STRUMENTI
MARINA DI SIMONE, Amore
e morte in uno sguardo. Il mito di Orfeo e Euridice tra passato e presente,
Firenze, Libri Liberi 2003, pp. 136, € 9,80.
Sono decenni che si parla di
storia dei temi e dei personaggi, che si compilano e si pubblicano repertori di
motivi letterari e miti culturali, e da qualche anno anche i manuali
scolastici, in risposta a un’attenzione critica sempre più diffusa, sono ricchi
di schede sui paralleli e sulla fortuna di un’opera, sulle sue riscritture e la
sua diffusione nelle varie letterature. Ma di fatto sono pochi gli autori
impegnati nella produzione dipercorsi didattici concreti che guidino il docente, lo studente e il
lettore dalle origini lungo le trasformazioni di una storia senza risolversi in
analisi di singoli testi o in elenchi di nomi e di titoli. Questo di Marina Di
Simone è il tentativo, brillantemente riuscito, di conciliare esigenze
culturali e comparatistiche con sollecitazioni proficuamente recepibili dalla
scuola nei suoi vari gradi, dal liceo scientifico a uno dei moduli sulla
ricezione dei classici che cominciano a spuntare un po’ ovunque nelle
università italiane. Il volume racconta le metamorfosi del mito di Orfeo, il
poeta in grado di incantare la natura ma incapace di richiamare dagli inferi la
sposa defunta senza resistere alla tentazione di voltarsi, a guardarla,
perdendola (o guadagnandola) per sempre.
Ricordata dagli scrittori greci come una storia già nota, la tragedia di Orfeo
diventa tale solo nei versi di Virgilio e di Ovidio, che ne forniscono le
versioni destinate a costituire il modello, alternativo, per tutte le
riscritture successive, sia letterarie che musicali e teatrali: la Di Simone ne
esplora in poche calibratissime pagine, sulla scorta di testi ampiamente citati
e antologizzati, i riflessi nelle letterature (e nella riflessione critica)
italiana, inglese e francese del Novecento, dedicando i capitoli finali alle
versioni musicate (da Poliziano a Gluck
al balletto di Stravinsky), cinematografiche (Cocteau, M. Camus-De Moraes) e ai
modelli principali diffusi nelle arti figurative. E questo itinerario ci
accompagna da una scoperta all’altra, perché anche testi che si conoscevano
acquistano uno spessore inatteso, una luce obliqua dal confronto con le
interpretazioni analoghe ma sempre diverse di altri autori e di altri tempi.
Nella Consolatio Philosophiae di Boezio, ad esempio,
troviamo un metrum (3, 12) dove Orfeo è
immagine dell’anima che gli interessi terreni distraggono dalla sapienza
autentica, e la sua allegoria assume nei versi del filosofo latino una
leggerezza inattesa, ma non priva di profondità: come nel verso quod
luctum geminans amor, «[canta] il dolore raddoppiato dall’amore», o
ancor più Quis legem det amantibus? / Maior lex amor est sibi («Chi
può dare una legge agli innamorati? L’amore è la legge più alta per se
stesso»), che coglie in pochi elementi quello che Ovidio non sa dire se non
diluendolo nel giro di molti esametri. Ma i vertici più alti di questa
inesauribile storia si toccano forse con il poemetto Orfeo.
Euridice. Hermes di Rainer Maria Rilke (1904), che finalmente scava
nel punto più sensibile del mito, il rapporto fra verità e morte, e fra verità
poetica e morte, ove la morte è condizione della pienezza creativa, della
durata artistica. Euridice «Era raccolta in sé. E il suo stato di morte / la
colmava di pienezza », intuizione ripresa nel Sonetto 13 a Orfeo:
Sii sempre morto in
Euridice, e innalzati
fino al rapporto puro, con
più forza cantando, celebrando. [...]
Sii, e la condizione del
Non-essere al tempo stesso sàppila,
questo fondo infinito del
tuo interno vibrare,
perché s’adempia intera in
un’unica volta.
La stessa atmosfera, la
stessa luce di un tramonto infinito aleggiano nella prosa magicamente ritmica
di Cesare Pavese, che nel dialogo Inconsolabile fra
Orfeo e una baccante fonda sulla coscienza della vanità assoluta del tutto la
motivazione della morte necessaria di ciò che è passato, e dunque la certezza
della volontarietà dello sguardo di Orfeo:
L’Euridice che ho pianto era
una stagione della vita. Io cercavo ben altro laggiù che il suo amore. Cercavo
un passato che Euridice non sa [...] Fu un vero passato soltanto nel canto.
L’Ade vide se stesso ascoltandomi. [...] Il mio pianto d’allora fu come i
pianti che si fanno da ragazzo e si sorride a ricordarli. La stagione è
passata. Io cercavo, piangendo, non più lei ma me stesso. [...] Accostare la
morte ci fa simili agli dèi.
Tutt’altra declinazione ha
il tema nelle cosiddette smitizzazioni, che non resistono alla tentazione di
ironizzare su una storia che forse non lo consente facilmente senza rischiare
cadute nel grottesco: la pièce teatrale di Cocteau Orphée
(dove Euridice, riacquistata la vita per rinnovare i dissapori
coniugali col marito-Cocteau, torna poi alla morte) e la sua sceneggiatura
cinematografica tutta costruita sul personaggio della Morte, o Il
ritorno di Euridice ove Gesualdo Bufalino disvela – in una summa
metaletteraria degli Orfei della tradizione – l’artificiosità del dolore
«poetico», mentre mantiene una dignità patetica l’Eurydice
di Jean Anouilh (dove Euridice è un’attricetta morta in un
incidente e poi salvata da Orfeo, che però parlando con lei ne scopre con
profonda delusione i dubbi trascorsi), rappresentazione dell’impossibilità di
un amore nel mondo del reale, e dunque della inevitabilità della scelta
dell’Orfeo mitico, che quasi mai la letteratura moderna accetta come
involontaria. Stilisticamente grottesca può apparire al gusto attuale anche la
resa dei drammi musicali, dove perfino Poliziano, Monteverdi e (meno) il
Ranieri de’ Calzabigi che scrisse per Gluck risultano difficili da gustare per
la povertà e l’artificiosità che il linguaggio melodrammatico non riesce a
nascondere quando sia separato dalla musica. Diversamente datata è forse anche
la prosa barocca di Maurice Blanchot, superato cult
degli anni ‘60 e ’70, il cui spessore evocativo tuttavia ancora
non smette di emanare il fascino della genialità:
Euridice [...] costituisce
[...] il punto profondamente oscuro verso cui l’arte, il desiderio, la morte, la
notte sembrano tendere. L’opera di Orfeo non consiste tuttavia nell’assicurare
l’avvicinamento a questo «punto» scendendo verso la profondità. La sua opera
è di riportarlo al giorno e di dargli, nel giorno, forma, figura
e realtà. [...] Il mito greco dice: si può produrre un’opera solo se
l’esperienza smisurata della profondità [...] non è perseguita per se stessa.
