BIRO SECCATE IN UN BARATTOLO DI PLASTICA. LA POESIA WISLAWA SZYMBORSKA

di Annelisa Alleva

 

Ci troviamo di fronte a una poetessa oggi più che settantenne, che da anni veniva classificata, dagli stessi polacchi, con una sicurezza da sportivi, come terza poetessa polacca, dopo Czesław Miłosz (Premio Nobel nel 1980) e Zbigniew Herbert, e che poi, improvvisamente, nel 1996, è stata riconosciuta il più grande poeta vivente del mondo, quando ha vinto, anche lei, il Premio Nobel. Quasi nessuno, qui da noi, la conosceva, e i più, non sapendo che cosa dirne, si nascondevano sotto il solito scetticismo.

In Italia erano stati pubblicati tre volumetti dell’autrice: il primo, La fiera dei miracoli, fuori commercio, nel 1993;1 nel 1996 Gente sul ponte,2 una delle sue raccolte più belle, e infine, nel 1997, La fine e l’inizio.3 L’ultima raccolta, pubblicata da Adelphi, è una scelta da sette sue raccolte fra le più famose, già pubblicata nella stessa forma negli Stati Uniti e approvata dall’autrice, corredata dal suo scabro e intenso discorso pronunciato in occasione del conferimento del Premio Nobel. S’intitola Vista con granello di sabbia, è uscita nel 1998.4

Le poesie della Szymborska hanno tutte un titolo, ma nessuna una data; questo ci colpisce immediatamente. Non abbiamo a che fare con una poetessa, la cui opera ha subito nel tempo un cambiamento radicale nelle scelte tematiche e stilistiche; le sue poesie, infatti, costituiscono sostanzialmente un continuum, che si rafforza via via con l’approfondimento della riflessione e una padronanza sempre più affinata della lingua. All’interno di questo continuum, o dietro, c’è un’autrice che non fa mostra di sé, della sua vita personale, ma che piuttosto si autoannulla e si trasfigura quasi completamente nelle proprie parole. Nessun primadonnismo achmatoviano, anche se, apprendiamo dalla postfazione, Anna Achmatova, nel 1964, quindi poco prima di morire, la tradusse.

Dove si colloca la Szymborska? In alto, lo apprendiamo quasi subito.

In D’una spedizione sull’Himalaya non avvenuta (tratta da una delle prime raccolte, Appello allo Yeti, 1957) :

 

Yeti, niżei jest środa,

abecadło, chleb

i dwa a dwa to cztery

 

 

Yeti, laggiù è mercoledì,

abicì, pane

e due più due fa quattro.

 

In Monologo per Cassandra, profetessa con la quale la Szymborska deve almeno in parte identificarsi (da Uno spasso, 1967):

 

Kochałam ich.

Ale kochałam z wysoka.

Sponad życia.

 

 

Li amavo.

Ma amavo dall’alto.

Da sopra la vita.

Il suo punto di vista sulle cose non è dunque dell’emigrante, dell’esiliata, che ha fatto uno spostamento orizzontale, effettivo o mentale che sia, e osserva la realtà di sbieco, con la coda dell’occhio, ma di chi, per scappare e conquistarsi un proprio spazio, ascende, ha sulle cose uno sguardo distanziato, che domina tutto.

La sua non è un’immaginazione che vola, ma che ama, piuttosto, attaccarsi a una superficie visiva, spesso quella di un quadro, per entrarvi dentro, e trasformare qualcosa di rappresentato e unidimensionale in qualcosa di animato, nel senso di non statico e di avente un’anima. In Paesaggio (da Uno spasso, 1967):

 

W pejzażu starego mistrza

drzewa mają korzenie pod olejną farbą.

 

 

Nel paesaggio dell’antico maestro

gli alberi hanno le radici sotto la pittura a olio.

 

Attraverso i quadri antichi si delinea anche il rapporto dell’autrice con la Storia, che è sempre stata, a suo parere, un’entità tanto astratta quanto imperiosa, malvagiamente selettiva, attenta solo ad autoconfermarsi.

La Szymborska non prova alcun rimpianto per il passato, il buon tempo antico, ma solo, semmai, per la fugacità della vita. L’imperiosità della Storia si riflette anche nelle correnti artistiche di un’epoca, si trasmette anche attraverso un quadro. Il Barocco, a esempio, impone solo donne rosee e abbondanti. In Le donne di Rubens (da Sale, 1962):

 

Córy baroku. Tyje ciasto w dzieży,

parują łaźnie, rumienią się wina,

cwałują niebem prosięta obłoków,

rżą trąby na fizyczny alarm.

 

Figlie del barocco. L’impasto si gonfia,

vaporano i bagni, s’arrossano i vini,

nel cielo galoppano porcelli di nuvole,

le trombe nitriscono l’allarme carnale.

