dell’Angelos, e perciò la vocazione, perché non assisteremo e non faremo
assistere ad una rappresentazione di azioni, ad un approdo fattuale. La voce
recitante, seguendo il movimento del poema, non può indugiare sugli
accadimenti, deve invece prolungare l’attesa, suscitare continuamente l’anelito
al racconto, alle svariate invocazioni, deve accendere il desiderio
dell’incarnazione, prolungare il bisogno del racconto, non soddisfarlo,
prolungando così il piacere del testo. Se oggetto del desiderio del
racconto, di chi lo chiede, di chi lo pronuncia, è un’incarnazione femminile,
il farsi corpo di un nome, bisogna che la lettrice proceda altrettanto sensualmente,
in modo altrettanto insinuante, e d’altronde dar voce ad un testo significa
sempre restituirgli la dimensione sensuale che gli è propria. Allora la
lettrice, inseguendo il racconto, ‘ai sensi’ del poema, adesso deve sfogliare
il testo, andare oltre quei quotidiani accadimenti che distraggono dal piacere
del racconto.
4) Coro - Angelos
Quando il Coro ormai «ha preso atto / e
conosciuto de visu» che il fatto del reperimento delle ossa e del cranio,
scientificamente inclassificabili, in sé non significa nulla, non si rassegna a
spengere il desiderio, e la sua voce si alza contro la perizia: «Ma, sappilo,
ci piace / assai di più il racconto / [...]. Prediligiamo il poema, / è più
chiaro, è più vero». Le voci del Coro e dell’Angelos vogliono ancora il
racconto e, senza scarti tonali significativi, all’unisono convòcano l’anatomia
della donna: l’Angelos, annunciando gaiamente che «la gente» vuole Rosalia,
«vuole quelle ossa / come sue reliquie», ironizza sui dottori che «non dicono
niente» riguardo ai «prodigi» avvenuti, partecipa del sentimento corale.
L’Angelos ironizza, forse lo scetticismo dei dotti deriva dalla paura, mentre
il Coro enuncia senza freni la «forza d’amore / che avvampa per Rosalia», forza
che «viene dal profondo, / è marina e sotterranea», forza primigenia, arcaica,
inquietante. Così l’Angelos suggerisce l’ulteriore chiave di lettura: dopo
l’affermazione che le «acclamazioni» popolari rivolte «al santo corpo / della
santa ritrovata», oltre ad essere «trionfali», sono «imploranti», ha inizio
l’alternanza, nella voce stessa dell’Angelos, fra il registro ironico e quello
grave: l’Angelos qui partecipa pienamente del pàthos drammatico del
Coro, risponde con la sua stessa voce. Narrando della sofferenza del corpo
dissepolto, delle «ossa di Rosalia» che, riesumate dal desiderio mistico e
arcano, «soffrono dissepolte / soffrono così esposte...» al ludibrio delle
perizie, l’Angelos partecipa al rituale evocatorio del ritorno in vita della
santa morta e sepolta. Il pàthos del tono grave annunciato in 1) come
pertinente al Coro, qui coinvolge anche l’Angelos: la cadenza in battere del planctus
folklorico, lo stuporoso rituale paraliturgico di lamentazione funebre, qui
unifica le voci del poema. In questo stralcio testuale, come del resto in tutto
il racconto poematico, la gradazione ritmica discendente dell’anticlimax è
caratterizzata, come la gradazione ritmica ascendente, corrispondente e
opposta, della climax, dall’uso simmetrico, rispetto a questa, delle
continue, ossessive rime baciate: però qui l’esultanza (climax) è
contenuta, è relegata a pochi accenti ironici, qui si spegne la baldanza. L’anticlimax
generale del planctus è il movimento vocale che prelude,
introducendolo, al momento determinante dell’invocazione poematica, quello che
riassume tutto il senso del bisogno corale: il lamento dell’Infermo. Segue, a
chiudere il brano di lettura, il solito refrain delle Voci, ma qui
appropriatamente connotato, nello stordimento rituale, dalla tipica funzione
consolatoria del ritornello: «Nasce dalle sue ossa! / Principia dalla sua
fossa!», e sia con voce cullante.
