SETTE TRAGEDIE ALL’OMBRA DI UN ROMANZO
INFINIBILE: PIER PAOLO PASOLINI E IL TEATRO IN VERSI
di Stefania
Esposito
Introduzione
Poesia in forma di rosa introduce nell’opera di Pier Paolo Pasolini una cesura
all’interno della quale lo stile diventa un’arma a doppio taglio, prende a
mimare la cronaca, il comunicato giornalistico, in un complesso panorama
semantico in cui sono difficilmente rintracciabili punti di fuga. Il cinema, e
per una breve stagione il teatro, sembrano offrire alternative valide all’esaurimento
della scrittura poetica vera e propria; nel primo caso Pasolini ricondurrà alla
macchina da presa la propria personale fascinazione (questa sì mai sopita) per
la linguistica nelle sue componenti più innovative, maturata sulla lunga scia
di Jakobson e dei formalisti russi. Unitamente, la passione per la pittura
diventa nei film un richiamo personalissimo e irrinunciabile alla comunicazione
altrove destituita nelle chiusure epigrammatiche dei comunicati in versi. Nel
teatro l’allegoria ed i personaggi-figure cristallizzano la passione poetica e
l’istinto al narrare in una stasi discorsiva nella quale tutto l’universo
dell’autore sembra ibernarsi. L’eco di entrambe queste esperienze è
rintracciabile nell’ultimo romanzo nel quale Pasolini utilizza materiali di
varia provenienza. Petrolio contiene un numero considerevole di termini
appartenenti all’universo cinematografico e a quello teatrale,(1) materiali
desunti dai giornali e in generale dal mondo dei mass media; la stessa
struttura di alcune delle sue parti ‘funziona’ seguendo le modalità di un set o
in altri casi di una scena teatrale. L’intera sezione degli appunti riguardanti
il Merda si svolge come una lunga carrellata nella quale l’indicazione
precisa delle strade, della tonalità della luce, dei colori che differenziano i
successivi gironi, danno il senso della plasticità compatta e intensa di un
lungo fotogramma. Si deve inoltre rilevare un uso della prospettiva e del tempo
narrativo che aggiunge un ulteriore collegamento tra quest’opera e le tragedie
immediatamente precedenti.
Il frammento viene adottato come l’ultima possibilità data al
romanzo di tornare a parlare nella lingua autentica e non ancora mercificata
dal mutamento sociale in atto; di essere in definitiva la ‘cicatrizzazione’ di
quel realismo in auge e tutto figurale dei romanzi romani la cui vitalità è
andata definitivamente perduta. Lo spessore visuale delle parti che l’autore
riunisce idealmente sotto il titolo di Mistero è dato dalla struttura
delle parabole quali forme di comunicazione ‘forte’ che godono ancora di una
vita propria. Queste pagine, insieme a quelle del Progetto,
costituiscono il primo tentativo di messa a fuoco di un punto di vista
anch’esso duplice, dato dalla zona preponderante delle visioni e da un’ordinata
e già distinguibile sezione legata ad un canone narrativo, con una sua logica
interna, che progredisce in parallelo alla prima.(2) La storia delle due metà e
delle loro metamorfosi non è storia di una dissociazione ma storia
«dell’ossessione dell’identità e, insieme, della sua frantumazione».(3)
L’autobiografia in versi esibisce un sostanziale fallimento,
linguistico ed umano, tutto protratto verso uno stile che diventa arma e
barriera, forzavuota ‘per eccesso di vita’ che riduce la scrittura ai minimi
termini. L’allegoria domina l’intero contesto tematico della tragedia; la
storia interiore, poetica, della diversità martirizzata consiste in quel che
sfugge, per brevi tratti, alla pianificazione in atto.
La Divina Mimesis, Bestia da stile, Petrolio:
la forma del metaromanzo in Pasolini
Ideata nel 1963, La Divina Mimesis conferisce una prima
forma all’idea del viaggio ultraterreno sulle orme di Dante che Pasolini andava
riscoprendo già a partire dal 1950. L’opera nasce da una crisi, dal sentore di
una esclusionedal mondo degli altri che rende paradossalmente più sicura la
fascinazione per il proprio perduto e il debito nei confronti degli antichi
maestri. Dante ed il suo enorme potenziale espressivo, la lingua delle cose che
sopravvive «all’Angelo del Falsetto»,(4) diventano i punti cardine di un
documento autobiografico teso ad esprimere uno sgomento e a sedimentarlo
attraverso una scrittura che rievoca quella della Commedia. Appena
uscito dal buio della propria «vecchia verità», dolorosa perché rivelatrice, l’unica
strada distinguibile nella selva moderna è, per chi scrive, quella fuori da
ogni ragione: la mise en abîme del mondo a vantaggio di un universo
introspettivo emerso da una lacerazione, dalla «ripetizione di un sentimento
che si fa ossessione».(5) La nuca che il suo doppio, precedendolo, scopre, ha
l’innocenza di una stagione passata con gli anni cinquanta, di una passione
poetica inutilizzabile perché legata alla «vecchia concretezza della fantasia
domestica ed elegiaca».(6)
Il viaggio di questo corpo nella penombra infernale di una lunga
ricerca espressiva, la constatazione di una irrilevanza prima di tutto
fisica (un ridicolo corpo di «bandito
scalcagnato e sporco»), unita al senso d’impotenza nei confronti di quelli che
hanno imparato «l’arte dell’attenuazione»,(7) sarà proiettato nella stasi di
Jan in Bestia da stile. Il corpo risponde alla ripetizione di un singolo
atto che dà scandalo, il giovane poeta non potrà che seguire il suo destino in
un’allegoria del tempo passato e futuro nella quale i personaggi non hanno più
storie da raccontare. La tragedia riprende, trasferendola sul monologo
teatrale, la riflessione metalinguistica sviluppata in Poesia in forma di
rosa, dove il verso dialogante e ‘autobiografico’,la presenza costante
dell’autore in un lunghissimo primo piano e la forza polemica dell’intera
raccolta segnano un punto di non ritorno. Pasolini lavora nel teatro ad un
forma di poesia-racconto nella quale è sempre visibile il disagio di chi,
tagliato fuori dalla propria storia, non può crescere su radici altrui né
rassegnarsi ad una semplice constatazione dei fatti. La lingua, infatti,
privatadi ogni margine rassicurante legato alla successione del narrato,
verbalizza un lungo fluire di stati d’animo toccando il suo apice nel monologo
ossessivo e dissacrante dell’ombra della madre: fantasma di un corpo vivo, con
la sua privata e profonda disperazione, la sua pura forma di stereotipo
riesumato dai segni. «Ho cominciato a non parlar / quando tu hai cominciato a
parlar; / io son sempre stata dura come una rapia; / dragon dovevo nasser / e
invece son drago. / Da questa pancia / tu sei rotolà / tra i piculi borghesi /
e là sei restà».(8)
Pasolini realizza una triplice scansione degli avvenimenti: sul
piano del mito Jan risponde in tutto alla descrizione di un eroe antico,
esiliato dal suo tempo come una forza vitale che vanifica, con la sua fine,
ogni forma di controllo o costrizione. A questo primo rammemorarsi di un
universo aurorale, testimone di una irrinunciabile tradizione, si affianca la
sfera autobiografica; nella sua Semice- Casarsa Pasolini fa rivivere il primo epos
friulano annullando però la parola nel gesto, affidando ad una proiezione
la propria immagine attuale.(9) Tutto è parte della recita, quella del «morto
di paglia» che non sa più niente della bellezza e non conosce la distanza
necessaria ad ogni forma d’amore. La figura di Jan sembra nascere sulla radice
originaria del dramma di Edipo: un figlio destinato al martirio per la sua sete
diconoscenza e per il suo stato di veglia pressoché permanente. Il coro della
tragedia determina il suo effettivo isolamento dal mondo degli altri, oppone al
mistero la forma sclerotizzata del richiamo all’ordine e all’impassibilità. Jan
non medita né compie alcuna fuga, non precede il suo destino di «re con due
patrie», legate una alla sua infanzia (definibile come un luogo geografico),
l’altra al sesso che lo guida verso un «odio illuminato» di santo o eretico,
obbediente al Potere in virtù della profondità barbara ed irrazionale della
propria natura: «un campione, non un ribelle!», schierato col popolo che adora
i casti. Questa esaltazione di una serie di «eroi della riduzione», nati con la
piccola borghesia ed educati a non credere in nessuna religione, ha il suo
diretto antecedente proprio ne La Divina Mimesis, negli appunti e
frammenti relativi al settimo canto.(10) Seguendo la sua guida nell’universo
ultraterreno, il poeta giunge in un girone dove vengono puniti quelli che
peccarono contro la grandezza del mondo. Anche la descrizione fisica della vittima
esclusa, per sua natura, dal mondo borghese, corrisponde a quella che Pasolini
darà di Jan (e sarà speculare a quella degli angeli-sicari in Petrolio).