La profondità non si consegna apertamente, e si rivela soltanto dissimulandosi
nell’opera. [...] Orfeo è colpevole d’impazienza. Il suo errore è di voler
esaurire l’infinito, di mettere un termine all’interminabile, di non sostenere
all’infinito il movimento del suo stesso errore. L’impazienza è lo sbaglio di
chi vuole sottrarsi all’assenza di tempo, la pazienza è l’astuzia che cerca di
dominare questa assenza di tempo facendone un altro tempo, altrimenti misurato.
Ma non c’è angolo del libro
che non incuiriosisca, non soprenda, non solleciti integrazioni personali o
storiche: come quella suggerita dal recente volume di Enrico Giaccherini Orfeo
in Albione, Pisa, Edizioni Plus-Università di Pisa 2002, che
ci restituisce il Sir Orfeo del lai bretone
e altre incarnazioni del vate tracio, o come Il divino Orfeo di
Calderón de la Barca, cui allude la stessa Di Simone in un paragrafo- cerniera,
che assomma in sé la tradizione medievale di Orfeo-Cristo, ancora da indagare
perché documentata da testi spesso ancora inediti o introvabili e certamente
non tradotti. Le pagine conclusive della parte letteraria, dedicate all’Orfeo
negro di Marcel Camus e Vinicius de Moraes (dove Orfeo tranviere di
Rio salva la compaesana Euridice da un assassino ma la uccide per sbaglio, poi
ne recupera il cadavere ed è a sua volta ucciso dalla fidanzata gelosa), aprono
la prospettiva verso le interpretazioni interculturali che consentiranno al
mito di trovare le riscritture via via richieste dal tempo, se è vero che «non
muore nel mondo la voce di Orfeo», la voce di chi deve rinunciare alla realtà
dell’amore e della vita per poterli cantare.
DAVIDE BREGOLA, Da
qui verso casa, Roma, Edizioni Interculturali 2002, pp. 155, € 11,00.
ARMANDO GNISCI-NORA MOLL, Diaspore
europee & Lettere migranti,
Roma, Edizioni Interculturali 2002, pp. 218, € 5,00.
Sono i primi due volumi di
una nuova collana dovuta all’infaticabile e benemerita iniziativa di Armando
Gnisci, l’iniziatore degli studi di letteratura migrante in Italia, e della sua
generosa scuola. Incuriosisce anzitutto la raccolta di Bregola, che intervista
sui temi della scrittura narrativa undici autori di libri italiani con
cittadinanza non italiana, pur giustificando come casuale il criterio della
scelta («potevano anche essere ‘scrittori solo italiani’ o ‘scrittori solo
uomini’ o ‘scrittori solo di confine’ ecc.»): perché, se un dato emerge dai
dialoghi, è proprio l’insofferenza di questi autori (dall’irakeno Tawfik de La
straniera, Bompiani 1999, alla statunitense Alice Oxman all’albanese Ron
Kubati al brasiliano Julio Cesar Monteiro Martins) per la categoria del
‘migrante’, che ha certamente giovato a costruirne un’immagine e a proporli al
grande pubblico, ma rischia di soffocarne la specificità letteraria sotto
l’applicazione di categorie socio- emografiche che vengono considerate estranee
alla propria scrittura. Tutto sommato, si ha l’impressione che non sia mai
stato facile per gli scrittori accettare di buon grado le etichette imposte
dall’esterno, come ermetici o neo-avanguardisti o cannibali o splatter, ma se
questo aiuta a conoscerli e riconoscerli ben vengano le categorie
semplificatrici e bando all’ipocrisia. L’interesse di questi dialoghi è invece,
per felice impostazione del curatore, nell’argomento strettamente tecnico: lo
stile, la costruzione dell’impianto narrativo, il rapporto con la lingua
italiana. E le risposte forniscono spunti molteplici, tavolta banali («parto da
un’idea, poi il testo prende vita da sé»), più spesso curiosi («ho letto un libro di De
Carlo, Due di due: se è così facile scrivere un romanzo, allora posso
farlo anch’io») e talora importanti per comprendere le motivazioni della
diffusione di determinati tagli, tecniche, atmosfere, o il fondamento di
determinate innovazioni: l’influenza del prosimetro arabo sugli inserti poetici
di Tawfik, quella delle sceneggiature poliziesche su Kubati, il minimalismo
«necessario» della Oxman in contrapposizione all’italiano «barocco» degli
scrittori madrelingua, i motivi folklorici del paese d’origine trasformati in
macrometafore del racconto, l’autobiografia- shock di Helga Schneider (autrice
di Lasciami andare, madre, Adelphi 2001, dialogo fra
una ragazza e la madre volontaria delle SS), le tecniche-scalpello per limare
le frasi, la concezione tutta mentale di un romanzo che si comincia a scrivere
quando in testa è compiuto, le raffinate strategie di Jarmilla Ockayova (Requiem
per tre padri, Baldini & Castoldi 1998) per costruire e disseminare
emblemi che inducano il lettore a scoprire le geometrie segrete della storia, i
consigli di Christiana de Caldas Brito sul personaggio che crea da sé
l’ambiente di cui ha bisogno, le indicazioni di Monteiro Martins sui dialoghi
senza commento del narratore, «importati» nell’italiano dall’America, e
sull’eccitazione che coglie lo scrittore quando riesce a produrre gradualmente
l’atmosfera necessaria alla creazione: un campionario di problemi, soluzioni,
tecniche, prospettive, impressioni che Bregola, anch’egli narratore confesso,
conclude con una sorta di intervista metodologica a Gnisci sulla linea critica
che ispira la collana. Ne emerge una liquidazione dell’universalismo, goethiano
e post-, in favore di una concezione della scrittura migrante come punta civile
e qualitativa della produzione letteraria mondiale che trova in Soyinka e
Gordimer, Brodskij e Walcott, Gao Xingjian e Naipaul le sue conferme più
eclatanti, ma anche una chiara coscienza della distinzione severa che è
necessario introdurre fra scrittori migranti e migranti che scrivono come forma
di testimonianza privata o collettiva: «conosco pochissimi scrittori migranti
che siano veri scrittori in Italia e con loro comunico ogni giorno: cresciamo
insieme». Ferma restando l’opposizione all’etichetta di «scrittori immigrati »,
che non si limita a indicare, come potremmo credere, una condizione stanziale
rispetto al nomadismo permanente del «migrante», bensì cela – secondo Gnisci – un
intento di ghettizzazione razzista (in senso linguistico?).
