POESIA TEDESCA

a cura di Paolo Scotini

 

 

MARCEL BEYER, Erdkunde, Köln, DuMont 2002, pp. 116, 16,90.

 

Noto ai lettori italiani per il romanzo del 1995 Flughunde (Pipistrelli, Einaudi 1997), complesso intreccio di fiction, saggistica e fonti documentarie che scandaglia il dodicennio nazista e i suoi echi attuali, Marcel Beyer (nato nel 1965) rappresenta tuttavia anche una delle voci più importanti nel panorama della giovane poesia tedesca. Fin dai primi esperimenti poetici quello di Beyer si rivela infatti un linguaggio originale, incentrato sulla decostruzione morfosintattica e sul montaggio citazionale nonché su una forte componente ritmico-musicale. Già con la raccolta del 1997 Falsches Futter (Cibo sbagliato), peraltro, il sound beyeriano giungeva a caricarsi di una complessa dimensione semantica, segnando un nuovo, interessante approccio al tema della memoria storica. Lungo la linea di una tradizione ermetica che guarda soprattutto a Celan, l’operazione di Falsches Futter si incentrava infatti sull’auscultazione del «silenzio eloquente » del passato tedesco, le cui tracce si lasciavano ritrovare in paesaggi periferici, sotterranei, oppure in objets trouvés, frammenti insignificanti come una scatola di cera da scarpe: un procedimento di raccoltae di ristratificazione semantica inteso a far saltare una vulgata storica indurita e cristallizzata.

L’approccio beyeriano al passato è riassunto nei versi di Trockenfisch, poesia che compare all’interno dell’ultima raccolta di Beyer, pubblicata nel 2002 con il titolo programmatico di Erdkunde (Geografia), termine un po’ polveroso rispetto al più moderno Geographie, ma che rimanda a una prassi disciplinare sentita quasi humboldtianamente come «occhio della storia». Il poeta muove adesso alla volta di un viaggio da ovest verso est oltre i confini spazio-temporali del proprio paese: dalla Repubblica Ceca alle pianure dei paesi baltici fino a Kaliningrad e San Pietroburgo. Lungo sei sezioni poetiche disposte a suggerire le singole carte di un atlante i luoghi stranieri si vengono a configurare in termini di colori e di odori: «Die Luft hat keinen Beigeschmack, kein Brennstoff / in den alten Kosmonautenstädten, nichts / zu saugen. Staub Sterne, Kohlgeruch sein einer // Ewigkeit verflogen, [...]» (Fort). Ma la geografia beyeriana è e resta in primo luogo archeologia della memoria: alle sollecitazioni del presente si sovrappongono esperienze personali, reminiscenze storico-culturali («Tallinn mit dem Geruch nach Holz / in der Erinnerung, Vernäht, geklemmt, / verdammte Füße, wenn ich – Taxistelle – / vor der Puschkinvilla stehe» Stiche) e fantasmi di un passato recente di cui resta ovunque soltanto polvere (Staub).Non a caso fin nella prima sezione, dedicata  alla Boemia, nel ciclo di poesieche dà il  nome alla raccolta, l’esploratore esperisce un processo di ‘ossificazione’ – «Ossizierung », come suona il neologismo beyeriano – proprio di un paesaggio «poroso», che ha paura perfino di sfiorare («[...] in Teplitz, in Teplice oder in Tepl, / ich berührte nichts, alles // fürchtete ich, würde zerbröckeln, / so wie der Name, porös [...]»). E porosi in quanto benjaminianamente osmotici, punti di passaggio tra passato e presente, sono gli scenari urbani del postcomunismo (Funky Sabbath), o gli pneumatici abbandonati ai lati delle autostrade (Fünf Zeilen).

Dopo il naufragio della storia, l’unico terreno solido su cui il geografo può poggiare i propri passi sono appunto gli oggetti nella loro realtà fenomenica («Die Sprachen sind mir fremd, als würde / ich Pantoffeln tragen: aber ich // bin da. Kunstfaser, Pelzbesatz und / Einlegsohlen: alle Dinge sind mir nah.» Narva, taghell). Di qui il procedimento di accumulazione e stratificazione nominale, il complesso lavoro sul lessico proprio di queste poesie (si vedano i montaggi e i neologismi di Bienenwinter), che rischiano qualche volta di ridursi a catalogo di materiale linguistico seppur di ottima fattura. In un contesto dominato da strutture ellittiche e da costrutti ostici, il «collante» dei versi beyeriani (il Kitt che dà il titolo a una poesia) è di nuovo quella musicalità data da un peculiare intreccio di elementi colti (lo sfruttamento di differenti metri o il sapiente uso dell’enjambement) e sonorità apparentemente ‘facili’ come le rime della nenia infantile, a cui si aggiungono i numerosi rimandi interni o addirittura tra questa e le raccolte precedenti: costanti di un programma poetico che fa leva sull’interpretazione come suo momento costitutivo.