Risaltain prima voce il pallore che accomuna questi «cristi chesi trovano a un
tratto senza vita dopo non aver vissuto mai.»(11) L’inferno è dunque il luogo
dell’irrealtà e a questo emisfero non appartengono i poeti: testimoni di una
realtà tangente al sogno, adolescenti sfuggiti alla catena del tempo,
anticipatori di rivoluzioni sognate per desiderio di vendetta e ansia di
espressione. Essi vivono la propria diversa degenerazione solo attraverso quei
legami puerili con l’universo del potere che, paradossalmente, travalica la
loro sete di distruzione conferendo una forma, sia pure mostruosa e stravolta,
alle loro molteplici divinazioni del mondo.
I personaggi risentono tutti di questa dualità che riguarda
anche l’idea del tempo: su questo assioma teso tra il sacro e il procedere
della storia, ogni loro atto assume un valore simbolico che prescinde dall’idea
di sintesi. I dialoghi sono per questo affidati ad un ritmo discorsivo ciclico,
legato ad una serie di opposizioni insanabili: nelle tragedie la vita
quotidiana dei personaggi sprofonda in uno stato ossessivo vigile che sfocia
nel silenzio, nella rinuncia al dialogo (come in Calderón e in Pilade)
o al contrario conduce ad un gesto estremo, un omicidio (Affabulazione)
o un suicidio (Porcile, Orgia e Bestia da stile). I
fantasmi sono invece presenze assolutamente concrete, fari che vengono a
scoprire la malafede dei personaggi in un procedimento affine a quello scelto
in moltissime occasioni filmiche contemporanee al lavoro per il teatro.(12) In Affabulazione
l’ombra di Sofocle racconta al Padre la storia di Edipo: storia di un
giovane risolutore di enigmi che, divenuto padre a sua volta, perde, con la
gioventù, la percezione infantile del mistero. Pasolini «stravolge la
simbologia legata alla figura paterna»(13) trasformando il personaggio in
un’ombra votata alla disperazione, privata di ogni forma di autorità storica o
sociale in un progressivo allontanamento dal mondo e dalla propria generazione.
Resta la sostanziale impotenza del padre nei confronti di un giovane che
rifiuta l’esibizione di quel potere incantatorio dato dalla sua malcelata
vitalità. Nell’ultimo episodio Pasolini assegna al figlio una delle battute più
belle dell’intera tragedia, vicina per molti aspetti alle pagine più intense di
Petrolio: «Certo che lo diranno! E non solo / i vecchi borghesi, ma
anche i ragazzi / rivoluzionari. Appartengono tutti / a una stessa razza: la
razza che misura ciò che si fa / dalla sua utilità. [...] Io ho mentito: non
sono un Don Chisciotte, amore, / gli assomiglio soltanto un poco, / e,
purtroppo, la mia pazzia / non è che un po’ di spensieratezza. / Però so che
non c’è bisogno che le azioni / di vero amore o di vero odio servano a
qualcosa, / che non importa che il mondo che metti in imbarazzo / col tuo
troppo odio o il tuo troppo amore, / l’abbia vinta, infine, facendo di te il
suo buffone. / La vittoria è sempre di chi perde. / La vittoria non è mai
riconosciuta. / La vittoria è inutile».(14) Vedremo, paragonando la struttura
di questo testo a quella di Porcile e ad alcuni passi di Petrolio,
come la tematica dell’eterno ritorno dei padri alla condizione di figli sia
strettamente legata all’universo del potere e quali strategie di analisi
letteraria Pasolini svilupperà nell’ultimo scritto. In Porcile la forma
del Doppio ha un andamento binario, gioca sull’alterità/ identificazione dei
due ragazzi, che potrebbero essere la rappresentazione ideale della coppia
studentesca borghese e contestataria. Nella tragedia della teoria e del
dibattito sul teatro, quella che più di ogni altra discute motivazioni e
problematiche relative alla parola in scena ed allascelta degli attori,
Pasolini sdoppia il suo punto di vista
in due voci deputate ad autorappresentarsi. Lo scopo è già dichiarato in Bestia
da stile: ‘la funzione’ del doppio è principalmente quella «di riempire di
qualcosa / il nostro ‘poema del ritorno’: / qualcosa da opporre al silenzio / e
all’indistinto che, chi ritorna, ritrova [...] / Inoltre, tutto questo
‘qualcosa’ / che io son qui a proporti non dialetticamente, / altro non è che
una parentesi, un / ‘excursus’».(15)
La «follia prefatoria»(16) che domina per intero l’ultimo
romanzo è in questo senso un indice evidente del continuo ritornare di chi
scrive sulle proprie riflessioni: l’autoreferenzialità, che nel corpus tragico
agisce tramite dei personaggi (anche se si tratta di personaggi del tutto
dipendenti dalla struttura dei testi) viene in quest’ultimo caso ‘messa in
superficie’, resa sempre visibile agli occhi del lettore che diventa il terzo
referente nella forma di un romanzo in costruzione. La dissociazione è la
struttura portante sulla quale Pasolini costruisce il lungo monologo della
sorella di Jan nel settimo episodio: il suo personaggio è quello di un’ombra
destinata a riempire il vuoto lasciato nella sua natura originaria dalla
diversità manifestatasi in quella del fratello. Jan ed il suo doppio sono
presenze estranee al tacito prepararsi degli eventi, entrambe appartengono ad
un ‘tempo’ antecedente, uno stato di grazia che di fatto supera lo sdoppiamento
per ricostituirsi come un unicum, diabolico perché impopolare.(17)
Questa estraneità è ben evidenziata dal successivo dialogo tra il Capitale e la
Rivoluzione: le due ideologie si contendono il giovane Jan, come in Petrolio
l’angelo e il demone discutono sul possesso di Carlo inscenando una
commedia che si risolve con il loro allontanarsi, a braccetto, «come due vecchi
amici che condividono la vita».(18) Anche il finale in Bestia da stile può
essere considerato una sorta di commedia, un ‘poema del ritorno’ nel quale la
finzione letteraria lascia il posto a quell’altrove dove ancora si
conserva la memoria della poesia. L’Appendice al testo raccoglie sei
frammenti che formano una continuazione ‘ragionata’ della tragedia vera e
propria, quella legata al rito e all’idea del sacrificio di un ragazzo
sull’altare dell’utopia. Il tono torna qui ad essere sprezzante, stretto tra
l’invettiva contro i maestri universalmente riconosciuti ed il gesto – quel
genuflettersi davanti alla casa del poeta Holan – compiuto come atto finale di
un sarcastico congedo.(19) Sul ritmo del frammento l’autore lamenta «un profondo
e disperato rancore», l’umiliazione venuta dal non aver saputo tacere, dal non
aver speso le proprie passioni in una cerchia ristretta e partecipe di persone.