Le stesse opinioni sono
espresse in chiusura dell’altro volume, che raccoglie poesie, racconti,
microsaggi e testimonianze presentate al primo «Festival europeo degli
scrittori migranti» tenuto a Roma nel giugno 2002 con l’apporto di scrittori
come Gëzim Hajdari, Jan Koneffke, Barbara Serdakowski, Christiana de Caldas
Brito. Qui l’eterogeneità degli autori, dei temi, dei generi e dei livelli
richiede uno spoglio molto attento per individuare una guida di lettura, ma tra
i saggi possiamo segnalare l’indagine di Carmine Chiellino su La
comunità italiana in Germania come laboratorio di identità europea, i Percorsi
antologici di Mia Lecomte e l’utile panorama di Maria Cristina
Mauceri su La letteratura italiana della migrazione nei
curricula universitari europei e nordamericani.
(Francesco Stella)
MASSIMO BACIGALUPO, Grotta
Byron. Luoghi e libri, Udine, Campanotto 2001, nuova ediz. 2002, pp. 206,
€ 15,49.
Abbiamo letto un libro che
stimola la voglia di leggere, o di rileggere con occhi nuovi, altri libri. Il
titolo è Grotta Byron, il sottotitolo Luoghi e libri,
l’autore Massimo Bacigalupo, anglista tra i nostri maggiori. È una raccolta di
scritti brevi degli ultimi vent’anni (soprattutto dell’ultimo decennio), per lo
più corrispondenze o «occasioni», europee e americane, della misura adatta alle
colonne dei quotidiani. Misura comunque scelta e privilegiata dall’autore come
canone per un’informazione discreta, rivolta ai non specialisti, e filtrata
attraverso una perfetta padronanza della materia.
Al lettore viene offerta,
senza troppo parere, una quantità impressionante di notizie, spesso di prima
mano, per procurarsi, tramite i luoghi, una chiave di lettura degli scrittori
che li hannoabitati e rievocati nelle loro pagine. Un contributo a capire che
l’esistenza di un autore è inseparabile, ma con giudizio, dai suoi libri.
Niente «critica pura», preoccupata solo delle Opere, né il contrario predominio
del vissuto o tassativi riferimenti a teorie estetico-filosofico-letterarie.
Bacigalupo non segue nessuna di queste strade ma preferisce, in un mix
ragionevole d’ogni
tendenza, i riferimenti allusivi che creano cortocircuiti mentali. Se deve dire
qualcosa sulle radici culturali di un poeta raffinato, cerebrale e sorprendente
come Wallace Stevens, assicuratore di Hartford, si limita a ricordarci che è
«figlio delleepistole di S.Paolo, come tutta la
cultura americana», ed è un invito a leggere la corrispondenza
dell’evangelizzatore di Tarso e di lì partire per capire non solo Stevens ma
anche Faulkner e tanti altri di laggiù.
Il titolo prende spunto
dalla Grotta Arpaia di Portovenere e dalla controversa lapide bilingue (con
errore di traduzione), dove si ricorda che Byron partì di là per la sua famosa
traversata a nuoto (ma chissà se davvero ci fu), fino a Lerici. L’autore
ricorda che il luogo fu visitato in seguito da altri scrittori: da un ironico
Henry James e da Pound che ironizza su James e scrive alcuni versi per uno dei
suoi più celebri Cantos, il 49, poi cancellati e
riscoperti da Bacigalupo negli archivi di New Haven.
Ritroviamo nel libro tracce
di molti nomi famosi: Joyce, naturalmente a Dublino ma anche a Copenhagen,
Yeats a Sligo (pronunciare «Slaigo») in Irlanda ma anche a Rapallo, dove Pound
fu di casa, amico della famiglia Bacigalupo e dove Hemingway andava inventando,
in un giorno di pioggia, il suo stile. E poi la chiara-misteriosa Dickinson ad
Amherst, Lawrence a Spotorno e a Fiascherino, vicino alla Tellaro di Soldati,
Singer a Varsavia, Milosz a Cracovia, il sardonico Faulkner nella sua
tutt’altro che immaginaria Yoknapatawpha, Michel David a Genova, la Ortese e
Bianciardi ancora a Rapallo... Il viaggio è lungo, ciascuna tappa diventa una
piccola, godibile, narrazione.
Ripensandoci, è
probabilmente sbagliato legare in modo così diretto, come si è appena fatto qui
per semplificare, scrittori e pretesti di luoghi. Il libro di Bacigalupo è
molto di più, dà spazio agli itinerari della fantasia, guida davvero, con mano
lieve, alla lettura e alla comprensione.
(Carlo Vita)
EUGENIO MONTALE, Posthumous
Diary, edizione bilingue, a cura di Jonathan Galassi, New York,
Turtle Point Press 2001, $ 16,95.