5) Un infermo - Voce
La voce dell’infermo proviene da «un
miserabile interno », suggerisce il poeta nella didascalia: per la lettura, nel
teatro invisibile della voce recitante, quest’interno diventa interiora
devastate dalla malattia. Il travolgente bisogno collettivo d’incarnazione del
sacro, bisogno di ricostruzione del corpo della santa per debellare la
malattia, la condizione di vita appestata, e ricostruire in salute (in
salvezza) l’intero corpo sociale, s’incarna nella voce dell’Infermo, del
corpo malato per eccellenza, che ha bisogno imminente di essere sanato
dalla santa. Il contagiato, il reietto, l’escluso dai tripudi e dalle
lamentazioni del Coro, è la personificazione allegorica dell’estrema mancanza,
voce dell’assoluta mancanza e del mancamento; essendo il più bramoso d’incarnazione
si fa figura emblematica del bisogno di salvezza che può essere conferita
dall’invocazione della santa, dal corpo santo in quanto ricostituito in purezza
tramite il racconto d’incarnazione. Il suo dolore, voce dell’interiorità
ferita, si staglia come metafora dell’assoluta necessità che il racconto, la
diceria, s’inveri, e perciò sia anche Catarsi, farmaco che possa ricostituire
anche le misere spoglie sociali.
La voce annaspante dell’Infermo è il
venir meno del soffio, una strozzatura nel fluire pnèumatico del poema:
nel Corale è lui lo scandalo, la voce che giustifica dal profondo
l’anelito di purificazione espresso dalla comunità: nell’incombenza della morte
il corpo malato si àncora alla vivificazione che può donare la donna, qui
invocata apertamente, in nome della sua essenza elementale primordiale,
come «acqua», liberatrice, purificatrice.
All’inizio, dalle oscure, disseccate
profondità della guttura, dalle profondità diaframmatiche del vocare
(dell’invocare), la sua voce invocante si stacca dal ‘corale’ per intensità di
sofferenza fisica, provenendo dal basso, salendo a fatica; la sua voce,
resultante della soffocazione pestilenziale (la peste investe, infetta il pnèuma),
inizia in strozzamento; la lamentazione fortemente cadenzata del «seppellito
vivo» dev’essere un rantolo proveniente da restringimento laringale, da una
compressione della laringe. Tre versi in particolare, secondo la tecnica di
sillabazione che analizza l’impasto verbale discernendo le qualità foniche che
gli sono proprie, conferiscono all’intero brano la sua cifra timbrica e
ritmica, ne determinano la fonazione. Su questi tre versi la voce deve
appoggiarsi più lungamente per sottolinearne l’esemplarità tonale rispetto
all’intero stralcio testuale: «sono l’àppestàto, dùnque», dove si sottolinea
l’energico ritmo anapestico ma con l’aggiunta volutamente forzata di un
ulteriore appoggio proparossitono e con la forte marcatura della doppia labiale
occlusiva sorda e dell’accentazione della vocale scura, la <u> velare; «muràto
nel suo disàstro», (ritmo anapestico), dove è accentuata la durezza fonica
delle sibilantidentali, soprattutto del nucleo <st> che, presente anche
nel verso precedente, costituisce una catena fonematica che connota per durezza
la scelta di una forzatura vocale, e che in questo verso va oltretutto in
stridente collisione con le vibranti liquide <r>. Per dare qui maggior
rilievo al valore delle consonanti, e accentuare il senso di sfascio fisico, di
perdita, di dolore, la voce si appoggia lungamente su un’apertura massima e
arrochita delle <a>. «Non farnético, è come dico»: verso nel quale si
giustifica testualmente la precedente accentuazione forzatamente
proparossitona, e si sottolinea di nuovo la durezza gutturale nel nucleo
fonematico <ico>, tanto fonicamente pregnante da costituire qui rima
interna.
A quest’essiccamento della guttura, al
lamento, segue, nel monologo dell’Infermo, l’invocazione vera e propria, che
qui coincide con la inascita, l’acquisto
della salute e della salvezza nell’avvento del corpo ecquoreo della santa
incarnata. Se nella strozza dell’appestato il fiato resta compresso, la voce
smozzicata, impedita a fluire, perciò l’Infermo invoca la pura ecquoreità
verginale della santa, la invoca sub specie di acqua che possa placare
la sua sete inestinguibile da malato. Nel momento finale del monologo, nel
momento della rinascita propiziato dall’incontro e dal riconoscimento
(agnizione) dell’avvento della santa come acqua di salute, anche il canto
ricomincia a fluire; all’avvenuta catarsi, all’esultanza e al tripudio,
corrisponde un’intensificarsi ipertrofico degli stilemi metrici costanti nel
canto corale: grande dispiego di rime interne, alternate, baciate, e ripresa
della ripetizione anaforica (in questo caso però non prosodica ma sostantivale).