 

 

Ich chude siostry wstały wcześniej,

zanim się rozwidniło na obrazie.

I nikt nie widział, jak gęsiego szły

po niezamalowanej stronie płótna.

 

 

(...) Le loro magre sorelle si alzarono presto,

prima che nel quadro facesse giorno.

E nessuno le vide incamminarsi in fila

sul lato non dipinto della tela.

 

 

Oppure, in Miniatura medievale (da Grande numero, 1976):

 

Tak sobie przemile jadą

W tym realizmie najfeudalniejszym.

 

Onże wszelako dbał o równowagę:

piekło dla nich szykował na drugim obrazku.

Och, to się rozumiało

arcysamo przez się.

 

 

Così avanzano stragraziosamente

in questo realismo il più feudale.

 

Lo stesso, nondimeno, badava all’equilibrio:

gli preparava l’inferno su un altro quadretto.

Ah, questo andava

arci da sé.

 

Anche le fotografie sono per lei un pretesto di scavo oltre la superficie, di riflessione sul Tempo.

In Movimento irrigidito (da Ogni caso, 1972):

 

Za parawem różowy gorset, torebka,

w torebce bilet na statek parowy,

odjazd nazajutrz, czylisześćdziesiąt lat temu;

już nigdy, ale za to punkt dziewiąta rano.

 

 

Dietro il paravento un corsetto rosa, una borsetta,

nella borsetta un biglietto per un piroscafo,

partenza l’indomani, ossia sessant’anni fa;

mai più, però alle nove esatte del mattino.

 

Dietro quel che c’è di fermo in una fotografia di Isadora Duncan, la Szymborska immagina la vita che scorre, e, in mezzo al flusso di giorni ormai estinti, coglie un dettaglio immaginario, che fissa, come avrà fatto il fotografo prima d’immortalare la sua modella.

Ne La prima fotografia di Hitler (da Gente sul ponte, 1986) descrive la prima fotografia del futuro carnefice, con un tono lezioso, ridondante di diminutivi, che nel folclore slavo possono essere minacciose spie di eventi sinistri. All’interno di questa poesia la Szymborska rifà il verso ai commentatori, quelli che abitualmente si sdilinquiscono alla vista di un bambino appena nato, perché così si fa, ma poi possono diventare anche spettatori del male, del nazismo, vivere nelle loro casette amene a pochi chilometri dai lager, fingendo di non accorgersi di quanto vi accade. Il nazismo ha potuto proliferare solo grazie a questa maggioranza di osservatori silenti e consenzienti, e la Szymborska sembra avercela ancora di più con loro:

 

A któż to jest ten dzidziuś w kaftaniku?

Toż to mał Adolfek, syn państwa Hitlerów!

Może wyrośnie na doktora praw?

Albo będzie tenorem w operze wiedeńskiej?

Czyja to rączka, czyja, uszko, oczko, nosek?

 

 

E chi è questo pupo in vestina?

Ma è Adolfino, il figlio dei signori Hitler!

Diventerà forse un dottore in legge

o un tenore dell’Opera di Vienna?

Di chi è questa manina, di chi, e gli occhietti, il nasino?

 

Nella fotografia è impresso un momento privato, e la Szymborska mette spesso in luce, aldilà delle apparenze, lo sfasamento fra vita pubblica, ufficiale, e privata. Nella poesia appena citata su Hitler l’elemento pubblico è tutto sottaciuto, vista la notorietà del personaggio. E’ una poesia di denuncia muta, questa, all’interno della quale Hitler viene descritto come un qualsiasi bambino grazioso, e, nel finale, è descritta la quieta, noiosa ma rassicurante prosperità e inerzia della cittadina Braunau, nella quale, come in qualsiasi altra cittadina di provincia:

 

Nauczyciel historii rozluźnia kołnierzyk

i ziewa nad zeszytami.

 

 

L’insegnante di storia allenta il colletto

e sbadiglia sui quaderni.

 

In una bellissima poesia non inclusa in questa scelta, forse la più szymborskiana di tutte, Scrivere il curriculum (da Gente sul ponte, 1996), la scrittrice analizza la crudeltà dello scrivere un curriculum, il quale, dovendo essere soprattutto stringato, lascia fuori molta parte della vita:

 

Z wszystkich miłości starczy ślubna,

a z dzieci tylko urodzone.

 

 

Di tutti gli amori basta quello coniugale,

e dei bambini solo quelli nati.

 

Vittima delle crudeli amputazioni della vita pubblica su quella privata non è solo l’uomo della strada o l’animaletto che nessuno prende in considerazione, ma anche l’intellettuale, l’artista, il compositore. Anche su di lui la Storia opera il suo sezionamento, anche lui non sfugge. La Storia trattiene l’opera per i posteri, cioè per sé, e butta via quel che è contingente, e quindi umano.