Quasi in appendice alla sua
ammirevole, ormai celebre e giustamente celebrata traduzione dei primi tre
libri montaliani uscita nel 1998 col titolo Collected Poems
1920-1954, Galassi pubblica il Diario postumo,
curandone da par suo la resa inglese, le note e la bibliografia e offrendo alla
curiosità dei lettori americani un sunto delle vicende, tutte extra-letterarie,
che hanno proliferato oltre misura intorno a questo volume. Ma il traduttore dà
altresì il suo punto di vista su questi
testi sui generis di Montale composti nel salotto tutto speciale di
Forte dei Marmi e sottolinea il loro carattere ludico e occasionale, l’inatteso
tema della paternità che si dispiega nell’affettuosa e giocosa amicizia con la
destinataria degli ultimi versi del poeta, complice e traghettatrice post
mortem di memorie, di arguti motti e umoristici ritratti di amici.
Galassi richiama inoltre l’attenzione
sul tono insolitamente intimo di questo Montale in chiave minore, ma pur sempre
capace di commuovere e sorprendere tanto da essere letto come libro autonomo,
sebbene ancor più apprezzabile come corollario all’opera più alta del suo
autore. Come tale si propone questa traduzione, a partire dalla veste
editoriale, più dimessa dell’elegante volume del 1998 pubblicato dalla Farrar,
Straus & Giroux. Sta anche in questo la virtù di un traduttore: indicare
con onestà ai lettori d’altra lingua e cultura il ruolo ed il valore di un
libro nella tradizione da cui proviene.
(Antonella Francini)
FRANCO NASI (a cura di), Sulla
traduzione letteraria. Figure del traduttore – Studi sulla traduzione – Modi di
tradurre, Ravenna, Longo Editore 2001, pp. 174, € 15,49.
Si sa ormai benissimo che
tradurre è un compito, anzi un’arte, molto difficile. Gianluigi Melega
ricordava sulla Repubblica del 9 luglio 2002 come
trasferire in italiano Il grande Gatsby fosse stato un
compito ben arduo per la pur bravissima Pivano. Impossibile restituire «quella
tintinnante emozione che Fitzgerald con l’orecchio assoluto del genio sapeva
inseguire e suscitare». Certe sue locuzioni, certi aggettivi non sono
traducibili né in modo letterale né ricorrendo a metafore o espedienti
stilistici. A chi ha avuto occasione di ascoltare buoni traduttori discutere
del loro lavoro/passione, è spesso parso di essere inciampato in un paradosso,
come quello di Achille che non può mai raggiungere la Tartaruga. Leibniz ci ha spiegato che la verità di
fatto può negare la verità della ragione. E così, in barba a Zenone di Elea, si
continua a tradurre, e spesso i risultati sono eccellenti.
Qualche lume può venirci
leggendo Sulla traduzione letteraria, che riunisce la
versione italiana degli interventi al quarto seminario «Susan e Donald Mazzoni
», tenuto, a cura di Franco Nasi, all’Università di Chicago, dipartimento di Romance
Languages and Literatures, fra 1999 e 2001. Nella prefazione il curatore dà una
sintesi efficace delle varie posizioni e tendenze emerse nel corso dei lavori e
delle finalità del seminario: «Si voleva offrire in sostanza una fenomenologia
delle figure del traduttore, che potesse sollecitare ulteriori letture,
riflessioni, ed esercizi di traduzione orientati in modo differente e vario».
Figure del tradurre è,
infatti, la prima delle sezioni in cui sono stati ripartiti gli interventi.
Visto che ogni traduzione decontestualizza radicalmente l’originale e crea una
«perdita» linguistica e letteraria, fino a che punto il traduttore può
assimilare il testo straniero alla cultura d’arrivo? Se lo chiede Lawrence
Venuti, professore di Inglese alla Temple University di Philadelphia. La sua
risposta è derridiana: il traduttore deve introdurre nel proprio testo mezzi domestici
(cioè della cultura di casa sua), ma che siano «inventivi e
sperimentali», che si allontanino dai valori dominanti locali, per segnalare l’estraneità
della traduzione, le inevitabili differenze linguistiche e
culturali dell’originale. Impegno arduo, che Venuti giudica «etico» (la missione
del tradurre, dunque), portando esempi di traduzioni più o meno
adeguatamente spaesate. Occorre far capire al lettore pigro o ignorante che la
traduzione non è una «forma invisibile di
lettura» (Venuti ha scritto un libro, ora disponibile in italiano, L’invisibilità
del traduttore, Armando), e che in essa può esservi un guadagno
letterario e di linguaggio, a compenso della perdita che il tradurre fatalmente
comporta.
Per altri, come Armando
Maggi, professore di Italiano all’Università di Chicago, il traduttore
dev’essere «il più silenzioso possibile», una specie di ventriloquo che rimuove
la propria voce, uno Zelig capace di assumere la personalità vocale dell’autore
tradotto. Tanto più se si tratta di dar voce al Verbo. Maggi ha voltato per gli
americani le «visioni» di Maria Maddalena de’ Pazzi, la più grande mistica del
Rinascimento, trascritte dalle
sue devote e trafelate consorelle monache, che la rincorrevano con carta e
penna in mano. Paradossalmente la versione appare più chiara del testo
originale, per la necessità di interpretare passi oscuri ma linguisticamente
allusivi in italiano, incomprensibili ai lettori d’oltre Atlantico se resi
letteralmente.
Delle traduzioni «belle e
infedeli», secondo la battuta proverbiale di Gilles Ménage, teorico secentesco,
si occupa Valerio Magrelli. Non esiste fedeltà a un testo, ogni volta dobbiamo
decidere «a quali delle non infinite ma numerosissime funzioni di quel testo
vogliamo essere fedeli». Egli propone di adottare la regola del «meno uno»,
come l’abate Galliani (ogni volta che
s’inchinava al re, voltava le spalle a qualcun altro). Rispettare tutti gli
elementi dell’originale tranne uno vuol dire, in ogni caso, ridurre la erdita al minimo possibile. Essenziale è
individuare, come raccomanda Starobinski (soprattutto nel tradurre poesia), il
«centro nevralgico» del testo, qualunque sia il suo livello.