Al capovolgimento del destino dell’appestato corrisponde l’inversione della
tendenza prosodica: alla cadenza grave, in battere, della lamentazione, segue
la cadenza in levare dell’esultanza. Ed è in un verso stupendo, fulcro
nevralgico del monologo, che si condensa il senso vertiginoso di questo
capovolgimento radicale dalla morte alla vita: il malato parla con Rosalia,
dice «ci veniamo incontro », «io dalla mia roccia, tu dalla tua carne»:
nella delirante, estatica visionarietà del malato mutano entrambi i destini
degli Amanti perché s’invertono i loro ruoli, perché avviene fra loro uno
scambio di condizioni corporee, quel passaggio di stato fisico
che permette la reciproca «liberazione» nell’unione mistica, nell’incontro sensuale
fra umano e divino. La «liberazione» reciproca, la salute e la salvezza di
chi invoca e di chi è invocata avvengono veramente, nel poema, solo per
l’accesso visionario dell’Infermo, nella reciprocità dell’Incarnazione intesa
come metamorfosi, sia umana che divina, dal non vivente al vivente,
dall’inorganico petroso all’organico, e per entrambi dal corpo impuro al corpo
come purezza: il corpo del malato, la sua carne seppellita nella rocciosità
dell’essiccamento mortale delle membra, corpo dimenticato, abbandonato nel
misero tugurio, sostituisce, prende il posto e l’identità del
corpo-reliquia della santa, già abbandonato nella roccia e nella «dimenticanza»
e poi dissepolto dalla pietra per prodigio dell’invocazione; ma quando il
misero ossario delle reliquie si fa «carne», quando, prodigio
dell’incarnazione, il santo corpo di voce soccorre il malato, nell’incontro con
la donna-acqua, la dissepolta, la sgorgante, l’Infermo viene a sua volta
dissepolto, salvato.
La Voce si contrappone nettamente al
lamento e alla guarigione dell’Infermo, è una canzone a «voce spiegata e
assolata» e ha la funzione di un intermezzo di colore locale, abbellito da
dialettismi e arcaismi (è l’unica voce di carrettiere presa in lettura per un
po’ di vezzo virtuosistico): «li», «so’«, «lu», «schifenza», «lo mio mestieri»,
«sé». Non da rendersi come canzone ma come nenia cantilenante perché la
didascalia suggerisce che questa «voce» agisce nel movimento «contro
il lento rotolare di un carro sull’acciottolato»: la voce recitante può
dunque imitare l’accento dialettale strascicato e brocciolante in una vocazione
che riproduca l’obnubilazione da afa. La
stessa disposizione grafica
dei versi suggerisce, piuttosto che il canto, una nenia assonnata, riproducendo
l’andamento dondolante di una voce inebriata dall’assolazione. È un ‘a solo’
cantilenante: assumendo come parola-chiave della fonazione l’ultima parola del
brano, «amara», in cui le tre <a> rappresentano il culmine fonico, per
massimo allargamento vocalico, dell’ondeggiare slargandosi, del non possedere
argini di questa meridiana e meridionale voce spiegata, la lettrice
indugia lungamente, allungandole, sulla pronuncia di tutte le vocali della
Voce, fino alla pronuncia, tenuta lungamente e allargata fino all’eccesso della
risonanza, della parola-chiave, cui segue l’improvviso spegnersi del canto
stesso. Due soli i toni alternati per rendere vocalmente la disposizione
grafica sinistra/ destra-dispari/pari dei versi: per i versi dispari un tono di
testa, alto, ma con risonanza occipitale invece che frontale perché la Voce è
appunto assolata e assonnata, mai lucidamente assertiva, ma evocativa, voce che
si allontana seguendo il movimento del carro, voce del movimento ebbro;
invece per i versi pari una risonanza pettorale, meno cantilenante e più vicina
al ‘recitativo parlato’, più piena, può riprodurre l’altro timbro della voce
ebbra, quello granuloso, slabbrato, la voce impastata di un carrettiere che
vaga senza meta nella morìa dilagante.