In Il classico (da Ogni caso, 1972):

 

Pójdą na śmietnik trzewiki, niewygodni świadkowie,

Skrzypce zabierze sobie uczeń najmniej zdolny.

Powyjmowane będą z nut rachunki od rzeźnika.

Do mysich brzuchów trafią listy biednej matki.

 

 

Finiranno tra i rifiuti le scarpe, scomode testimoni.

Il violino verrà preso dall’allievo meno dotato.

Saranno tolti dagli spartiti i conti del macellaio.

Le lettere della povera madre finiranno in pancia ai topi.

 

In La stanza del suicida (da Grande numero, 1976) viene descritta la stanza di un amico intellettuale che si è suicidato senza lasciare niente di scritto, ma lasciando intatti i suoi oggetti, che parlano di lui anche ora, in sua assenza:

 

Myślicie pewnie, że pokój był pusty.

A tam trzy krzesła z mocnym oparciem.

Tam lampa dobra przeciw ciemności.

Biurko, na biurku portfel, gazety.

Budda niefrasobliwy, Jezus frasoblywy.

 

 

Certo pensate che la stanza fosse vuota.

E invece c’erano tre sedie con robusti schienali.

Una lampada buona contro il buio.

Una scrivania con sopra un portafoglio, giornali.

Un Buddha sereno, un Cristo afflitto.

 

In Pietà (da Uno spasso, 1967), il pretesto per mettere in luce questo sfasamento è dato da una visita della Szymborska in Bulgaria, nel 1954, alla madre di Nikolaj Vapcarov, un poeta comunista fucilato dai nazisti a Sofia. La visita alla madre rappresentava un’occasione ufficiale, celebrativa, ma il suo dolore di donna semplice di campagna era autentico.

 

Tak, bardzo go kochała. Tak, zawsze był taki.

Tak, stała wtedy pod murem więzienia.

Tak, słyszała tę salwę.

 

 

Sì, lo amava molto. Sì, era sempre stato così.

Sì, lei allora si trovava sotto il muro della prigione.

Sì, aveva sentito la scarica.

 

Attraverso questi versi del tutto prosastici, prosastici perché in forma di laconiche risposte all’intervistatrice, si può cogliere l’insofferenza della madre dell’eroe, spossata dal dolore e dalla strumentalizzazione che di questo viene fatta; spossata di non essere lasciata a se stessa, in pace. Nell’austero, critico spazio narrativo della Szymborska, la realtà si sgretola. Lei la smonta, scompone, decostruisce; poi recupera, seleziona, rimette insieme i pezzi a suo piacere, e la fa stridere. Ha una mente che tende a giustapporre per intensificare l’effetto.

La Storia è Artefice, e dunque anche Madre, genitrice dell’uomo. La giustapposizione, di cui la Szymborska si serve spesso all’interno di una poesia, può anche essere rinvenuta tracciando un piccolo ponte immaginario fra due poesie.

Ecco la madre di quello che lei ci lascia intuire essere un suo amore; una piccola madre fisica, tangibile, deludente per l’autrice in confronto alla metafisica, colma di mistero, dell’amore, in Nato (da Uno spasso, 1967):

 

Więc to jest jego matka.

Ta mala kobieta.

Szarooka sprawczyni.

 

 

Dunque è sua madre.

Questa piccola donna.

Artefice dagli occhi grigi.

 

Ed ecco, in contrasto con la precedente, la Grande Madre in Un feticcio di fertilità del paleolitico (dalla stessa precedente raccolta, Uno spasso, 1967), una Madre-feticcio simbolica, impersonale, e quindi in qualche modo malefica agli occhi della Szymborska; anonima perché di valenza universale, scaturita dal ventre dei secoli, così come i figli scaturiscono dal ventre materno:

 

Wielka Matka nie ma stóp.

Na co Wielkiej Matce stopy.

A gdzież to jej wędrować.

A po cóż by miała wchodzić w szczegóły świata.

Ona już zaszło tam, gdzie chciała zajść

I waruje w prachowniach pod napiętą skórą.

 

 

La Grande Madre non ha piedi.

Che se ne fa la Grande Madre dei piedi.

Dove mai dovrebbe andare.

E perché dovrebbe entrare nei particolari del mondo.

Lei è già arrivata dove voleva arrivare,

e fa la guardia nei laboratori sotto la pelle tesa.

 

 

In Ritorni, che cito per intero (da Ogni caso, 1972):

 

Wrocił. Nic nie powiedział.

Było jednak jasne, że spotkała go przykrość.

Położył się w ubraniu.

Schował głowę pod kocem.

Podkurczył kolana.

Ma okolo czterdziestki, ale nie w tej chwili.

Jest . ale tylko tyle, ile w brzuchu matki

za siedmioma skórami, w obronnej ciemności.

Jutro wygłosi odczyt o homeostazie

w kosmonautyce metagalaktycznej.

Na razie zwinął się, zasnął.