 

[Monica Lumachi]

 

 

 

 

UWE KOLBE, Die Farben des Wassers, Frankfurt am Main, Suhrkamp Verlag 2001, pp. 80, € 14,80.

 

Con la sua ultima raccolta di poesie, Die Farben des Wassers, Uwe Kolbe, nato nel 1957 a Berlino Est, ritorna a quello che dei quattro elementi gli è più familiare. L’acqua, legata al mestiere del padre, navigatore fluviale di un paesaggio orientale scomparso  a presente come incancellabile palinsesto di ogni verso, è ora sicura dimora tra i canali che solcano Tubinga e i suoi verdi dintorni, dove Kolbe attualmente vive. Tra alberi e ruscelli i versi, ora in ritmi liberi, ora oculatamente cadenzati in esametri o in pentametri, riproducono le sensazioni di un ritrovato presente siglato con il luogo e il giorno della scrittura, quasi a tenere un diario lirico e costruire lo sfondo di un’esistenza finalmente approdata a una sicura sponda, tra le colline sveve. «Ma io cerco, arrogante chimera, / un paese non tedesco (perciò non diviso) / equidistante dalla Daimler-nazione e dalla Prussia», scriveva nel 1988, e a più di un decennio di distanza Kolbe si riconcilia con il suo paesaggio perché, e solo per questo, accolse e ispirò Mörike e Hölderlin. Come di consueto Kolbe è poeta che legge poesie, che traduce le suggestioni dei suoi autori più amati nei suoi versi. Se nella Berlino della ‘Prenzlauer-Berg-Connection’ gli espressionisti gli avevano impresso a fuoco le immagini della metropoli, ora sono i poetiromantici della natura i numi tutelari della  sua lirica, poeti che sono voci di un paesaggio, melodia di un’esperienza localizzata qui e non altrove, genius loci. Forse per questo la raccolta si apre con il tentativo di archiviazione di un luogo ormai remoto, la Vineta dell’omonimo volume (1998), lo scenario orientale inabissatosi lasciando un «tempo che non guarisce» (Für Clemens Eich). Diario lirico, si diceva, idillio di ponti e sentieri ombreggiati, se non fosse che ognuna delle poesie si diparte da quella ferita sempre aperta nel tempo, se non fosse che il bambino ne ha viste troppe (Beim Zeitungslesen) e che Don Chisciotte, sceso da cavallo, si vergogna e non sa più chi è (Zu wissen). Un io lirico sempre alle prese, suo malgrado, col «prima», «mai con il poi» (Womit ich befaßt bin), condannato a ritornare sempre sui luoghi colpevoli di un’infanzia passata a giocare all’ombra di betulle che nascondono fosse comuni, di colline che recano muta la memoria di Miklós Radnóti, poeta ungherese ucciso dai nazisti (Ich habe es wie immer gemacht). Paesaggiodi betulle sempre novemberkahl, sempre spoglie come a  novembre: questa, in fondo, la Germania di Kolbe tra le crepe del  paesaggio svevo, non diversa, in questa assonanza novembrina che per la storia del novecento tedesco ha una connotazione tragica, dal fatale Novemberland di Günther Grass. Laddove la storia riaffiora e rimuove il verde e le acque sveve, il linguaggio si disincanta, abbandona nuances e discrete citazioni ottocentesche, e si fa nuda cronaca quando non è addirittura orrida pellicola di un inferno dantesco rivisitato che ospita la vendetta di un io lirico intento a infliggere la pena atroce di Ugolino a chi, avendo orecchie per intendere, intenderà (Der schöne Dezember 2000. Frei nach Dante).