Fedeltà allo spirito più che
alla lettera, secondo il consiglio di Ezra Pound, è una regola perseguita da
molti, come Anthony Oldcorn, traduttore in inglese di Goldoni e dei Canti
carnascialeschi, di cui alcuni composti da Lorenzo de’ Medici.
Conservare il tono è la sfida più difficile per
il traduttore, specie in poesia (la poesia sarebbe, definizione disperante di
Robert Frost, «ciò che si perde nella traduzione»). Nei Canti,
Oldcorn ha cercato di domesticare l’italiano del tardo
Quattrocento, colloquiale, popolare, spesso gergale, in un inglese di oggi
dello stesso tipo, senza violare né il decoro linguistico (Lorenzo non era mai
volgare), né il senso.
«La forza di uno stile deve
essere misurata in relazione alla sua capacità di resistere alla traduzione»,
vorrebbe ribattere a Borges il poeta Mark Strand in un suo divertente ma assai
allusivo e conflittuale intervento, sotto forma di colloquio immaginario con
personaggi vari. Borges, ricordando Pierre Menard, traduttore
in spagnolo del Cervantes, aveva sentenziato, a proposito del
tradurre Wordsworth: «devi diventare,
per tutto il tempo necessario, l’autore del Prelude»
(un altro Zelig? Si dovrebbe chiederne conto a Massimo Bacigalupo, che ha
tradotto con eccezionale efficacia quel poema). Compito assolutamente
impossibile, commenta Strand, «perché per tradurre uno
deve smettere di esistere». E subito soggiunge: «mi resi conto che se avessi
smesso di essere non avrei mai saputo».
Altri interessanti
contributi troviamo nella sezione Studi sulla traduzione,
dove si affrontano specifici casi, come la pregevole versione in inglese dei Mottetti
montaliani ad opera di Irma Brandeis, la «Clizia» del poeta.
Alessandro Rebonato ci fa scoprire che l’ebrea americana, legata da un forte e
difficile rapporto intellettuale e sentimentale all’autore dei versi «La
pianola degl’inferi da sé / accelera i registri...», non è stata soltanto (lo
provano i riscontri), acuta e sensibile interprete. Certi caratteri gnostici,
che Andrea Zanzotto aveva già messo in evidenza nella poesia del Montale
maturo, e certi contenuti latenti e oscuri dei Mottetti,
non sarebbero estranei ad un’influenza di Irma/Clizia, medievalista
appassionata di testi mistico-teosofici e di letture eterodosse della Cabala.
È possibile una «teoria
della traduzione letteraria»? Se lo è chiesto Franco Nasi (Visitor Lecturer
all’Università di Chicago all’epoca del seminario), riflettendo sui modi di
affrontare la versione di un testo. Ne esistono in sostanza due, completamente
diversi, che Nasi ha analizzato ed esemplificato. C’è il modo dell’equivalenza
dinamica con il quale si privilegia la «fedeltà allo spirito», ma
attraverso invenzioni linguistiche che assegnano al traduttore un ruolo
«creativo». L’altro modo di tradurre è quello contestato della «fedeltà alla
lettera», ma che susciti nostalgia per l’originale (definizione
ripresa da un intervento di Erri De Luca). La traduzione scrupolosamente fedele
presuppone però un supporto esplicativo, affidato ad un testo ausiliario. La
storia di come sia stato utilizzato questo secondo modo di tradurre mostra
quanto inefficace e fuorviante possa essere il suo inserimento in una teoria.
«La traduzione» conclude
Nasi dando ragione in un certo senso a Strand «sembra essere il risultato
momentaneo, mai definitivo, di una serie intrecciata di relazioni,
continuamente cangianti, che permettono a un testo di essere in vita proprio in
virtù del suo essere in movimento ». Per poterlo afferrare nelle sue varie
trasformazioni, occorre che il traduttore possieda o acquisisca, con pazienza e
umiltà, l’indispensabile «capacità di ascolto».
(Carlo Vita)
Politique et style. «Balises»,
Cahiers de Poétique des Archives & Musée de la Littérature, 1-2, 2001-2002,
Bruxelles, Didier Devilez Editeur/Archives& Musée de la Littérature
(www.aml.cfwb.be), pp. 290, € 21,00.
La questione del rapporto
tra strategie del linguaggio e affermazione del potere suscita oggi un
rinnovato interesse critico, sorto dalla sensibilizzazione attuale ai problemi
della socialità e della comunicazione. Rispetto ad una società teocratica, dove
le ragioni di tali strategie muovono dalla necessità dell’equilibrio interno
alla polis (secondo la tradizione platonica ed aristotelica che
il classicismo francese sei- settecentesco accoglie: così Buffon affermava,
all’Académie française, che «le style c’est l’homme même» nella sua essenziale
‘riproducibilità’ morale), la società democratica si fa portavoce di una
‘critica’ dello stile inteso, sensu lato,
come modalità del rapporto tra il sé e l’altro. Ma non solo: ogni grande uomo,
come sostenne il liberale Hugo, in polemica col classicismo di Buffon, ha molti
stili. Ed è proprio questo pluralismo metastilistico che qui si riscontra,
nella diversità stessa degli approcci al binomio in questione il quale viene
proposto, come si dice nell’editoriale, a mo’ di provocazione. Taluni lo
intendono infatti come diade inscindibile, altri come opposizione o alternanza
(et/aut); talvolta – come in Barthes – è «écart», talaltra
ciò che più intimamente appartiene all’uomo. Resta comunque ferma, in larga
parte, l’implicazione politico-sociale del fatto stilistico, non più inteso
come mero ornatus (e tuttavia, la «stilistica inessenziale» rilevata
dal Benjamin era indice di una precisa intentio,
seppur non consapevole). Il problema dell’equilibrio interno allo Stato
accentrante, che ha in Francia una tradizione secolare e che per questo
configura la peculiarità francese della ricezione di questo binomio (nella
fattispecie la diffidenza, di ascendenza
cartesiana, verso laretorica come arte del
détour e dell’affabulazione, cui deve contrapporsi la
chiarezza e la trasparenza degli intenti nel pensiero così come nella gestione