 

E’ ritornato. Non ha detto nulla.

Era chiaro però che aveva avuto un dispiacere.

Si è coricato col vestito.

Ha messo la testa sotto la coperta.

Ha ripiegato le gambe.

E’ sulla quarantina, ma non in questo momento.

Esiste - ma solo quanto nel ventre di sua madre,

al di là di sette pelli, al riparo del buio.

Domani terrà una conferenza sull’omeostasi

nella cosmonautica metagalattica.

Per il momento si è raggomitolato, dorme.

 

Questo contrasto la Szymborska sembra averlo appreso ed ereditato dai grandi maestri realisti della narrativa ottocentesca; per esempio da Tolstoj, che in Anna Karenina scriveva: «Se sapessero», pensava Oblonskij, chinando la testa con aria significativa, durante l’ascolto della relazione, «che bambino colpevole era mezz’ora fa il loro presidente5!» .

Qui, però, in questa poesia-microromanzo immaginiamo l’uomo, lo scienziato, in qualità di vittima, e non di colpevole. Lo scienziato che ha subìto . lascia immaginare al lettore, pur senza dirlo, la Szymborska . un supruso, un’ingiustizia, è così scoraggiato e indifeso di fronte a questa da non avere neppure le forze di sfogarsi con la moglie. Unico suo rifugio: una posa fetale, orfana in un adulto, stridente in uno scienziato di fama; disperata, primordiale.

Molto attenta all’umano, e al vivente in genere, la Szymborska mette in scena quasi in ogni poesia, in modo simbolico, metaforico, l’uomo crocifisso, e la sua croce. L’immobilità impassibile, sempre uguale, della croce, strumento di tortura, in contrapposizione al corpo sofferente, moribondo, in posa sempre impercettibilmente diversa, individuale. La Szymborska analizza e ci restituisce il modo in cui il corpo devia dalla forma imposta della croce. Non nomina mai direttamente la croce, ma la identifica nel potere, nella storia, nella natura, nella legge, in tutto quello che l’uomo non sceglie, ma subisce. Non nomina la croce, ma è precisa e attenta nel registrare i sintomi del dolore, così precisa e attenta a tutto questo da spostare l’attenzione del lettore dagli effetti alla causa, cioè al supplizio che li provoca. Il Cristo di questa poesia sceglie una posa fetale.

Ne L’acrobata (da Uno spasso, 1967) il Cristo è un uomo solo con la propria acrobazia da esibire, con il proprio volo che gli riesce difficile perché non ha le ali, che lotta ferocemente contro la propria nuda condizione di uomo:

 

Sam. Albo jeszcze mniej niż sam,

mniej, bo ułomny, bo mu brak

brak skrzydeł, brak mu bardzo,

brak, który go zmusza

do wstydliwych przefrunięć na nieupierzonej

już tylko nagiej uwadze.

 

 

Solo. O anche meno che solo,

meno, perché imperfetto, perché gli mancano

le ali, gli mancano molto,

una mancanza che lo costringe

a voli vergognosi su una attenzione

senza piume ormai soltanto nuda.

 

La Szymborska afferma negando, denuncia in modo indiretto, con un procedimento retorico da indovinello, da litote; la sua poesia è impegnata, moderna, ma quasi priva di riferimenti diretti all.attualità; d’ispirazione - più che civile - esistenziale. Infatti il suo paese può avere rivolgimenti politici, ma i suoi versi continuano a starsene lì, imperterriti, a insistere sempre sugli stessi temi.

Il suo sguardo dall’alto, che vorrebbe essere onnicomprensivo, e non tralasciare niente e nessuno, concentra la propria speciale attenzione sul minuscolo, l’infinitamente piccolo, che lei predilige in segno di protesta contro la falcidiante Storia. Il piccolo come scoria, il piccolo come escluso, schiacciato dal grande, dall’importante. Sono tante le poesie che mettono in scena il piccolissimo, quasi lei inforcasse, da quell’altura in cui si colloca, giganteschi, potentissimi occhiali.

Nel Compleanno (da Ogni caso, 1972):

 

Pogubię te bratki w pośpiechu podróżnym.

Już choćby najmniejszy . szalony wydatek :

fatyga łodygi i listek i płatek

raz jeden w przestrzeni, od nigdy, na oślep,

wzgardliwie dokładny i kruchy wyniosle.

 

 

Dirò addio alle viole nel viaggio affrettato.

Pur la più piccola - è una spesa folle:

lo scialo di stelo, petali e pistillo

una volta, a caso, in questa vastità,

con sprezzo è precisa, di altera lievità.