Novomeský è il personaggio che funge da alterego dell’autore, suo critico e
interlocutore; un Fortini chiamato a dire, nell’ultima buona occasione per fare
bilanci esistenziali, tutto ciò che è andato perduto nel fallimentare tentativo
di avvicinamento al mondo. Il coro preannuncia un gioco delle parti nel quale i
personaggi «si avvicendano a dire la stessa cosa»: Novomeský ha scelto la ragione
a fondamento alla propria poesia, «la realtà conosciuta attraverso il
socialismo», Jan ha istintivamente posto «il fondamento / della
letteratura fuori dalla letteratura ». Il riferimento è anche diretto a Brecht
(autore molto amato e spesso tradotto da Fortini) al suo autodefinirsi
«scrittore di drammi», padre di una rivoluzione teatrale che ha costituito un
punto di riferimento fondamentale nella cultura dell’Europa moderna.(20) A
questo modello letterario forte e al suo perdurare nella memoria storica
collettiva i due personaggi oppongono la loro debole difesa di un confine, la
coscienza dolorosa di una chiusura «che la lega / a un’esistenza ferma [...]
all’amore per un rozzo e delicato slovacco, preindustriale». Quella che Jan
chiama «realtà» è la più grande delle appendici poste a seguito di una
tragedia; l’uscita di scena di Novomeský ha i toni di un’ultima prova prima
dell’inizio. Il personaggio descrive il suo interlocutore, la posa scelta in
occasione di una separazione: «Tu, / sei seduto al tavolo imbandito, tutto
lino, / vetro e argento, / io in piedi davanti a te col cappello in mano».(21)
L’antagonista è un narratore la cui identità, come in questo caso, resta un
mistero. In Petrolio questa figura viene progressivamente delineata fino
a costituire il punto intorno al quale si svolgono le riflessioni ‘tecniche’
contenute nell’Appunto 99. Si tratta del capitolo intitolato L’Epoché: Storia
di mille e un personaggio, nel quale un narratore autodiegetico racconta
una parabola il cui personaggio principale è il Dio di Saulo.(22) Questa figura
è una sorta di monade dalla quale è scaturita la trama del romanzo: all’origine
del mondo (quando chi scrive è nato una seconda volta, risorto da un vecchio
universo ridotto in frantumi) stava il meraviglioso giardino dove il mistero
non era stato corrotto e rivelato da alcun tipo di identità da esso disgiunta.
Il problema principale del romanzo ‘a brulichio’ è la sua
leggibilità, la conservazione di un dualismo affine ad una struttura in forma
di mosaico(23) nella quale le singole parti non coincidono tra loro ma sempre
con il vissuto dell’autore. La ricerca dell’antagonista è già nella scelta del
nome del personaggio,(24) di una figura due volte abiurata e destituita: Carlo
è un uomo problematico, preso in uno stato schizoide che gli è naturale, egli è
disposto ad assecondare la propria ambiguità fino alle estreme conseguenze.
Nella traccia del romanzo che precede la lettera a Moravia, Pasolini delinea il
carattere del personaggio e del suo sosia a partire da una distinzione sociale:
Carlo è un uomo del potere, un borghese colto che si occupa i ricerche
petrolifere, Karl «è il suo servo, è addetto cioè ai bassi servizi». I
caratteri buoni dell’uno e cattivi dell’altro sono perfettamente
interscambiabili; la sessualità di entrambi subisce successive metamorfosi e
degradazioni fino al fatale ristabilirsi dell’ordine, al quale entrambe le metà
sfuggivano, che è l’ordine del potere. In questo universo, che affianca quello
del protagonista, sono rintracciabili almeno due figure di antagonisti e due di
servi-padroni, ritagliate su quella di Smerdjàkov (il servitore dei Fratelli
Karamazov). Il primo dei personaggi antagonisti è un grande capo
d’industria, il capostipite della dinastia dei Troya, un cinquantenne dal
sorriso «ammiccante» e «colpevole», di origini friulane, discendente di una
ricca famiglia latifondista; il suo ruolo di comando all’Eni si svolge
nell’ombra dei retroscena. Non si tratta dunque di un protagonista in carne ed
ossa(25) ma di un prototipo, la cui vita passata e presente resta avvolta in un
mistero assolutamente irrilevante per l’autore di un romanzo che guarda al
mondo della politica e dell’economia come a una sfera lontana dalla propria
esperienza pratica. Il secondo personaggio derivato per analogia è il
protagonista del primo dei racconti colti (tutti ambientati nel terzo mondo)
che avrebbero dovuto introdurre la seconda parte dell’opera: il narratore
ipotizza che si tratti di un anglosassone, critico cinematografico per un
grande quotidiano: «Biondo, adolescenziale, stupido, spiritoso. E dotato della
solita ‘mezza cultura’[...] sarebbe un inibito puritano, se la sua mezza
cultura lo volesse disinibito».(26) Tristam, questo il suo nome, parte alla
ricerca di uno schiavo: l’incontro della cultura occidentale con quella
africana povera e spirituale è, naturalmente, traumatico. Gli schiavi, sia i
maschi che le femmine, hanno verso il compratore un atteggiamento
innocentemente canzonatorio o, come nel caso degli adolescenti maschi, un
contegno dovuto allo stupore e al senso dell’obbedienza. La realizzazione del
sogno sadiano avviene, miracolosamente, con l’acquisto di una bambina; tuttavia
la natura corrotta e assolutamente superficiale del giornalista non gli
consente di entrare in relazione con il mondo magico che questa incarna. La
riduzione in schiavitù, del tutto priva di ogni forma di comunicazione tra i
due protagonisti, termina con la liberazione della schiava e con la percezione
da parte dell’uomo di un senso insopprimibile di fastidio e sconfitta.(27) A
Napoli, la vista di una ragazzina in tutto simile a quella da poco perduta, la
somiglianza straordinaria che la povertà assegna a uomini fisicamente
lontanissimi e distanti per cultura e stili di vita, convertirà il nostro al
marxismo. Egli, letteralmente, «cade in preda ad una visione» sull’erba
sporca dei giardinetti (come San Paolo sulla strada di Damasco) nella delusione
generale e manifestamente ironica degli ascoltatori della storia. A queste due figure
tratteggiate nella prima metà del romanzo corrisponde, nella sezione centrale,
una sorta di panoramica, di visione allargata sulla cena dei potenti che
l’autore delinea nell’Appunto 64 bis.