della res publica) si confronta con altre prospettive culturali. Tale
confronto mostra indirettamente come la stessa idea di ‘stile’ sia, in qualche
modo, legata ad una modalità linguistico-culturale specifica che, come già
voleva Humboldt con la sua idea di Wechselwirkung,
identifica un sistema culturale
attraverso lo stile (la lingua stessa,
come volle Leopardi) dei suoi locutori.Così, al di là del valore
artistico e scientifico degli interventi
che si avvicendano (testimonianze dirette di scrittura si alternano a saggi
critici), la varietà delle prospettive è, ci sembra, il principale merito
‘testimoniale’ di questo volume collettaneo. Qui infatti si accende, viva, la
polemica insita nella problematica culturale peculiare della francofonia,
ovvero quella del confronto tra lo style-métropole,
come diremmo oggi in termini correnti (le ‘modalità’ poetico-politiche imposte
dal canone parigino), e le sue varianti linguistico-culturali, siano esse
interne o esterne all’Esagono. Così, se da vari saggi traspare la polemica
‘nazionale’ o comunque interna all’ambito francofono (seppur trasposta ai fatti
letterari: non-conformismo autentico e solitudine in R. Char; presunto ‘regionalismo’
stilistico nello svizzero Ramuz, che nella penna di un Céline – aggiungeremmo
noi – sarebbe semplicemente risultato come un tratto di modernità tutta
metropolitana; il caso dell’Algeria di Jean Amrouche), da altri scritti
(soprattutto da quelli di autori anglo-americani, benché tradotti in francese)
si riceve per contrasto l’impressione che l’idea di stile sia appunto ‘indotta’ da una certa forma
mentis culturale che in qualche modo influenza il pensiero degli
autori. Così, infatti, lo spirito federalista e multiculturale di matrice americana analizza lo stile nell’ambito di
una concezione nettamente improntata sul gender e i post-colonial
studies, ovvero secondo una visione agonica e dialettica tra culture
che non appartiene allo spirito francese e francofono, ancora in larga parte
improntato alla tradizione
scolastico-retorica dello stile. È il caso di Nathaniel Tarn e del suo concetto
lato (antropologico) di anti-traduzione, mutuato dalla Babele steineriana ma
riproposto in un contesto di conflittualità culturale dove si riconosce (in lei
come in molti altri) l’effetto disgregante di una democrazia ‘stilisticamente’
scorretta.
(Michela Landi)
TESTO A FRONTE, Semestrale
di teoria e pratica della traduzione letteraria, diretto da Franco Buffoni,
Allen Mandelbaum, Emilio Mattioli, n. 26, I semestre 2002, Milano, Marcos y Marcos, pp. 226, € 13,20.
In concomitanza con
l’uscita, per la collana dei «Saggi di Testo a fronte», di un volume
collettaneo dal titolo: Ritmologia. Il ritmo del linguaggio. Poesia e
traduzione (vd. la recensione qui accanto), il numero si apre con la presentazione di F.
Scotto e la traduzione (a cura di F. Scotto e V. Kamkhagi), di un estratto del Traité
du rythme. Des vers et des proses di H. Meschonnic (Paris,
Dunod, 1998), con il quale il critico torna sul tema a lui caro, già trattato
con la Critique du rythme (1982) e la Politique
du rythme (1995). Si attesta così la vivacità di un dibattito,
scatenato dalle innovazioni concettuali proposte da Benveniste e dallo stesso
Meschonnic, che implica una totale revisione
del fatto prosodico in letteratura. Suddiviso in tre sezioni
opportunamente trascelte (Introduzione, «La scommessa del ritmo nella teoria
del linguaggio » e «l’oralità del racconto»), l’intervento mira a tracciare le
coordinate essenziali del nuovo pensiero ritmologico: in particolare,
l’affrancamento da uno statuto oratorio ed esteriore del ritmo come normatività
metrico-prosodica (strettamentelegato al fatto poetico) e l’estensione dello
stesso all’insieme dei fenomeni del linguaggio, sia esso verbale o non verbale (e già M. Jousse negli anni
cinquanta ricordava il «rythmisme» naturale della gestualità). Da una
concezione meccanicistica si passerà insomma ad una concezione organicistica ed
antropologica, dove l’idea di «oralité» come massima iscrizione ‘ritmica’ del
soggetto nel testo, contribuisce ad estendere il problema ad ogni fenomeno ‘significativo’ della
scrittura: ne costituisce un esempio vivacissimo il caso Flaubert (che, come sappiamo, declamava
la sua «prosa» a voce alta, in un apposito «gueuloir»). Segue un interessante
intervento sulla traduzione di Ulverton (il
primo romanzo di A. Thorpe) dove l’autrice, M.G. Nicolosi, si appoggia alle
tesi di Kristeva e Bachtin per portare avanti una critica originale.
Altrettanto stimolante il breve scritto di M.P. Pagani sui testi giullareschi
russi, dove si associano interesse etimologico ed antropologico. Una sezione è
dedicata a due poeti bulgari, P. Javorov e E. Bagrjana, cui seguono due
traduzioni: una, a cura di A.E. Afrhani e G. Pontesilli (con testo arabo a
fronte), di M. Al Achaari ed una dall’Edipo
Re di Sofocle a cura di A. Rodighiero. Del poeta inglese S. Rogers
V. Salerno presenta il breve poem che
ha per titolo Amalfi, mentre Elisa Biagini
traduce Sharon Olds, poetessa americana con- temporanea.
Particolarmente graditi il ricordo del caro Bernard Simeone, grande italianista
e traduttore francese recentemente scomparso, di cui si propone una riflessione
sulla traduzione e una scelta di testi da lui tradotti, e quello di Maria
Corti, con un suo pensiero sulla traduzione. Chiudono il ricchissimo numero il
consueto quaderno di traduzioni e la sezione
dedicata alle recensioni.
[M. L.]
Ritmologia. Il ritmo del
linguaggio. Poesia e traduzione. Atti del Convegno:
Università degli Studi di Cassino, Dipartimento di Linguistica e Letterature Comparate,
22-24 marzo 2001. Milano, Marcos y Marcos, 2002, pp. 414, € 18,00.