 

Nel Tarsio, animale assai poco conosciuto, da lei provocatoriamente scovato sull’enciclopedia (da Uno spasso, 1967):

 

Ja tarszjusz syn tarsjusza,

wnuk tarsjusza i prawnuk,

zwierzątko małe, złożone z dwóch żrenic

i tylko bardzo już koniecznej reszty;

 

 

Io, tarsio, figlio di tarsio,

nipote e pronipote di tarsio,

piccola bestiola, fatta di due pupille

e d’un resto di stretta necessità.

 

In Visto dall’alto (da Grande numero, 1976):

 

I oto ten na drodze martwy żuk

w nieopłakanym stanie ku słonku polśniewa.

Wystarczy o nim tyle pomyśleć, co spojrzeć :

wyglada, że nie stało mu się nic ważego.

Ważne związane jest podobno z nami.

Na życie tylko nasze, naszą tylko śmierć,

śmierć, która wymuszonym cieczy się.

 

 

E così questo scarabeo morto sul viottolo

brilla non compianto verso il sole.

Basta pensarci per la durata di uno sguardo:

sembra che non gli sia accaduto nulla d’importante.

L’importante, pare, riguarda noi.

Solo la nostra vita, solo la nostra morte,

una morte che gode d’una forzata precedenza.

 

 

In Salmo (da Grande numero, 1976):

 

Z nieprzeliczonych owadów poprzestanę na mrówce,

która pomiędzy lewym a prawym butem strażnika

na pytanie: skąd dokąd . nie poczuwa się

do odpowiedzi.

 

 

Tra gli innumerevoli insetti mi limiterò alla formica,

che tra la scarpa sinistra e la destra del doganiere

non si sente tenuta a rispondere alle domande

«Da dove?» e «Dove? ».

 

In Non occorre titolo (da La fine e l’inizio, 1993):

 

Tak się złoło, że jestem I patrzę.

Nade mną biały motyl trzepoce w powietrzu

skrzydełkami, co tylko do niego należą

i przelatuje mi przez ręce cién,

nie inny, nie czyjkolwiek, tylko jego własny.

 

 

Si dà il caso che io sia qui e guardi.

Sopra di me una farfalla bianca sbatte nell’aria

ali che sono solamente sue,

e sulle ali mi vola un’ombra,

non un’altra, non di altri, solo sua.

 

 

Na taki widok zawsze opuszcza mnie pewność,

że to co ważne

ważniejsze jest od nieważnego.

 

 

A tale vista mi abbandona sempre la certezza

che ciò che è importante

sia più importante di ciò che non lo è.

 

La Szymborska preferisce la natura alla Storia, perché la natura non è fatta dall’uomo; il mondo animale e vegetale coesistono in una continuità regolata dal ciclo implacabile della vita e dalla morte, ma senza le sovrastrutture imposte dall’uomo, cioè liberamente. Contraria a una visione antropocentrica, egoistica, che deforma l’esistenza, l’autrice ama, forse per salvarsi, scappare dalle pastoie quotidiane, come Mago Merlino nel duello con Maga Morgana; trasformarsi, o meglio entrare, per esempio, nei panni di un gatto, oppure in un granello di sabbia. La sua è l’abilità del prestidigitatore, un’esibizione d’invisibilità.

In Salmo (da Grande numero, 1976):

 

Tylko co ludzkie potrafi być prawdziwie obce.

Reszta to lasy mieszane, krecia robota i wiatr.

Solo ciò che è umano può essere davvero straniero.

Il resto è bosco misto, lavorio di talpa e vento.

 

In Il gatto in un appartamento vuoto (da La fine e l’inizio,1993):

 

Umrzeć - tego nie robi się kotu.

Morire - questo a un gatto non si fa.

 

In Vista con un granello di sabbia (da Gente sul ponte, 1986):

 

Na nic mu nasze spojrzenie, dotknięcie.

Nie czuje się ujrzane i dotkięte.

A to, że spadło na parapet okna,

To tylko nasza, nie jego przygoda.

 

 

Del nostro sguardo e tocco non gli importa.

Non si sente guardato e toccato.

E che sia caduto sul davanzale

E’ solo un’avventura nostra, non sua.

 

Anche la Natura, però, al pari della Storia, non va per il sottile, e falcidia, con l’evoluzione, le «care sirene», i «diletti fauni», gli «eccelsi angeli», e chi ha letto la straordinaria poesia di Miłosz sa quanto spesso vi ricorrano gli angeli. Anche la Natura censura senza pietà le proprie creature, e poi le occulta, quasi fossero dettagli inutili del Creato. Così la Szymborska conclude una poesia dedicata a tale argomento, Thomas Mann (da Uno spasso, 1967):

A najlepsze to,

że przeoczyła moment, kiedy pojawił się ssak

z cudownie upierzoną watermanem ręką.

 

 

Ma il più bello è che le è sfuggito il momento

in cui è spuntato un mammifero

con la mano miracolosamente pennuta

d’una Waterman.