L’esperienza che il romanzo ripercorre è quella di una perdita;
la realtà non è più individuabile se non nella figura della sineciosi, forma
indefinita che ha i suoi soli margini nell’attualità, percepita da tutti, e nel
sogno individuale:(28) «Il presente diviene quindi il luogo delle apparizioni
delle immagini in negativo del passato, con cui si perpetua incessantemente
l’esperienza della perdita»(29). La forma aperta del metaromanzo e gli ‘appunti
dialoganti’, quelli che il narratore inserisce ad ogni crocevia giocando a fare
il punto della situazione, superano la forma diaristica voluta per l’ultima
raccolta poetica. La «poesia ordigno», di fatto, resta un’intenzione, una
volontà programmatica che forse solo in Petrolio trova la sua giusta
dimensione. Il sintomo dell’eterna ripetizione, e dunque della sublimazione di
un atto compiuto una volta soltanto, è saldamente ancorato all’idea che
l’autore ha del presente. Nelle tragedie, questo processo ritualizzante aveva
un ritmo diverso per ognuno dei sei testi: nella rappresentazione del doppio la
ripetizione è, prima di ogni altra cosa, legata al corpo, alla percezione di un
vuoto sotto lo strato superficiale delle cose che si rende evidente entrando in
relazione con un corpo socialmente diverso dal proprio. Il rituale del Pratone
della Casilina o la visione de La Ruota e il perno, sono solo due
dei numerosi appunti che potrebbero concorrere a formare una visuale
maggiormente estesa sull’idea, e sulle molteplici implicazioni, che questo
concetto di rito/ripetizione ha in Pasolini.
Il sogno di Pilade e la Visione del Merda: sezioni di personaggi
non finiti
Nel ventaglio di personaggi che Pasolini mette in opera nel suo
teatro, Pilade è probabilmente quello che più di ogni altro assolve al compito
di rappresentare ‘poeticamente’ la tensione dell’autore verso la rappresentazione
allegorica dell’attualità e dell’individuo – eroe sorpassato dagli eventi. Il
testo, sorretto da una lingua iper-letteraria profondamente legata al teatro
classico, è la raffigurazione mitica dell’inarrestabilità del potere e
dell’inevitabile solitudine che segna ogni forma di diversità. Il personaggio è
già dai primi versi identificato come un diverso,(30) ragione di scandalo che
mette in dubbio l’ordine costituito ritenuto ingiudicabile e dunque santo. La
diversità di Pilade è una misteriosa grazia che sopravvive, per un tempo breve,
alla nascita di un nuovo mondo, il soffio della volontà blasfema di un giovane
poeta-barbaro che non riconosce l’autorità di Atena, specchio della società
neocapitalistica contemporanea.(31) L’autoesclusione dal mondo della storia(32)
ha ancora alle sue spalle il fantasma di un «esercito sui monti»: la guerra
della resistenza partigiana viene rievocata nostalgicamente come un evento
miracoloso che il tempo ha già relegato nell’oblio di un passato lontanissimo.
Sottraendosi alla vocazione al perdono che il potere professa, Pilade esibisce
la propria abiura e si fa «eroe della sconfitta e della rinuncia », concetti
che percorrono con una certa continuitàtutto il teatro di Pasolini. Figura
specchio del protagonista è Elettra, sorella di Oreste e suo alter-ego che
incarna la ritualità e la coazione a ripetere, la stessa che, in forme
ogni volta diverse, l’autore assegna ai personaggi del suo teatro. Elettra è
una presenza tutta votata alla distruzione, compiuta nei suoi limiti e non
toccata dalle lacerazioni che minacciano Pilade facendone un eroe, poetico ed
autentico, della modernità. L’abiura del personaggio riflette, naturalmente,
quella dell’autore nei confronti dell’universo del sogno (e del proprio
percorso compiuto). Il fallimento di Pilade, la struttura stessa del dramma, si
avvicinano a quell’idea dell’opera infinita e incompiuta, di un’opera-monumento
che si condensa nel finale della tragedia, nella battuta che il protagonista
rivolge ad Atena: «Oreste, in nome tuo, ha abbattuto un monumento / e ne ha
eretto un altro: io stavo per fare lo stesso, / ma il mio monumento, per
fortuna, resterà incompiuto [...] Solamente l’idea di impadronirmi del potere /
(sia pure non per sé) / è la più colpevole delle colpe».(33) La tragedia segna
un passaggio definitivo nella produzione dell’autore e nella sua «ossessione pedagogica»:(34) il mito non è
più il riflesso dei mondi perduti – o lo specchio attraverso il quale si
rappresenta la società contemporanea –, non ha più una funzione conoscitiva, se
non sul piano puramente letterario, nel complesso orizzonte che concerne la costruzione di una forma.(35)
Porcile, Orgia e Bestia da stile sono già al di qua di
questa soglia oltre la quale non si discute più di teatro e la poesia mima se
stessa, adempiendo al compito di fornire dialoghi alle scene. La tensione è
altrove, nella volontà di rappresentare la propria rinuncia alla lotta (alla
poesia-manifesto) tramite una poesia che
giochi con le forme della tradizione. Le grandi aperture poetiche di Orgia sono,
in questo senso, sintomatiche di un lirismo ibrido, permeabile dal mondo
esterno, testimone di un universo nei confronti del quale non si può che
accettare la propria solitudine e l’estraneità al nuovo ordine. La tendenza
regressiva è ancora più evidente in Porcile, dove tutti i personaggi
costituiscono delle monadi aliene ad ogni rapporto umano: tutti sono, con
modalità differenti, sintomi certi del
vuoto che li circonda, la loro presenza sulla scena non provoca alcun
cambiamento e dal mondo esterno non viene, come in Teorema, Dioniso.