6) Coro - Angelos
Il Coro desidera il racconto, non si
sazia del racconto, incita l’Angelos al racconto; la bramosia amorosa per il
corpo santo qui si rivela in altra ebbrezza, nell’esultanza carnale dell’amor
sublime: il corpo di Rosalia mette «lo scompiglio» nelle menti, «è un
terremoto» la passione che «esplode e divampa», erompono insieme amor sublime e
amor profano, «pietà» e «ebrietà». Gaia esultanza e baldanza nella risposta
dell’Angelos che proclama la litania, quasi enunciasse un bando, della
beatificazione delle reliquie, del loro riconoscimento e del loro trionfo: l’Angelos
narrando annuncia l’avvenuta ricostituzione in santità-salute del corpo
desiderato e così finalmente soddisfa, nella rituale invocazione anaforica del nome
di Rosalia, il desiderio del racconto che è desiderio stesso di lei, perché
questa ricostruzione deriva dal desiderio stesso del racconto. «Va la
processione», ripete inesausto l’Angelos: per tutta la città di Palermo irrompe
il corpo santo della donna mentre rimbalza da una voce all’altra l’eco
del suo nome. Il corpo della santa invade la città, irrompe il nome nel canto:
processione dell’abnorme, anfibia potenza femminile, esorbitanza che sovrasta
inquietante dando festa e penitenza. Dall’invocazione e nell’invocazione sono
ricostruiti e si congiungono i due corpi processionali, i due corpi mistici, il
corpo della santa che si fa presenza tangibile nelle sue reliquie ricomposte
nell’«arca» e portate in processione, e il corpo popolare che la segue in
processione. Il racconto dell’Angelos, in questa sezione orgasmica del testo, è
suddiviso nelle stazioni che proclamano il trionfo della donna ripercorrendo le
tre fasi del processo della sua progressiva incarnazione: il riconoscimento
delle reliquie, la loro ricomposizione- beatificazione, la processione
trionfale del corpo santo che così si dona al desiderio degli uomini
appagandolo. Il poema dell’Angelos indugia minuziosamente nella descrizione
della processione del corpo-«arca» lungo tutta la città. Nel campo semantico
della donna- cqua l’«arca» s’inserisce dunque come simbolo metonimico ed
emblema della maternale accoglienza: come luogo originario, di nascita e di
morte, di principio e di fine, come luogo femminile, l’«arca» è ancora
«la barca»; l’explicit e l’incipit dell’infinito poema luziano si
ricongiungono.
L’Angelos proclama il trionfo barocco di
un corporeliquia addobbato, ingioiellato, sontuosamente macabro; il racconto
dell’Angelos si sdipana nell’eccitazione della festa barocca: la sequenza
dell’Angelos è l’eccesso del piacere verbale, un’ipertrofia sonora, la
vertiginosa dirompente sequenza di allitterazioni, di consonanze, assonanze,
l’ipertrofia barocca delle rime disposte, senza indugi, in versi brevissimi,
secondo una prosodia densamente anaforica e totalmente, infantilmente
assertiva: il proclama ha la struttura di una filastrocca popolare. Lo sfarzo
barocco: la filastrocca incalza nelle elencazioni: e l’elemento stilistico,
l’andamento asindetico, riverbera la natura delle cose elencate: così la festa
barocca raggiunge il suo acme espressivo. Il travestimento eccessivo, estremo,
cifra del sentimento del Barocco, si riverbera nell’estremo, eccessivo
travestimento metrico-prosodico del dettato: accresce la forte carica
espressiva della filastrocca il tipico uso asindetico dell’enumerazione, un
avido accumulo oggettuale nel prorompere dell’esultanza vocale.
Questo acme di baldanza, di piacere
verbale, l’allegria del messaggero, dell’angelo, di colui che racconta, che dà
voce ai fatti partecipando alla processione con l’anima (la
vocazione) piuttosto che di persona, va per ciò resa con toni alti, di
testa, con risonanza frontale: la sua voce è gaiamente infantile, cristallina,
cerebralmente stuporosa; mentre la bramosia di racconto del Coro, più
carnalmente partecipe, più passivamente in balìa della narrazione, va resa con
toni bassi, di diaframma, è un rumore che prorompe dal fondo delle credenze,
dal fondo ancestrale del bisogno mistico. L’alternanza Coro - Angelos deve
esprimere ciò che connota la festa barocca in atto: il senso dell’oltranza
estatica si riproduce con la massima divaricazione fra le due intonazioni, e
nelle forti coloriture timbriche delle parole che devono rappresentare le cose
elencate. Ma nello straripante barocco anche l’alternanza tonale di base non
può essere rigorosa e rigida: infatti il tono del Coro echeggia anche
all’interno del lungo proclama dell’Angelos, quando anche quest’ultimo, infine,
si lascia invadere dalle voci del popolo a cui si rivolge, voci (virgolettate)
che s’inframezzano al racconto, voci come intercalazioni spurie che spezzano, a
tratti, il fluire del suo racconto di «letizia» con l’eccitazione dei sensi,
con l’erompere della passione.