 

Come se avesse studiato le discipline orientali, la Szymborska ha un’anima trasmigratrice, capace di trasferirsi in altri corpi. Un’anima inquieta, sempre presente anche se poco nominata, mimetica, che s’afferma spesso con una negazione, un’assenza. Si può vedere anche dagli stessi titoli delle poesie: D’una spedizione sull’Himalaya non avvenuta, Nulla due volte, Allegro ma non troppo, Recensione d’una poesia non scritta.

In Ringraziamento (da Grande numero, 1976):

 

Wiele zawdzięczam

Tym, których nie kocham.

 

Ulgę, z jaką się godzę,

że bliżsi są komu innemu.

 

Radość, że nie ja jestem

Wilkiem ich owieczek.

 

 

Devo molto

a quelli che non amo.

 

Il sollievo con cui accetto

che siano più vicini a un altro.

 

La gioia di non essere io

il lupo dei loro agnelli.

 

La negazione è un’arma che la poetessa polacca sa padroneggiare con destrezza. La sua è una poesia che scava, gratta, ripulisce, s’arrovella, leva, sottrae, rinuncia. Una poesia ascetica, che poco s’abbandona, e molto lotta, lavora.

 

In Grande numero (da Grande numero, 1976):

 

Wybieram odrzucając, bo nie ma innego sposobu,

ale to, co odrzucam, liczebniejsze jest,

gętsze jest, natarczywsze jest niż kiedykolwiek.

Kostem nieopisanych strat . wierszyk, west.

 

 

Scelgo scartando, perché non c’è altro modo,

ma quello che scarto è più numeroso,

è più denso, più esigente che mai.

A costo di perdite indicibili - una poesiola, un sospiro.

 

In Sotto una piccola stella (da Ogni caso, 1972):

 

Nie miej mi za złe, mowo, że pożyczam patetycznych słów

A potem trudu dokładam, żeby wydały się lekkie.

 

 

Non avermene, lingua, se prendo in prestito parole

poetiche, e poi fatico per farle sembrare leggere.

 

Nel suo personalissimo modo di accostarsi all’amore è una specie di dichiarazione antiretorica. Amore e poesia vengono da lei affrontati con la stessa grinta corrosiva. Scansa il bello, il lirico, i cliché.

Nell’incipit di Album (da Uno spasso, 1967) scrive:

 

Nikt w rodzinie nie umarł z miłości.

 

 

Nessuno in famiglia è mai morto per amore.

 

Così commenta l’incontro dopo tanti anni con un vecchio amore, in Un incontro inatteso (da Sale, 1962):

Jesteśmy bardzo uprzejmi dla siebie,

twierdzimy, że to miło spotkać się po latach.

 

 

Siamo molto cortesi l’uno con l’altro,

diciamo che è bello incontrarsi dopo anni.

 

 

Nasze tyrysy piją mleko.

Nasze jastrzębie chodzą pieszo.

Nasze rekiny toną w wodzie.

Nasze wilki ziewają przed otwartą klatką.

 

 

Le nostre tigri bevono latte.

I nostri sparvieri vanno a piedi.

I nostri squali affogano nell’acqua.

I nostri lupi sbadigliano alla gabbia aperta.

 

In Un amore felice (da Ogni caso, 1972) esalta l’amore felice forse proprio perché più comunemente la poesia ci descrive amori infelici. A proposito de «i due felici» si domanda:

 

Trudno nawet przewidzieć, do czego by doszło,

gdyby ich przykład dał się naśladować.

Na co liczyć by mogły religie, poezje,

O czym by pamiętano, czego zaniechano,

Kto by chciał zostać w kręgu.

 

 

E’ difficile immaginare dove si andrebbe a finire

se il loro esempio fosse imitabile.

Su cosa potrebbero contare religioni, poesie,

di che ci si ricorderebbe, a che si rinuncerebbe,

chi vorrebbe restare più nel cerchio?

 

In In lode di mia sorella (da Grande numero, 1976):

 

Moja siostra nie pisze wierszy

I chyba już nie zacznie nagle pisać wierszy.

Ma to po matce, która nie pisalta wierszy,

oraz po ojcu, który też nie pisał wierszy.

 

 

Mia sorella non scrive poesie,

né penso che si metterà a scrivere poesie.

Ha preso dalla madre, che non scriveva poesie,

e dal padre, che anche lui non scriveva poesie.

 

Contrapponendo ironicamente, in Serata d’autore (da Sale, 1962), una serata di poesia a un incontro di pugilato,scrive:

 

Muzo, nie być bokserem to jest nie być wcale.

Ryczącej publiczości poskąpiłaś nam.

Dwanaście osós jest na sali,

Już czas, śmy zaczynali.

Połowa przyszła, bo deszcz pada,

Reszta to krewni. Muzo.

 

 

O Musa, essere un pugile o non essere affatto.

Ci hai lesinato un pubblico in tumulto.

Ci sono dodici persone ad ascoltare,

è tempo ormai di cominciare.