Ogni cosa è perfettamente asservita alla sfera opprimente del padre e dei suoi
interlocutori – l’alta borghesia industriale che sembra animarsi e fuoriuscire
dai quadri di Grosz.(36) Questa sottrazione dei margini ad ogni azione del
personaggio teatrale – condannato a vedersi replicato in ruoli sociali che
agitano lo spettro della sua prossima degradazione –, ha nell’ultimo scritto
un’espansione narrativa che sembra realizzare ciò che il teatro, per
l’inesperienza e la sostanziale diffidenza dell’autore, non ha potuto
raggiungere. «L’emergenza visionaria del sogno»(37) subisce in Petrolio una
sedimentazione per strati successivi che Pasolini aveva già provato ne La
Divina Mimesis: qui la frammentarietà è funzionale all’uso che l’autore fa
del tempo. Al tempo delle date, quello della storia, viene sovrapposto come un
grande velo il tempo della memoria, quello complesso e magmatico del pensiero,
delle intenzioni compiute come di quelle mai realizzate.(38)
Nella visione del Merda il tempo della storia compie un
movimento trasversale sugli atti che un
regista decide per i suoi personaggi; una lunga carrellata riprende la scena
che viene percepita come in sogno. Il lettore si trova al crocevia tra lo sguardo
dell’autore, quello di Carlo, che guarda la scena dal medesimo punto di vista
del primo, e la visione d’insieme che gli consente di osservare il tutto
nel passaggio dalla scena madre alle
sottoscene. La descrizione del personaggio è una sorta di referto, o di
campionario di tratti fisici, portato all’estremo per rendere l’idea di
un’orrenda maschera sulla quale è impresso un sorriso sprezzante e astioso. A
conferma di questa intenzione, che mira a descrivere una figura di reietto,
interviene il romanesco ‘resuscitato’ e messo in bella mostra come la rovina di
un tempo defunto.(39) La visione traspone infatti su due piani differenti la
propria forza espressiva: c’è un mondo esterno le cui coordinate sono segnate
da luoghi noti, il Colosseo o le strade della vecchia periferia romana, e un
universo privato esposto al grottesco, a un dolore confuso e inesprimibile che
assegna alla narrazione una prospettiva allucinata. Nell’intersezione dei due
piani visuali Pasolini tenta un raccordo tra le cose che appartengono alla
memoria e quelle che la storia vi ha sovrapposto: nel primo caso la luce
monocroma mette in risalto i colori, le
ncandescenze di tutto ciò che lo sguardo cattura. Nel secondo è la
realtà che «si mostra in tutta la sua sperduta, scolorita, antica |confusione|
[...] La gente vi cammina confusamente, vestita di grigio, quasi di stracci;
solo i giovinotti hanno magliette malandrine bianche o colorate a righe
vivaci».(40) Nella poesia la sordità del mondo è considerata al pari di una
patologia, non inibisce il verso, si ramifica in un’ostinazione di elenchi ed
epigrafi come quelli inseriti nei Poemi zoppicanti.(41) Nella sezione
riguardante la visione del Merda allo stesso modo Pasolini assegna ad ogni
appunto una diversa funzione: ognuno dei paragrafi svolge una tematica
attinente al mutamento sociale in atto. Gli antichi valori e il senso sacro e
gratuito della vita non sono stati sostituiti da valori nuovi, i colori dei
visi sono quelli della malattia, il pallore e l’assenza che esprimono gli occhi
li rende tutti uguali. La nevrosi riguarda anche il linguaggio, la ricca e viva
varietà dialettale dell’Italia centro-meridionale che il nuovo ordine ha
ridotto all’afasia. In questo quadro già ben definito dalle nuove spinte
economiche sono stati reclutati i nuovi sudditi, i consumatori perfetti, che
sono lo sfondo permanente della visione qui analizzata e in generale di tutto Petrolio
(con un gioco di primi piani, quando un personaggio è seguito nello
svolgimento di una sua esemplare vicenda o per visioni d’insieme).(42) Il
«Modello» della vecchia virilità dei giovani sottoproletari, quando ai poveri
si chiedeva di essere soldati, è sostituito da una nuova forma di virilità
ostentata dai giovani borghesi (delicatezza di abitudini, una certa timidezza e
riservatezza) insieme ad un nuovo militarismo che guarda ai soldati americani
ed alle SS.(43) I quattro appunti sono legati tra loro da un’affinità tematica
che riguarda i ‘mali’ sociali più evidenti: Vigliaccheria, Tolleranza, Amore
Libero e Mentalità moderna sono rappresentati da «Modelli» simili tra loro che
non esprimono alcuna novità morale. Le ragazze che fanno la loro comparsa nel tredicesimo paragrafo non sono
che le replicanti dei giovani fotografati poco prima, vestono i medesimi abiti,
ostentano atteggiamenti identici a quelli dei loro coetanei maschi. Manca però
in questo caso l’elemento della bruttezza e della ripugnanza mentre risulta
accentuata la devozione nei confronti del modello. Il percorso di Carlo è
scandito, nel procedere della strada e delle sue numerose biforcazioni, da due
distinti piani sovrapposti: alla doppia scena che si divide tra realtà e
visione viene sempre affiancata la figura del Merda che avanza, anchilosato da
una posizione forzata, abbracciato alla sua ragazza. La sua permanenza nel
campo visuale di Carlo e degli Dei che lo accompagnano è sclerotizzata in una
ristretta gamma di deduzioni sul suo avanzare incerto: ha un sorriso ironico e
furbo che nasconde il dolore fisico che certo lo tormenta, un portamento
imperturbabile e beffardo amplificato dalla sua bruttezza, uno sguardo
sprezzante di tutto con «una invincibile sfumatura di invidia, acredine, dolore
e |mendicità|».(44) Qualcosa di simile al flusso di coscienza guida il racconto
del narratore mentre, in superficie, viene attuata una sostanziale
mistificazione dei suoi procedimenti. Il personaggio, tagliato fuori dalla
storia, forte soltanto della propria memoria visiva, ripercorre i luoghi della
sua vita passata nei quali niente è più riconoscibile. Solo la città è la stessa,
immutata nelle sue architetture che sono ora punti di riferimento svuotati di
senso; una cornice geografica ricostruita con precisione all’interno dell’altra
che costituisce lo scheletro formale del romanzo.
Bestia da stile e Petrolio sono opere già postume, governate da una
ambiguità tramite la quale l’autore si autoespone alla propria fisicità, al suo
ruolo di performativo, cercando una forma assolutamente pre-espressiva di
comunicazione aliena al gioco della letteratura e concentrata sulla corporeità
del narratore e delle sue molteplici figure.
Il teatro in Orgia, Affabulazione e Petrolio:
l’archetipo della realtà e la metamorfosi delle strutture.
Nelle raccolte poetiche si possono distinguere, per grandi
linee, delle ‘forme persistenti’ di scrittura che rispondono in maniera
diversificata ad una volontà di comunicazione di impianto teatrale. Il son poetico
e la musicalità intensa del verso, nella produzione degli anni quaranta, sono
le componenti fondamentali di una poetica profondamente legata ai sensi ed alla
percezione fisica, corporale della vita. Colore, luce e corpi di un panorama,
quello casarsese, sono dominati da un gusto raffinato e ricercatissimo del
particolare, della precisione stilistica e metrica del verso che replica voci
umane. Il Friuli è la scena distesa e immobile nella quale fanno la loro
comparsa i fanciulli, testimoni di una sensualità primigenia tutta compresa in
un universo materno o matrilineare, non toccato dalla storia. Il nucleo di
questa raccolta è nell’armonico giro di parole che puntualizza per ognuno dei
componimenti il punto di vista e il tempo scelti dall’autore. La caratteristica
del tempo friulano è quella di essere un «timp perdùt» e autobiografico, un
tempo sostanzialmente fermo, vicino al ricordo, alla lontananza delle cose e
del loro mistero. La rappresentazione sacra dei testi casarsesi si svolge su
questo tempo franto, sparso intorno ai personaggi-figure reincarnati dal
giovane Narciso a quel mondo già estraneo. Il verso segna questa distanza e la
rende evidente, dissolve l’inganno dell’idillio con la presenza già perturbante
di un autore che è, allo stesso tempo, voce interna e usurpatore dell’universo
raffigurato.