C’è da chiedersi se Kolbe, che fin dall’esordio nel 1976 su «Sinn und Form» scrive perchéin credito con la storia, sia  riuscito a recuperare tutto ciò che gli funegato,  come prometteva a se stesso in una poesia di Vineta (Was habe ich nachzuholen). La sua risposta migliore è il «ma» hölderliniano, «che era più patria di questo pianeta, forse» («das mehr Heimat war als dieser Planet, vielleicht»; Der Glückliche) e che è, in fondo, la patria del sommacco orientale, albero che, nell’immagine più bella della raccolta, cresce dal nulla tra i binari della stazione Schönhauser Allee: un «quasi albero», esposto senza tregua, di minuto in minuto, ai due venti dei treni che viaggiano in direzioni opposte, sempre scosso ora da un lato, ora dall’altro, sempre impegnato a resistere da qualsiasi parte soffi il vento: «e ci voleva tutta la sua forza per trattenere le foglie, e null’altro» («und es alle Kraft galt, die Blätter zu halten, sonst gar nichts»; Der Essigbaum).

 

[Stefania Sbarra]  

 

 

 

 

BRIGITTE OLESCHINSKI, Reizstrom in Aspik. Wie Gedichte denken. Ein Poetik-Projekt mit Urs Engeler, Köln, DuMont Verlag 2002, pp. 131, € 16,90.

 

La poesia è il prodotto di stratificazioni successive: il primo strato è dato dalla superficie ritmica, una componente eminentemente fisica, su cui si adagia il secondo strato, rappresentato dalla melodia, intesa nella duplice componente di armonie e dissonanze. L’ultimo strato, il terzo, ha invece natura visiva: l’evidenza intellettuale si sintetizza in immagini e coaguli di significato. Così descrive Brigitte Oleschinski (nata a Colonia nel 1955) il farsi delle sue liriche nella raccolta di scritti poetologici Reizstrom in Aspik, che ospita le riflessioni della poetessa e storica, già pubblicate in rivista nel corso degli anni Novanta e radunate qui in una summa che rende conto del suo percorso artistico. A parte le interviste-dialogo con la poetessa Elke Erb, suddivise in due sezioni, che punteggiano la raccolta come «diodi a intermittenza», gli altri contributi si pongono come una poetica in forma di narrazione, in cui la riflessione sulla propria officina si confonde, in un intrecciarsi di piani, con ricordi e vissuto autobiografico, senza tuttavia mai abbandonarsi al memorare intimistico, ad un solipsistico ripiegamento su se stessa. Piuttosto, la vena autobiografica si fa appiglio, in una trama di rimandi continui alla realtà politico-sociale extra-soggettiva, per una prospettiva di forte impegno sociale e professionale (si vedano le pagine del saggio Silvesterpolen, dedicate alla riflessione sulle sue ricerche negli archivi dei Lager polacchi). È dalla percezione costante del reale, infatti, che scaturisce per Oleschinski l’impulso a poetare, a elaborare quel Reizstrom, flusso continuo di impulsi, che colpisce senza sosta il corpo e la mente dell’Io lirico. Arpa eolica in ascolto, esso assorbe e rifrange i suoni e gli stimoli della realtà cosale, interpersonale e storica, ricodificandoli con segni linguistici idiosincratici: «ma ‘vedere’ non è la parola giusta: io non volevo propriamente ‘guardare’ ma lasciarmi andare, in una percezione sfocata, senza direzione, durante la quale gli impulsi  urtano contro il corpo, non ancora Io».

Nel contempo, il Mental Heat Control (titolo del primo saggio oltre che della prima raccolta di poesie, uscita presso l’editore Rowolht nel 1990) è sorta di motto per l’io disincantato a non partecipare in prima persona all’atto del dictare. Al ritrarsi del soggetto corrisponde la frammentazione della lingua poetica, una scelta stilistica quasi obbligata, che permette di sottrarre il materiale linguistico all’usura e all’irrigidimento stereotipico: così grammatica e sintassi diventano, in Oleschinski come in molta parte della poesia tedesca contemporanea, moncone, scheletro sconnesso, ricomponibile tramite nessi e associazioni, traccia di una fiducia ancora  presente nella connessione tra pensiero e realtà. E tuttavia la produzionelirica di Oleschinski non è ermetica, la  stratificazione semantica che dà sostanza ai suoi versi è penetrabile, si apre alla ricezione: la poesia, leggiamo nel saggio Baustellen, Vespen, Abendgeruch, si fa forma attraverso la lingua, in particolare nella sua componente culturale e interazionale. Il testo poetico, coacervo di parole che accostate evocano significati inattesi e diversi a seconda del lettore, rivela la sua natura ‘sociale’, senza con ciò diventare didascalica o pedante. Piuttosto, la scrittura, intesa come impegno sociale, come lavoro di rendicontazione del reale, fa emergere le dissonanze, si pone come stonatura, evidenziando le aporie della società del benessere; la lingua della poesia riproduce per mimesi queste dissonanze, riducendosi a frantume, a suono isolato che indica la presenza di una flebile voce critica, simile alla sabbia del celebre verso di Günter Eich, che così ammoniva i suoi lettori di trent’anni fa: «seid Sand, nicht das Öl / im Getriebe der Welt».