Metà è venuta perché piove,

gli altri sono parenti. O Musa.

 

Lo scrivere non è romantico asservimento ai capricci dell’ispirazione,ma un atto anche aggressivo, un riscatto, una solitaria guerra dell’immaginazione, all’interno della quale il poeta gioca il ruolo di arbitro assoluto. In La gioia di scrivere (da Uno spasso, 1967):

 

Nad biała kartką czają do skoku

litery, które mogą ułożyć się źle,

zdania osaczające,

przed którymi nie będzie ratunku.

 

Jest w kropli atramentu spory zapas

myśliwych z przymrużonym okiem,

gotowych zbiec po stromym piórze w doł,

otoczyć sarnę, złożyć się do strzału.

 

 

Sopra il foglio bianco s’acquattano, pronte a balzare,

lettere che possono mettersi male,

un assedio di frasi

che non lasceranno scampo.

 

In una goccia d’inchiostro c’è una buona scorta

di cacciatori con l’occhio al mirino,

pronti a correr già per la ripida penna,

a circondare la cerva, a puntare.

 

In una bella poesia della raccolta Gente sul ponte, Possibilità, una delle poesie insieme più programmatiche e intimistiche, come nel suo stile più autentico, afferma, con la solita sobrietà appassionata:

 

Wolę śieszność pisania wierszy

od śmieszności ich niepisania.

 

 

Preferisco il ridicolo di scrivere poesie

al ridicolo di non scriverne.

 

Dunque abbiamo di fronte una poetessa saggia (al punto da misurarsi in sogno con l’Ecclesiaste, come ci racconta nel discorso pronunciato in occasione del Nobel), composta, sobria, pudica, che, sempre nel suo discorso di conferimento al Nobel, confessa la leggera vergogna che si prova nel rivelare agli altri il proprio mestiere di poeta. A parere della Szymborska solo Iosif Brodskij non provava questa vergogna, forse a causa delle vessazioni patite in gioventù.

Lei, così attenta allo scarto umano, ci dice poco di sé, con quel suo incedere sghembo, indiretto. Probabilmente perché il suo io é un noi collettivo, anche se un noi fatto di tante piccole, preziose individualità, e non un noi da calpestare.

Nella poesia dal titolo Elogio dei sogni (da Ogni caso, 1972), titolo che è già da solo una dichiarazione di protesta, dice, a proposito di sé, in sogno:

 

Prowadzę samochód,

który jest mi posłuszny.

 

 

Guido l’automobile,

che mi obbedisce.

 

Dunque apprendiamo che è una signora d’altri tempi, senza la patente di guida. E ancora, dalla stessa poesia:

 

Jestem, ale nie muszę

być dzieckiem epoki.

 

 

Sono, ma non devo

esserlo, una figlia del secolo.

 

In Possibilità afferma anche qui con una sfilza di eufemismi:

 

Wolę mieć pogotowiu iglę z nitką.

 

 

Preferisco avere sottomano ago e filo.

 

 

In Il cielo (da La fine e l’inizio, 1993):

 

Moje znaki szczególne

to zachwyt i rozpacz.

 

 

Miei segni particolari:

incanto e disperazione.

 

 

Inutile sarà, per i curiosi, cercare ulteriori dettagli sulla vita, il carattere, l’ atteggiamento di questa poetessa, che si rivela attraverso il resto del creato, con la premura di non tralasciare niente e nessuno.

C’è una poesia, La casa d’un grande uomo (da Gente sul ponte, 1986) nella quale, più che in qualunque altra, la Szymborska ci parla di sé, della sua vita, delle sue condizioni esistenziali, del suo paese, del suo tempo, e lo fa sempre con il suo metodo indiretto, premendo il pedale della sordina, attraverso la descrizione della casa di un grande uomo, neppure nominato, del passato. Questa è forse la sua poesia più forte, più incisiva:

Wypisano w marmurze złotymi zgłoskami:

Tu mieszkał i pracował, i zmarł wielki człowiek.

Te ścieżki osobiście posypywał żwirem.

Tę Lake - nie dotykać - sam wykuł z kamienia.

I - uwaga, trzy schodki - wchodzimy do wnętrza.

Jeszcze w stosownym czasie zdążył przy na świat.

Wszystko, co miało mijać, minęlo w tym domu.

Nie w blokach,

nie w metrażach umeblowanych a pustych,

wśród nieznanych sąsiadów,

na piętnastych piętrach,

dokąd trudno by było wlec wycieczki szkolne.

 

W tym pokoju rozmyślał,

w tej alkowie spał,

a tu przyjmował gości.

Portrety, fotel, biurko, fajka, globus, flet,

wydeptany dywanik, oszklona weranda.

Stąd wymieniał ukłony z krawcem albo szewcem,

co szyli mu na miarę.