Il sentore del tragico compare qui per la prima volta e sarà
trasposto in allegoria ne L’Usignolo della chiesa cattolica, l’opera che
disperderà definitivamente l’inquieto paradiso friulano. Nello stesso tempo,
l’uso della forma dialogica che Pasolini sperimenta in questa prima fase ed il
rapporto con un ipotetico lettore evolverà fino a quella forma ibrida, tesa tra
lo spasmo e lo stupore, dei suoi drammi per il Teatro. Nelle prime opere la
rappresentazione è dominata da una forte impronta visiva: i personaggi sono
prelevati dalla vita nei loro tratti essenziali e come dipinti su una tela. Nei
drammi degli anni sessanta saranno i fantasmi di uno stile, di una ‘meccanica
dei versi’ che guarda alla scena teatrale come ad una possibile via di fuga
attraverso un mondo ancora sostanzialmente inesplorato. Nella triade che
comprende Orgia, Affabulazione e Bestia da stile Pasolini
porta in superficie lo scheletro di un personaggio problematico, visto ogni
volta da una prospettiva differente, iperbolico e postumo, non coincidente con
la struttura poetica nella quale viene per un attimo imbrigliato. Il padre-ragazzo,
«l’eroe ridicolo» della tragedia, che uccide per impotenza e rimpianto il
proprio figlio, è il primo a sporgersi su quell’universo di rovine dal quale
prenderanno corpo il personaggio del suicida in Orgia e quello di Jan in
Bestia da stile. Sarà su questo piano residuale della storia che verrà
costruito il basamento dell’Epoché in Petrolio: un luogo
metafisico a partire dal quale la recita della propria vita diventa
ripetizione, ritorno ai riti sacri e primitivi dei quali si è persa la memoria.(45)
Il personaggio fuoriesce progressivamente dalla grande tradizione realista alla
quale Pasolini aveva guardato per i suoi romanzi precedenti, riprende a seguire
le orme lasciate da opere sperimentali sul filo dell’incompiutezza, come La
Divina Mimesis e Teorema. Opere intese come ipotesi di parabole, il
cui contenuto sociologico viene immesso sulla radice del desiderio erotico e
della ‘mutabilità’ del corpo, del suo perdurare sul mormorio del tempo che non
conosce il disamore per la vita. Quello di Carlo in Petrolio è un tempo
che sembra prenderlo alle spalle: tutto quello che accade appartiene
distintamente all’universo storico, diurno,analizzato con perizia da
antropologo, oppure è parte dell’universo erotico, notturno e mitico nato con
la scissione del personaggio. Nelle tragedie ritroviamo questo elemento
perturbante accanto alla presenza del doppio e all’attrazione erotica che sfuma
in un suicidio o in una misteriosa strage. Le figure dei borghesi (i due padri
di Teorema ed Affabulazione, il personaggio in Orgia),
private del loro potere, dell’ironia che le proteggeva dal ridicolo, sono come
abbagliate, costrette ad essere i torturatori o i torturati di un meccanismo
micidiale che esploderà nel Salò-Sade, allegoria funebre del desiderio e
dell’altra faccia della normalità. Il lungo monologo del secondo episodio in Affabulazione(46) segna proprio quel limite oltre
il quale lo sguardo del personaggio cambia rotta, viene proiettato fuori scena
e preannuncia la fine ineludibile della recita. In Orgia il prologo si
apre su una azione già compiuta, il corpo di un suicida «stranamente vestito»
ha già pronunciato le sue ultime parole: anche questa tragedia, come Petrolio,
non inizia e anche qui la colpa è nella diversità incompresa e relegata
all’anonimia. Il ritorno alla parola dopo la morte è un reminder dell’impotenza
che si è vissuta come accettazione della norma: ora la rappresentazione di uno
che si è perduto diventa quella di un carnefice. La vittima e il suo doppio
femminile abbandonano i loro rispettivi ruoli sociali per dare un corpo agli
impulsi sadici della vecchiaia e a quelli poetici, ma in vitro, della memoria
dei «paesi» e dei «gelsi». Personaggio e spettatore allo stesso tempo questa
figura bifronte subirà una sorta di espansione in Bestia da stile dove i
paesi della propria giovinezza, posseduti e persi, saranno il luogo adatto in
cui compiere il gesto di «scrivere versi», assumere la posa per intonare un
canto che si risolve nella più evidente afasia. Jan (come i personaggi di Orgia
e Affabulazione) è una figura non contenibile in un testo, quasi in
competizione con i versi: il suo desiderio legato alla forza innocente della
bellezza e dell’infanzia è anch’esso un luogo, ma un luogo profanato dalla
«decisione di essere poeta», crociato messo a guardia di na tana dove sono i
resti di un mondo familiare divenuto
ostile. Il personaggio attraversa questa lunga parabola che dal teatro ritorna
al romanzo passando per l’esperienza cinematografica; è una sorta di censore di
se stesso, continuamente in bilico tra la scrittura e l’azione, motore unico di
un processo creativo che tenta continuamente di superare i propri limiti
facendo leva proprio sulla struttura precaria e mutante del frammento,
dell’opera che si vuole monumentale ma incompiuta, non definita una volta per
tutte. «Ma attento! Non andare troppo avanti. Attento per esempio
all’unificazione in adham. / (Non metterti in testa / che gli uomini si
riuniscano tamquam / membra unius corporis. / Il corpo mistico ormai puzza di
marxismo) ».(47) Su tutto domina la tensione verso la vita nelle sue forme
taciute: il desiderio che muove il personaggio infrange programmaticamente il
codice senza però determinare ‘per eccesso di zelo’ un codice altro. Restare
sulla linea del fuoco, esporsi senza fare del martirio una norma, testimoniare,
in definitiva, di una realtà vivente, è un’operazione necessariamente
momentanea, retroattiva, non trasformabile nel vuoto di senso che deriva da una
trasgressione ripetibile all’infinito. È su questo nodo problematico che dileguano
le figure del teatro e riprendono un movimento analogo quelle di Petrolio –
lo sfondo, immobilizzato come in un fotogramma, è il medesimo, quasi un’assenza
di vita dove il personaggio assiste ad una recita: la rappresentazione delle
sue insuperate ambiguità e dissociazioni.
Il tema del corpo e della fisicità si contrappone alla
permeabilità dei personaggi-ombra, ai visi e corpi che l’autore non sa e non
può raffigurare limitandosi a proiettare le loro sagome in un altrove
onnipresente ma poco definibile. Il livello profondo della narrazione sfuma
nell’intermittenza di immagini appartenute all’universo lirico e familiare,
ricoperto da un voyeurismo messo in posa, disperso dall’oggettività del sogno.(48)
L’appunto intitolato La Ruota e il perno, visione non verbalizzata dal
sicario sulle orme di Carlo, è «contemporaneamente un’azione e la
contemplazione di essa».(49) Il suo corpo nudo, legato alla ruota, compie
cinque giri ed è in preda al secondo fenomeno di autoscopia, mentre un coro si
fa portavoce dei suoi pensieri e delle sue sensazioni annunciandogli la seconda
nascita. Tutta la scena sfugge alla memoria del sicario e il materiale raccolto
nel sogno resta in uno spazio fisico e sensoriale, sul filo di una coscienza
appena intorpidita. Quando inizia l’ultimo giro, la vista dei barbari e delle
loro metamorfosi è sostituita da una scena terrestre, un deserto nel suo sole,
dove alle presenze ultraterrene, ancestrali, si sostituiscono presenze umane.