 

[Marcella Costa]

 

 

 

 

ANDRÉ DU BOUCHET, Bruchstücke vom Berg für die Landstraße verwendet, traduzione dal francese di Sander Ort, postfazione di Michael Jakob, München, Lyrik Kabinett 2002, pp. 231, € 24,00.

 

 Un volume azzurro con in copertina un ritratto dell’autore di Alberto Giacometti e un titolo che riassume embleticamente il senso dell’opera: «Frammenti di monte utilizzati per la strada provinciale». L’edizione tedesca di un’antologia delle opere di André Du Bouchet – dal primo volume Air del 1953 a Axiales del 1996 – a cura del traduttore Sander Ort e dello  tesso poeta scomparso nel 2001, rappresenta per più di un motivo un evento di particolare importanza, e non solo per l’intrinseca qualità letteraria di un’opera nodale degli ultimi cinquanta anni. La pubblicazione del volume a cura del Lyrik Kabinett di Monaco – con una postfazione di Michael Jakob – assume infatti valenze peculiari proprio se osservata in relazione agli sviluppi della lirica tedesca, in primo luogo per lo stretto rapporto che lega André Du Bouchet  a Paul Celan, rapporto personale e letterario intensificato dalla traduzione ‘reciproca’. Nel 1968 Celan entra a far parte del comitato di redazione della rivista «L’Ephémère», fondata da Du Bouchet assieme a Yves Bonnefoy e Jacques Dupin, e nello stesso anno esce da Suhrkamp la traduzione di Celan del secondo volume del poeta Dans la chaleur vacante (1961) con il titolo Vakante Glut, unica opera di Du Bouchet edita in lingua tedesca prima della presente antologia. Nel 1971 è quindi Du Bouchet a pubblicare poesie di Celan in traduzione francese con il volume Strette. Senza ritornare in questa sede su analisi e valutazioni di queste traduzioni (ricordiamo tra l’altro che le versioni dei lavori di Celan da parte di Du Bouchet sono state a suo tempo oggetto di alcune critiche) è comunque evidente che esse segnalano un legame profondo e uno scambio attivo che ha lasciato significative tracce.

Oltre a riscontrare coincidenze nella concezione stessa dell’operare poetico e del valore da attribuire alla poesia (non a caso il primo numero de «L’Ephémère» si apriva con Il meridiano di Celan) ci interessa rilevare qui la ricorrenza in entrambi i poeti di alcuni elementi chiave, di cose o oggetti – in particolare del paesaggio  – che si pongono come concreti punti di riferimento in un rapporto di tensione poesia-realtà (e storia, in Celan).

L’intera opera di Du Bouchet espone e indaga questa tensione: sulla pagina emergono, interrotti da grandi vuoti bianchi, gli elementi del paesaggio di cui si diceva –  monti e ghiacciai, neve, strada, sole, aria, temporali ecc. –, registrati da un poetaviandante a formare topografie, a delimitare spazi. I puntini di sospensione che spesso introducono i versi sembrano indicare la precarietà di questa ricostruzione topografica, al pari dei vuoti bianchi (o silenzi) che invadono le pagine, ma non è certo un tradizionale ‘ritorno alla natura’ che Du Bouchet propone, come sottolinea Michael Jakob – esegeta e amico dello stesso Du Bouchet, nonché acuto interprete celaniano – nella postfazione. «Auch was hier Natur ist», continua Jakob, «bleibt stets herzustellen, ergibt sich im Zusammenhang von Zeichen»: la tensione tra poesia e realtà di cui dicevamo assume così un carattere costruttivo che si sviluppa nel momento stesso della lettura, ovvero – trasposto sul piano dell’autore – della ‘passeggiata’.