Ben trentotto interventi
conta questa ricchissima pubblicazione che, come sottolinea Buffoni
nell’introduzione, assume, per la novità così sistematica di esplorazione di un
delicato e poco noto campo d’indagine, una valenza innovativa analoga a quella
che si associò al caso omologo della
‘traduttologia’; ciò riconferma la sensibilità e la lungimiranza critica
diun gruppo di lavoro di poetica che
ruota intornoa «Testo a fronte» e «Trame». L’approccio al fatto ritmico, che si
avvale dell’apporto di studiosi di diversa
vocazione, offre una prospettiva sia diacronica che sincronica,
rivelando la complessità del ritmo come punto di approdo del ‘fare’ umano di
cui la poesia costituisce, come si conviene, il paradigma. Per l’alta
specializzazione di alcune trattazioni
(non mancano interventi tecnici, se non talvolta tecnicistici, ma comunque
utili agli addetti ai lavori, soprattutto in ambito metrologico, dove la
questione del ritmo è maggiormente coercibile), cui si affiancano riflessioni
di poeti e critici letterari (testimoni di un vivo esperire o comunque di
un’ermeneutica del ritmo), questa raccolta
di saggi costituisce senz’altro un presupposto insostituibile per gli
studiosi. Ciò che risulta particolarmente apprezzabile, al di là del valore dei
singoli interventi, è senz’altro l’indipendenza critica dalle
teorizzazioni più influenti del recente
passato, nella necessità di non trascurare modalità soggettive di ricezione
poietica; donde un tentativo di autonoma ridefinizione del fatto ritmico in ambito
metrologico, poetico, filosofico (secondo la tripartizione di Buffoni).
Infatti, il presupposto epistemologico di Benveniste su cui si fonda
Meschonnic, se ha il pregio di sollevare una coscienza ‘ritmologica’, risulta
sotto certi aspetti – alla luce dell’etnologia (oramai presupposto ineludibile
in ogni fondazione di un sapere trasversale), e dell’etnomusicologia – un
sofisma che si fonda su un pregiudizio pseudoorganicisticoaltamente
concettualizzato. Il postulato panritmico di Meschonnic che risulta, in definitiva, molto più vicino a
Platone che ad Eraclito (configurandosi, anche se a
parte subiecti, come una «organizzazione del movimento»), non
sembrainfatti avvalersi, nel suo autotelismo
formulante, di nessun concreto fondamento etnologico. L’etimologia
mutuata da rhéo che offre sicuramente, come
inmolti interventi si è rilevato, una suggestiva alternativa motivazionale all’arythmos
di nostra tradizione ed una succosa occasione per farsi
protagonisti di un rovesciamento
epistemologico di grande riscontro, appare, nella sua postuma
ridefinizione, accolta in un contesto riduttivo. Infatti, l’accezione
principale dello «scorrere» trascura una sua necessaria implicazione
connotativa, strettamente connessa con una psicagogia del ritmo: quella dell’opposizione
della materia alla ‘liquida’ progressione da cui la ‘reologia’, scienza
che studia, appunto, la resistenza
elastica dei materiali ad una deformazione). Il concetto di plasticità come
‘configurazione’ provvisoria (secondo la formulazione di Eraclito e Democrito
evidenziata da A. Inglese) di cui Hegel ha fatto, tra l’altro, uno dei principi
costitutivi della sua dialettica tra forma e dissoluzione, si trova infatti a
coincidere, in un confronto con l’etnomusicologia, con quella del corpo in
movimento come presupposto archetipico di ogni figuralità. Come il simbolo il
ritmo è infatti simultaneamente, secondo una
formula di Schneider, «dentro e fuori di noi». Il mancato confronto diretto con
l’etnologia (nella fattispecie, con le imprescindibili rivelazioni di Eliade,
Jousse, Zolla e lo stesso Schneider) comporta, dunque, delle menomazioni tutte
‘occidentali’ alla ‘figurabilità’ del ritmo, la cui ‘ridondanza’ sacrale e
cultuale nell’ambito della poesia e della traduzione (la sua irriducibilità
semica) resta comunque confinata a postulati idealistici del poetico come atto
primo. Nella sua consustanziale dualità logogenica e patogenica quale si
manifesta nella poesia moderna, invece, il ritmo è in primo luogo un concetto
etnoantropologico, di cui la poesia stessa offre un’ideale punto di
osservazione costituendosi come snodo della sua consustanziale (e finora
misconosciuta) dialetticità. Una «critica pratica» del ritmo (secondo la felice
formula che Steiner adotta per la traduzione), è infatti quella che si
riscontra attraverso un costitutivo sdoppiamento dello stesso tra una istanza
progressiva ed edificante (poietica), tesa al discorso e alla
concettualizzazione, e una istanza regressiva, (recepita come pars
destruens) tesa verso l’archetipo del corpo danzante che mima una
autosignificatività dissipantesi in un contesto rituale e cerimoniale. Nella
maggior parte delle civiltà primitive (cui si ascrive anche il sincretismo
presocratico della mousikè ritentato a posteriori da
Wagner) il fenomeno ritmico risponde infatti alla necessità, en
abyme, di ‘figurare’ (plasmare: di qui il primato chironomico) il
corpo, ovvero, di domesticarlo. La tendenza alla ‘tesaurizzazione’ simbolica
del gesto in una forma schematica del pensiero conduce ineluttabilmente ad una
configurazione che, dapprima intuitiva, si viene progressivamente
concettualizzando, codificandosi e ‘appiattendosi’ nel metro: tale si manifesta la «sorte
progressiva » del ritmo nell’ambito di una concezione lineare e monoassiale del
discorso dato come ‘edificante’ e simmetrica sequenzialità. Di qui la
convinzione di molti etnologi ed antropologi che il ritmo (essenzialmente
asimmetrico giacché simmetria in natura equivale a stasis)
sia strettamente connesso con l’economia interna di una società: cerimoniale,