7) Coro - Angelos
Per un finale discendente, più lento,
riflessivo; le voci corali si appianano, i toni si fanno più distesi, e anche
la voce recitante a questo punto è stanca e ha bisogno di rientrare in sé, dopo
l’acquiescenza all’accesso estatico. Qui si placano il lamento e l’esultanza e
si approda al senso ultimo del racconto e al suo raccordo con l’infinito poema
luziano. Se il desiderio è stato finalmente appagato, lo stupore mistico invece
permane. Infatti l’Angelos dichiara avvenuta la guarigione: finite la siccità e
la pestilenza, i prodigi della santa sono finalmente manifesti. Ricompare
un’ultima venatura ironica: e questa volta è il Coro ad irridere i «dotti», i
«teologi», i «Gesuiti» che «non dicono niente», si ostinano ad ignorare le
valenze sensuali dell’estasi, e perciò non si pronunciano sul miracolo,
sul mistero femminile. La «nuova fatica» del racconto dell’Angelos è più
profondamente metafisica, deve trarre le fila del racconto sacro, del poema:
adesso si cerca non più di sentire ma di capire, di conoscere, di
ricordare chi fu Rosalia veramente. Ma questo è impossibile, anche se vorremmo
conoscere la sua storia, la storia che la donna reale visse, questa storia
nulla aggiungerebbe al miracolo e forse annullerebbe il mistero. Così al nuovo
stupore, alla curiosità del Coro, l’Angelos risponde in modo sapienziale: anche
se tutti «la vogliono donna», donna reale, lei non potrà mai esserlo. Rosalia «è
solo la sua potenza »: solo la potenza evocativa del suo nome invocato compie
il miracolo, può ancora pronunciare il mistero. Il nome della donna, flatus
vocis, tramita il mistero della potenza della vita in metamorfosi. Questo
nome, in quanto essenza figurale, è innanzitutto cifra
dell’incessantemente propulsivo miracolo di travestimento e trasmutazione del
Barocco, che nel Corale siciliano di Luzi, come nel romanzo siciliano di
Consolo, diventa emblema figurale del Novecento, secolo altrettanto
dotato, e sembra alla stessa maniera, di capacità di travestimento per
bisogno di travestimento: ecco, s’inscena il mistero del Teatro del Secolo
declinante: ci sono epoche storiche che hanno bisogno più di altre di
nascondimenti figurali, appunto di travestimenti, epoche in cui paura e
malattia, ovvero inquietudine, senso di precarietà, incertezza, assurgendo a
metafora onnipresente, sfociano nel bisogno dell’esibita mistificazione.
Ma soprattutto emblema dell’incessante
trasmutarsidel vivente, emblema della trasfigurazione del creaturale in
emanazione divina, emblema dell’eternante fluidità ecquorea del creaturale,
Santa Rosalia è una delle tante possibili emanazioni del Tu femmineo nella
poesia luziana, quella «lei» inseguita, domina sempre invocata,
incessantemente nominata, tranne qui, ma senza un nome proprio,
perché pura figura: lei, l’anima, l’acqua lustrale, corpo d’acqua e
corpo di voce, corpo-figura del fluire poematico, corpo di
salvezza e purezza da cui fluisce e in cui confluisce il poemare: emblema della
potenza eternante del creaturale in incessante metamorfosi. Penso naturalmente
a Per il battesimo dei nostri frammenti e a Frasi e incisi di un
canto salutare. La potenza di lei o del suo nome, Immagine dietro ogni
immagine, immagine dell’essenza, del principio e della fine, di vita e di
morte, «lei» non potrà mai condensarsi, restringersi, rapprendersi e
rattrappirsi nell’univoca persona di una qualsivoglia biografia o agiografia: è
il corpo santo e sacro dell’elementale.