Ed è in questa attenzione ad una costruzione e definizione spaziale – che si dà però come processo, come azione – che si affida a pochi e basilari elementi del paesaggio, che André Du Bouchet viene a incontrare una delle linee più forti della nuova poesia di lingua tedesca – pensiamo in particolare ai lavori di Michael Donhauser e Peter Waterhouse -, una linea nella quale sono già stati inseriti, in qualità di maestri, lo stesso Celan e Andrea Zanzotto. In questo contesto l’uscita  del volume di Du Bouchet permette di aprire – o forse riaprire – un dialogo, di sviluppare un’ulteriore ottica del discorso, riconducendo al contempo il discorso stesso a quelle fondamenta che appaiono oggi tra le più stabili della poesia contemporanea.

 

[Paolo Scotini]

 

 

 

 

RIVISTE

 

 

AKZENTE, Zeitschrift für Literatur, herausgegeben von Michael Krüger, Heft 1/Februar 2003; Heft 2/April 2003; € 7,90; Carl Hanser Verlag, Postfach 860420, D-81631 München.

 

Il cinquantesimo anno di vita della rivista «Akzente» – che ha accompagnato in questi cinquanta anni i passi decisivi della letteratura tedesca moderna – si apre con un notevole numero monografico dedicato a W. G. Sebald, scomparso nel dicembre 2001. Saggi sulle sue opere e ricordi personali, un’intervista inedita e un testo dal lascito (Campo Santo) tracciano un ricordo dell’autore degli Anelli di Saturno e di Austerliz. Assenti in questo volume sono eventuali interventi relativi alla sua produzione poetica, anche se «Akzente» aveva già pubblicato nel 2001 una scelta di poesie dello stesso Sebald.

La poesia ritorna invece ad essere al centro del secondo numero del 2003, in particolare con la presentazione di un’antologia di lavori di Hans Faverey, autore olandese morto nel 1990, e della poetessa Jorie Graham, una delle voci più note e significative della nuova poesia americana, qui tradotta e letta da due diversi interpreti.

 

[Paolo Scotini]

 

 

 

 

ARTIC, Texte aus der fröhlichen Wissenschaft, Nr. 8, Herbst 2001, heilig, € 12,00; Am Heedbrink 17, D-44263 Dortmund.

 

La focalizzazione monografica che segna anche graficamente i numeri della rivista «Artic» riguarda nel volume 8 l’aggettivo heilig, «sacro». L’approccio è al solito – come indicano gli aforismi ’apertura – quello  di un brain storming multitestuale e multivisuale che intende sottrarsi in maniera ludica e curiosa a qualsiasi impostazione fondante o comunque organica. Tale programma non è privo di una certa maniera tutta contemporanea (e che coinvolge anche l’‘accademia’), ma la particolare qualità dei singoli interventi grafici o letterari fa della rivista una delle proposte più interessanti e stimolanti degli ultimi anni. Lo spazio dedicato alla poesia ospita – in versi bianchi su fondo oro – lavori di Marcel Beyer confluiti poi nel volume Erdkunde (si veda la recensione in questa stessa sezione) e di Norbert Hummelt, amici e partner performativo-letterari nella Colonia degli anni ’90. I brevi componimenti, che ribadiscono l’interesse formale delle ultime prove dei due autori, colpiscono nel contesto di un numero dedicato al sacro per l’attenzione e l’insistenza su realtà minime ma soprattutto estremamente concrete.

 

[Paolo Scotini]

 

 

 

 

DAS GEDICHT, Zeitschrift für Lyrik, Essay und Kritik, Nr. 10, Sommer 2002- Sommer 2003, Politik und Poesie, € 11,50 - Nr. 11, Sommer 2003-Sommer 2004, Pop und Poesie, € 11,50, Anton G. Leitner Verlag, Buchenweg 3b, D-82234 Weßling bei München.