«Sono fratelli e orfani, avvertiva il coro sommesso immemorabile sereno. Ciò
trafisse il cuore di Carlo di un dolore indicibile».(50) Nei due appunti
successivi una rivelazione ed un ritrovamento sembrano chiudere il cerchio
legato alla prima sezione del romanzo: il rapporto mai indagato con le persone
del suo stesso sesso (il padre, i modelli, i maschi non desiderati), la lunga
lista dei maestri che compare improvvisa nella luce accecante del sole sui
banchi del mercato di Porta Portese. Questo stato emergenziale e provvisorio
nel quale Pasolini proietta la sua opera, sostenuto da un’attenzione capillare
per la realtà ed i suoi esiti imprevisti, è il tentativo estremo ma
assolutamente umano e vitale di un avvicinamento al romanzo. Uscito dal
mutismo, da una sorta di stallo creativo, Petrolio, nella sua incompiutezza,
sembra la realizzazione fedele e paradossalmente compiuta di quello
sperimentalismo poetico che ora viene liberato dallo spazio ‘condizionante’ del
realismo e dall’esigenza del dialogo: a questi si sostituiscono una serie
infinita di luoghi metafisici e di indicazioni al mondo fuori del testo,
liberato anche dall’autore tramite la disseminazione della sua figura
all’interno dell’opera.
Non subendo la stessa sorte del teatro, entrato in un limbo
denso di ‘sospetti’, il romanzo sembra alla fine imbrigliare il sogno in una
rete di visioni allegoriche fino al ritorno, dopo un lungo viaggio a ritroso,
del personaggio a se stesso: «Spesso nei sogni di Carlo [...] compariva un
personaggio muto. Nel momento in cui Carlo si risvegliò, questo personaggio
cominciò improvvisamente a parlare (servendosi naturalmente della bocca di
Carlo). Parlò fittamente, senza sosta, come una cateratta che finalmente
potesse precipitare, [...] in una frenesia quasi afasica, [...] estremamente
allegra: infatti tutto quel che quel personaggio diceva attraverso Carlo, non
erano che ‘calembours’, giochi di parole, scherzi linguistici, neologismi,
finti lapsus, o amnesie».(51)
NOTE
(1) I due demoni
che presiedono alla scissione del protagonista «recitano una commedia», Carlo è
sul punto di «esplorare il teatro della sua esistenza», l’angoscia lo obbliga a
«recitare quella scena di solitudine » ecc. Le citazioni sono desunte da P. P.
Pasolini, Tutte le opere, a cura di W. Siti, Milano 1998 ss. Cit., Romanzi
e racconti, II, p. 1168 ss.
(2) Ivi,
pp. 1375-1377. (Si tratta dell’Appunto 43 di Petrolio intitolato Lampi
sul ‘Linkskommunismus’).
(3) Ivi,
p. 1374.
(4)
Cfr. Trasumanar e organizzar (Proposito di scrivere una poesia
intitolata ‘I primi sei canti del purgatorio’) in: Tutte le poesie,
II, Milano 2002, p. 64.
(5) Romanzi
e racconti, II, p. 1085.
(6) Ivi,
p. 1088.
(7) Ivi,
p. 1082.
(8) Teatro,
Milano 2001, p. 808.
(9)
La vecchia immagine del poeta adolescente in Friuli, la nuova del giovane
Palach arso a Praga. «Assumere sembianze e nome di un defunto corrisponde, poi,
ad un’altra ossessione dell’ultimo Pasolini, quella di ‘sdoppiarsi tra chi
muore per esprimersi e chi gli sopravvive per curare il lascito
testamentario.’» E. Liccioli, La scena della parola, Firenze 1997, p.
317.
(10)
«La riduzione di tutto è avvenuta in loro per una specie di difesa... Ah –
sospirò – non erano in grado di raccontarsi la grande affabulazione... di fare
gli Orlandi e i Donchisciotti – [...] e così, furono vas di riduzione [...] Le
masse, amico mio! Le masse; che hanno eletto a religione il non voler averne –
senza saperlo.» Romanzi e racconti II, p. 1112.
(11) Ivi,
p. 1097.
(12)
Si pensi al richiamo implicito del ruolo della Sfinge nell’Edipo re e a
quello esplicito, della voce fuori-campo, che parla a Medea ricordandole
la sua estraneità alla città di Corinto e al mondo nuovo che questa
rappresenta.
(13)
M. Fusillo, La Grecia secondo Pasolini: mito e cinema, Firenze 1996, pp.
103-125.
(14)
«La sincerità è pesante e volgare: / con essa è la vita che vince. / Deve
vincere, invece, la giovinezza, / costruttrice di sistemi mistificatori / e di
effrazioni insolenti e graziose – e pazienti: / perché pazienti sono i giovani,
non i vecchi». Trasumanar e organizzar (Propositi di leggerezza),
in: Tutte le poesie, II, p. 68.
(15) Teatro,
pp. 817-818.
(16)
Cfr. W. Siti, Descrivere, narrare, esporsi, in: Romanzi e racconti,
I, pp. XCVI-CXLII, cit. p. CXXXIX.
(17)
«Stabilita una profonda equivalenza tra Erinni e Sesso, / è chiaro che tutto
ciò ch’era superato / dalla Dissociazione, ritorna. Lo Sdoppiato ritorna
umilmente Unico. [...] Il cuore diabolico sa / che bisogna essere impopolari:
qualcosa / cioè di peggio che deludere ! / Bisogna dire verità impossibili (ma
verità), / giocare con l’Antipatia come prima / si era giocato con la Simpatia,
preparare / con sorda ironia l’ultimo Rifiuto». Teatro, p. 822 ss.
(18) Romanzi
e racconti, II, p. 1174
(19)
«Tuttavia il tuo ‘gesto’ / è quello che conta. Anche tu, / come il nazista
Gottfried Benn, sei un poeta / da teatro. E vuoi recitare fino alla fine. /
Fare il gesto di scrivere poesia anziché scrivere poesia: / quanta forza
d’animo è necessaria, quanta / durezza! Del resto / portare a termine / il
proprio ruolo è pertinenza dei santi, che / sono, appunto, spietati». Teatro,
p. 835 ss.
(20)
«Brecht spinge fino in fondo la sua conclusione ideologica. In lui l’ambiguità
è soltanto provvisoria, non rientra nel campo dell’esistenza, si risolve spesso
nella storia». Saggi sulla politica e sulla società, Milano 1999, p.
1524.
(21) Teatro,
p. 805.
(22)
«Tutto ciò che io vi riferirò, non è apparso nel teatro del mondo ma nel teatro
della mia testa, non si è svolto nello spazio della realtà ma nello spazio
della mia immaginazione, non si è, infine, concluso secondo le regole
contraddittorie del gioco dell’esistenza, ma si è concluso secondo le regole
contraddittorie del gioco della mia ragione». Romanzi e racconti, II, p.
1671.