Dunque è per questo che al ritornello
solito qui si aggiunge, inevitabilmente, la clausola: «Nasce dalle sue ossa! /
Principia dalla sua fossa! e ci dà la vita»: la nascita dalla morte, il
principio dalla fine, l’«arca» dalla «barca », la continuità circolare
eternante è il portato della figura femminile; la fine coincide col principio,
la nascita coincide con la morte: refrain e sottofondo di tutta la
riflessione poetica luziana e ritornello nel Corale, il semplicissimo
distico a rima baciata, bisbigliato nel prologo del poema come voce di fondo,
è il sottofondo, la ragione stessa del racconto fondamentale, è il fondamento
del poema (non solo) nel Corale, dove suggella in clausola,
nell’esclamare ancora la meraviglia dell’inesausto stupore, l’ambiguo dramma di
«lei».
MARIO LUZI
dal Corale della città di Palermo per
santa Rosalia
CORO
Che tempi tristi,
che uomini in angustia,
ma racconta ancora,
racconta.
ANGELOS
Ecco, la scena cambia,
adesso vi racconto un sogno,
un sogno premonitore.
CORO
Chi ha sognato questo sogno?
ANGELOS
Lo ha sognato in questo giugno
di morte, di gemiti, di roghi,
di grida e implorazioni
all’aperto e nel chiuso delle case
inchiavardate e sbarrate, nel silenzio
più grave ancora di tutto questo...
Lo ha sognato una donna di nome
Geronima.
La donna vede un alone
albicare nella notte,
e poi sente una voce
senza suono, senza provenienza
eppure chiara e vicina.
Sono Santa Rosalia.
Sono persa, caduta
dalla vostra memoria,
sono dentro il tempo,
dentro il monte,
dentro il sasso.
Ritrovatemi, sarò vostra.
Sarà una grande festa,
una grande esultanza.
Ricercatemi nel tempo
Ricercatemi nel monte
e nel sasso,
ricercatemi nel buio
della vostra coscienza.
Sarò vostra, sarò con voi
in ogni vostra pestilenza
e in ogni vostra letizia.
Ricordati questo sogno
quando viene il giorno.
Tienilo bene a mente
con le sue parole.
Riferiscilo alla gente,
ai notabili, al vescovo.
Ho aspettato tanti secoli
chiusa nella mia mandorla
di roccia e di dimenticanza.
Mi aprirò a voi, cercatemi.
È ora, è venuto il mio tempo.
La donna segna nel cuore
il sogno e le parole.
A giorno fatto lo ritrova
intatto nella memoria.
Esce nel vicinato, lo racconta
alle comari, tutta la città
lo apprende. Dio sa come
arriva ai cavatori
nella grotta del monte.
Sul monte Pellegrino
A più riprese negli anni
Ed anche in questi giorni
Si scava nella roccia.
Dice nessuno sa
che antica voce isolana
che qui sono celate
le ossa della Santa.
Scavano senza frutto,
sono stanchi e delusi.
Ma ora si riconfortano.
VOCI DAL FONDO
Che santa, Rosalia!
La più strana che ci sia.
Nasce dalle sue ossa,
principia dalla sua fossa!
[...]
CORO
Siamo grati del racconto.
Questa è l’annunciazione
o forse solo il preannuncio.
Aspettiamo l’Incarnazione.
Racconta quel che segue,
racconta chiaramente.
ANGELOS
Sì, il vostro desiderio risuscita
l’evento.
Si fa quella processione.
Non valgono le remore,
le contrarietà, i dinieghi.
Troppo grande è il bisogno
d’implorazione e di supplica,
di penitenza e di preghiera.
Da tutti i palazzi,
dai vicoli, dai tuguri,
da tutti i lazzeretti,
sale quella richiesta.
Si fa la processione,
le titubanze del clero
e quelle del Senato
tutte sono travolte,
il medico non è ascoltato
è ignorato, dimenticato,
è vinta ogni cautela,
la pietà trionfa.
È il quindici di luglio,
la mattina è accecante.
[...]
(M. Luzi, Corale della città di
Palermo per Santa Rosalia, Genova, Edizioni S. Marco dei Giustiniani,
Quaderni di Poesia, 1989: per gentile concessione dell’autore e dell’editore).