 

To nie to samo, co fotografie w pudełkach,

zeschnięte długopisy w plastsykowym kubku,

konfekcja z magazynu w szafie z magazynu,

okno, skąd lepiej widzi się chmury niż ludzi.

 

Szczęśliwy? Nieszczęśliwy?

Nie o to tu chodzi.

Jeszeze zwierzał się w listach,

bez myśli, że po drodze zostaną otwarte.

 

Prowadził jeszcze dziennik dokładny i szczery,

bez lęku, że go straci przy rewizji.

Najbardziej niepokoił go przelot komety.

Zagłada świata byla tylko w rękach Boga.

 

Udalo mu się umrzeć jeszcze nie w szpitalu,

za białym parawanem nie wiadomo którym.

Był jeszcze przy nim ktoś, kto zapamiętał

wymamrotane słowa.

 

Jakby przypadło mu w udziale życie

wielokrotnego użytku:

książki słał do oprawy,

nie wykreślał z notesu nazwisk osób zmarłych.

A drzewa, które sadził w ogrodzie za domem,

rosły mu jeszcze jako juglans regia

i quercus rubra i ulmus i larix

i fraxinus excelsior.

 

 

Hanno scritto nel marmo a lettere d’oro:

Qui abitò lavorò e morì un grande uomo.

Questi viottoli li ha cosparsi di ghiaia lui.

Questa panchina - non toccare - l’ha scolpita lui.

E - attenzione, tre gradini - entriamo dentro.

 

Fece ancora in tempo a nascere nel momento giusto.

Tutto quel che doveva passare, passò in questa casa.

Non in caseggiati,

non in metrature ammobiliate ma vuote,

fra vicini sconosciuti,

ai quindicesimi piani,

dove sarebbe arduo trascinare scolari in gita.

 

In questa stanza meditava,

in questa alcova dormiva,

e qui riceveva gli ospiti.

Ritratti, poltrona, scrivania, pipa, mappamondo,

flauto, tappetino consunto, veranda a vetri.

Da qui scambiava inchini col sarto o il calzolaio

che gli cucivano su misura.

 

Non è come fotografie dentro le scatole,

biro seccate in un barattolo di plastica,

un vestito di serie in un armadio di serie,

finestre più vicine alle nuvole che alla gente.

 

Felice? Infelice?

Non di questo si tratta.

Ancora si confidava nelle lettere,

senza il pensiero che le avrebbero aperte.

Teneva ancora un diario puntuale e sincero,

senza paura d’una perquisizione.

Più di tutto lo inquietava il passaggio d’una cometa.

La fine del mondo era solo nelle mani di Dio.

 

Riuscì ancora a morire non in ospedale,

dietro un chissà quale paravento bianco.

Con ancora accanto qualcuno che ricordò

le parole del suo borbottio.

 

Era come se gli fosse toccata una vita

riutilizzabile:

mandava a rilegare i libri,

non cancellava dal taccuino i nomi dei morti.

E gli alberi che piantava dietro la casa

gli crescevano ancora come junglans regia

e quercus rubra e ulmus e larix

e fraxinus excelsior.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

1 Pubblicato nella collana «Strenne Franci», con matite di Alina Kalczyńska, traduzione di Pietro Marchesani, testo a fronte, Milano, Scheiwiller 1993.

2 Pubblicato nella collana «Poesia», a cura di Pietro Marchesani, con testo a fronte, Milano, Scheiwiller 1996, riprende l.edizione polacca di Ludzie na móscie del 1986.

3 Pubblicato nella collana «Poesia», a cura di Pietro Marchesani, Milano, Scheiwiller 1997, riprende l.edizione polacca di Koniec i poczatek, Poznań, Wydawnictwoa 5, 1993.

4 Il volume, pubblicato nella «Biblioteca Adelphi», Milano, Adelphi 1998, a cura di Pietro Marchesani, comprende poesie scritte fra il 1957 e il 1993, e riprende la scelta antologica del volume View Wight a Grain of Sand, New York, Harcourt Brase & Company 1995. Il titolo ha origine dalla poesia Widók z ziarnkiem piasku, che fa parte della raccolta Ludzie na móscie, Czytelnik, Warszawa 1986. Per le citazioni in italiano mi sono riferita sempre a questa raccolta italiana, o alla precedente Gente sul ponte, Milano, Scheiwiller 1996. Per le citazioni in polacco ho consultato Wszelki wypadek, Warszawa, Czytelnik 1972; Wielka liczba, Warszawa, gzytelnik 1977; Nulla è in regalo, Nic na darowanie, ed. bilingue a cura di Pietro Marchesani, Kraków, Wydawnictwo Literackie 1998; Wiersze wybrane, Kraków, Wydawnictwo 5, 2000.

5 Lev Tolstoj, Anna Karenina, trad. it. a cura di Annelisa Alleva, Milano, Frassinelli, 1997, p. 20.