feticizzante nel caso di una patogenia (la ‘dissipazione’ del corpo come
oggetto di culto, di cui i tamburi parlanti di certe culture primitive, mimando
i tratti soprasegmentali del messaggio linguistico, costituiscono il surrogato
‘strumentale’), edificante (domesticante) ma reificante nel caso di una
logogenia, ovvero di una economia dello scambio linguistico qual è la nostra
(cui ascriveremo anche il ‘ritmo’ architettonico che ha governato
l’edificazione ‘simbolica’ delle cattedrali). In tale ottica, è implicitamente
indicativa la scelta, oramai convenzionale, di rendere verslibrisme
con ‘versoliberismo’, laddove la connotazione ‘economica’, forte
in italiano (e non in francese che ha invece, come corrispettivo ‘economico’,
il sostantivo «libéralisme »), esemplifica l’individualismo ‘poietico’ delle
attuali democrazie in rapporto ad una regimentazione ‘teocratica’ della
versificazione. Data la forte componente spaziale, sia nella sua accezione
patogenica sia in quella logogenica, risulta dunque, a posteriori, altrettanto
sofistica l’attribuzione post-bergsoniana di una temporalità al ritmo, ovvero
una sua ‘melodizzazione’ sul modello vocale. Tale tendenza già precritica di
annullamento reale del ritmo, particolarmente affermatasi nel secondo Ottocento
(il wagnerismo e la unendliche elodie) non fa che
preludere alla reazione iper-ritmica
della poesia ‘simbolista’ (qui spesso a buon diritto citata). Ravvisando
l’irruzione della coscienza ritmico- atogenica nel testo come un’istanza destruens
che provoca il «soprassalto della coscienza» di fronte ad un
meccanismo ora recepito come organismo (si pensi alla repercussio
iperestetica di Baudelaire o alla riconfigurazione ‘punitiva’
della diabolica saltatio di ascendenza medievale), la
poesia si fa ora portavoce di una autentica ‘critica’ del ritmo, ravvisato
nella sua ‘rituale’ sovradeterminazione. Tale ‘organicità’ del fatto ritmico
sentito come presupposto inesauribile di ‘figuralità’ in dissoluzione, si
manifesta attraverso la percezione di una ridondanza percussiva e regressiva
del poetico rispetto alla parola secolarizzata ed edificante. La stessa
spazializzazione ‘disgregante’, accompagnata ad una rimotivazione poetica della
lingua a principio si riscontra, del resto, nell’analogia etimologica
tra cadenza e caduta evocata da Mallarmé, dove ogni accentuazione comporta una
interruzione ‘spaziale’ (proto-figurale della anodina sequenzialità discorsiva. Per tornare
su un piano più operativo, avremmo apprezzato qualche applicazione strettamente
traduttologica del ritmo o del metro (ad esempio una stilistica comparata su
base metricologica). Resta il fatto che, testimoniando della serissima
investigazione metapoetica che sta alla base della produzione contemporanea e
tanto più apprezzata nei poeti giovani, il volume costituisce una mirabile
reviviscenza ‘autocritica’ (teorica e pratica) della poesia che dal
manieristico autocompiacimento post-mallarméano (come ben sottolinea Zuccato)
torna ad investigare, attraverso la sua privilegiata prospettiva, le radici più
profonde ed autentiche dell’agire il quale sta sempre, ineluttabilmente, dentro
e fuori di noi.
[M. Landi]
Per Leggere. I
generi della lettura, anno II, numero 3, Autunno 2002, pp. 176; a. III,
numero 4, primavera 2003, pp. 182 (Pensa multimedia Editore, v.le Lo Re 109,
73100 Lecce).
«Per Leggere», prima rivista
dedicata esclusivamente al commento di testi letterari, presenta in limine un
denso saggio della direttrice Natascia Tonelli su Linee
di cultura medica: per la lettura di Petrarca Rvf 47, 48, 49,
che indaga con acribia e succose novità gli avantesti dei sonetti in questione,
esplorando fonti di cultura medica mediolatina come Arnaldo di Villanova (De
parte operativa e De amore heroico), o gli enciclopedisti
Bartolomeo Anglico e il XV libro dello Speculum Doctrinale di
Vincenzo di Beauvais, intitolato De melancholia nigra, et
canina, et amore qui dicitur ereos, a definire i luoghi comuni
di una fisiopatologia dell’amore trasmessi dal sapere medico alla
trasformazione poetica: un itinerario di ricerca che sta ottenendo negli ultimi
anni sempre maggiore attenzione, come dimostrano fra gli altri le opere di
Bergdolt, Benedek, Rodnan, il contributo di Antonio Musumeci Petrarca
e il lessico della malinconia, in Malinconia
e allegrezza nel
Rinascimento (Milano, Nuovi Orizzonti 1999), e il convegno
annunciato a Barcelona per il 2004. Fra gli altri saggi segnaliamo quelli
dedicati alla poesia: Un anomimo imitatore dell’Arcadia,
lettura proposta da Marina Riccucci dell’ecloga Aglao
et Aglasto (“Deh, s’io potesse, pur hor che ho conduto”, opera di
autore padano attribuita un tempo al Sannazzaro), un commento estremamente
analitico di Francesca Latini ai sonetti che compongono il Paretaio
cruschevole di Stecchetti, uno studio di Tiziana Arvigo su Delta
di Montale e sul ruolo “musaico” di Anna Degli Uberti, una
riflessione di Rodolfo Zucco sui significati paraliturgici e metapoetici della
bellissima Le ceneri di Sereni. Nella sezione Dialoghi
un contributo filologico su postille manzoniane edite e inedite
(sui presupposti storiografici dell’Adelchi) dovuto
a Isabella Becherucci, che cura anche la preziosa sezione delle “Cronache”.
Nel n. 4 si segnalano una
densa lettura geopolitica di Purgatorio XIV,
da parte di Umberto Carpi, una gustosa intervista di Marco Santagata a Domenico
De Robertis sulla sua monumentale edizione delle Rime
di Dante e l’analisi di Elena Parrini sul saggio di traduzione
dell’Odissea presentato da Leopardi ai letterati italianinel
1816.
[F.S.]