(23)
Cfr. Petrolio, Appunto 4, dove l’autore spiega la sua scelta e discute,
proprio in quello che doveva presumibilmente essere il primo capitolo,
l’assioma ordine / disordine che tanta parte avrà nell’opera. «Quella che un
tempo era la ‘nevrosi personale’ è totalmente ribaltata verso l’esterno, alla
malinconia s’è sostituita l’aggressività; ‘Paolo’ era per eccellenza il nome
dell’autoanalisi, ‘Carlo’ è invece il nome del padre morto, il nome
dell’inutile maturità, della ‘trasmissione di valori’ necrotizzata e
derisoria». W. Siti, op. cit., p. CXXXVIII
(24)
«Che cosa opporre a quel vivente disordine? Se quella folla – misteriosa e
piena della dignità umana, è vero, ma tuttavia instabile, vuota matta – era la
protagonista, qual’era l’antagonista? Era semplice. L’antagonista ero io [...]
In conclusione anche di me io ho operato una scissione, un dualismo. Lo stesso
che avevo operato nel Dio di Saulo». Romanzi e racconti, II, p. 1671.
(25)
«Egli non avanzava, accumulava. Non saliva, si espandeva.» Ivi, p. 1276.
(26) Ivi,
p. 1348.
(27)
La piccola schiava è del tutto indifferente alla schiavitù come alla libertà,
la sua presenza è quella, tangibile, della diversità che non viene compresa né
accettata dall’uomo occidentale. Agli occhi del personaggio la bambina è un
enigma «non posto oltre che non risolto». Ivi, p. 1363.
(28)
«Ciò che mi accingo a raccontare riguarda il presente. Si tratta di un racconto
leggerino e un po’ sciocco, questo sì. Ma il nostro narrare, qui, o è
pazzerello o non è. Inoltre altro io non potrei essere, per mia natura, che
manieristico. Dunque il mio racconto si fonda su un’esperienza fatta in sogno.»
Ivi, p. 1702.
(29)
G. Santato, Pier Paolo Pasolini, L’Opera, Vicenza 1980, p. 296.
(30)
«È lui la Diversità fatta carne, // [...] La Diversità, appunto. Ma la vera
Diversità / quella che noi non comprendiamo, / come una natura non comprende
un’altra natura. / Una diversità che dà scandalo». Teatro, pp. 383 ss.
(31)
Dell’entusiasmo per il primo tribunale umano, istituito da Atena, che Pasolini
aveva dimostrato nella sua traduzione dell’Orestea, sul finire degli
anni cinquanta, resta un solo verso affidato ad Oreste: «Ah fortunati i miei
occhi e il mio cuore / testimoni di quel primo tribunale umano!». Ivi,
p. 366. «Il dramma Pilade [...] è ancor più mitopoiesi: non rielabora
nessun dato preesistente [...] ma inventa ex nihilo una continuazione dei fatti
narrati nell’Orestea. [...] in questo caso il principio guida non è
l’imitazione, né la ‘correzione’ del modello, ma solo il dialogo ideologico con
un testo lontano e ormai archetipo, utilizzato come una griglia da riempire con
materiali tutti contemporanei ». M. Fusillo, La Grecia secondo Pasolini,
p. 214.
(32)
«Cosa lo attraeva / tra i poveri della città, l’immensa folla / dei diseredati?
/ La loro innocenza? / Su cui misurare, presuntuosamente, la sua?» Teatro,
p. 322.
(33) Ivi,
p. 458.
(34)
Cfr. E. Golino, Pasolini: il sogno di una cosa, Bologna 19922.
(35)
Il mito adempie, in un certo senso, alla messa in opera di tutta quella parte
onirica e apparentemente irrazionale che segue l’orrore di Edipo, il suo
«desiderio regressivo di non sapere» e la sua sostanziale «non integrazione
nella collettività». Cfr. M. Fusillo, La Grecia secondo Pasolini, pp. 78-83.
(36)
«Tu dirai che è una mania. Ma io insisto: / Grosz Paolo Pasolini, non è morto.
Ti prego, / osserva / la bocca della signora Mann [...] La signora Mann e la
signora / Pabst, vivono nella propria natura. Mangiano i bignè / [...] come le
scimmie le noci / nello zoo (Grosz, appunto) ». Teatro, p. 628.
(37)
Cfr. G. Santato, op. cit., p. 240.
(38)
Cfr. W. Siti, Tracce scritte di un’opera vivente, in: Romanzi e
racconti I, pp. XI-XCII, cit. p. LXXXIV.
(39)
«La testa del Merda è di forma triangolare: larga sopra (una volta i suoi amici
gli avrebbero detto: «Pe’ facce un giro attorno, un pidocchio ce metterebbe
n’anno»: ma ora non si usano più espressioni simili)... È questo un fossile
espressivo di tempi passati, che ora però ha altri valori e altri riferimenti».
Ivi, p.1560. Cfr. W. Siti, Descrivere, narrare, esporsi, p.
CXXXVIII: «La frase in romanesco non è solo un esempio della verve dialettale
degli anni ’50, è una precisa autocitazione da Ragazzi di vita –
l’antico romanzo non è che un fossile, ‘i Riccetti si sono fatti fare il
tiraggio’; e fossilizzata nella parodia è anche l’antica passione per gli
ossimori.»
(40) Romanzi
e racconti, II, p. 1563.
(41) Tutte
le poesie II, pp. 123-154.
(42)
Si pensi alle numerose descrizioni di feste e salotti, ai cenacoli di
intellettuali dai quali iniziano, per il simulato piacere del raccontare, le
varie storie.
(43)
«Infatti da chi era formata la ‘truppa’ delle SS? Evidentemente da giovani del
popolo che l’industrializzazione aveva appena borghesizzato, come questi». Romanzi
e racconti II, p. 1586. Cfr. anche Saggi sulla politica e sulla società,
pp. 511-517.
(44) Romanzi
e racconti, II, p. 1560.
(45)
«Il racconto è nel recinto sacro. E l’approccio a tale recinto richiede sempre
un lungo cerimoniale, abbastanza coatto. E anche buffo. I selvaggi ironizzano,
con molto spirito, il loro avvicinarsi rigidamente regolamentato al luogo dove
si trova lo Spirito. Fanno delle piccole pagliacciate, dei gesti scioccherelli.
E così anch’io». Romanzi e racconti, II, p. 1692.
(46)
«Lo sai che da un po’ di tempo / faccio dei monologhi?» confida l’uomo a sua
moglie subito prima di pronunciare il suo Padre nostro che chiude l’episodio:
«Quanta inutile buona educazione! / Non sono mai stato maleducato una volta
nella mia vita. / Avevo il tratto staccato dalle cose, e sapevo tacere. / Per
difendermi, dopo l’ironia, avevo il silenzio. [...] Ero protetto dal mio
possedere e dall’esperienza / del possedere, che mi rendeva, appunto, /
ironico, silenzioso e infine inattaccabile come mio padre». Teatro, pp.
492 ss.
(47) Ivi,
p. 849.
(48)
«La ricerca della soddisfazione esibizionistica [...] non impediva a Carlo di
osservare il mondo intorno [...] questo contorno era oggettivo. Faceva parte
del suo sogno, ma faceva parte anche della realtà. E non della realtà severa e
orrenda come gli appariva nei momenti di sconforto in cui Dio, la morale, la
normalità parevano avere ragione, dissipando il velo delle illusioni: ma di una
realtà naturale, quella vista per esempio dagli occhi allegri e acuti di uno
scrittore realistico ». Romanzi e racconti, II, p. 1236 ss.
(49) Ivi,
p. 1252
(50) Ivi,
p. 1257
(51) Ivi,
p. 1811.