 

Complessa congiuntura storica e specifica situazione letteraria suggeriscono  la ripresa del tema politico in libri, riviste e dibattiti, ma ciò che colpisce è il fatto che il rapporto tra letteratura e politica analizzato in varie sedi e circostanze non parta dalla registrazione di una produzione engagée, bensì della sua assenza, a cui segue di norma l’invito a riprendere una direzione da tempo abbandonata. Un’impressione del genere emerge anche dal numero 10 della rivista a cadenza annuale edita da Anton G. Leitner, il cui tentativo di mediare qualità e pubblico iniziato dieci anni fa appare definitivamente riuscito. Sia nella parte antologica, come al solito di ottimo livello, che in quella critica (con interventi, tra gli altri, di Enzensberger e Johano Strasser), si ha quindi spesso l’impressione di una forzatura, impressione intensificata dal fatto che l’approccio degli autori al tema è di natura assolutamente eterogenea. In un’altra ottica questa eterogeneità può rappresentare invece proprio il lato interessante dell’antologia che cerca di coprire le tendenze più varie della poesia tedesca contemporanea, dalle presenze ormai abituali dei ‘maestri’ (Friederike Mayröcker, Kurt Marti, Günter Kunert tra gli altri), passando per la generazione dei trenta-quarantenni (Jan Koneffke, Dieter M. Gräf, Albert Ostermeier, Tanja Dückers) fino ai più giovani (Nora Bossong).

Un po’ in ritardo sembrerebbe invece arrivare il numero 11 della rivista, dedicato al binomio Poesia/Pop, le cui relazioni sono presentate, descritte e indagate da una decina d’anni in numerose riviste e antologie. Ma «Das Gedicht» affronta (provocatoriamente?) la questione sotto un aspetto quasi esclusivamente musicale- ludico (assumendo a motto il verso di Albert Ostermeier «lass mich deine jukebox / sein») che permette l’inserimento nella sezione antologica di componimenti certo molto distanti dai temi pop standardizzati. Non mancano però alcuni eredi della vera e propria tradizione pop – che in Germania passa in particolare per i lavori degli anni ’70 di Rolf Dieter Brinkmann – dal citato Ostermeier a Stan Lafleur a Helmut Krausser. Segnaliamo, oltre ai consueti interventi saggistico-poetologici (in tono minore in questo numero), una ricca sezione di recensioni che pur nella brevità dei contributi consegna un affidabile riassunto critico dell’anno poetico trascorso.

 

[Paolo Scotini]

 

 

 

 

SCHREIBHEFT, Zeitschrift für Literatur, Nr. 60, 2002, € 10,50, Rigodon- Verlag, Nieberdingstr. 18, D – 45147 Essen.

 

Dedicato, secondo il motto Leave us alone, alle giovani generazioni di narratori del mondo di lingua inglese dedite alla riflessione postmoderna sull’autoreferenzialità della costruzione testuale quale «fabbrica delle citazioni», il numero si presenta come una interessante piattaforma di discussione, in cui ai materiali letterari si accompagnano interviste con gli autori – Ben Marcus, Lydia Davis (commentata dal poeta Michael Hofmann), David Markson. A questo colloquio partecipano da parte tedesca, in una sorta di variazione sul tema, i testi della sezione poetica di autori come Marcel Beyer, che con le terzine di Don Cosmic consegna un omaggio al mondo del reggae e al principio musicale del dub quale riferimento essenziale di una poetica incentrata sul ritmo, Ulf Stolterfoht, portavoce della componente più specificamente filosofico-linguistica, e il giovane Uwe Tellkamp, di cui viene presentato qui il poema Nautilus, una sorta di enciclopedico viaggio attraverso il motivo stesso del viaggiare, alla ricerca delle nuove possibilità dell’epos nella poesia contemporanea.

 

[Monica Lumachi]

 

 

 

 

ZWISCHEN DEN ZEILEN, Eine Zeitschrift für Gedichte und ihre Poetik. N. 19, Dezember 2002, € 10,00 N. 21, Elf Widerstandsnester, kompiliert von Ulf Stolterfoht, Mai 2003, € 17,00. Urs Engeler, Dorfstrasse 33, CH - 4057 Basel.

 

Il numero 19 della rivista di poesia e poetica edita da Urs Engeler propone – come era già avvenuto in passato – la giustapposizione di opere di autori in lingua straniera e dei loro traduttori, lasciando quindi un implicito spazio di verifica e confronto di interessi e affinità. I due autori presentati, di lingua francese, sono Luca Ghérasim, poeta di origine rumena suicidatosi nel 1994, e Jude Stéfan, nelle traduzioni rispettivamente di Mirko Bonné – di cui segnaliamo la recente uscita, presso DuMont, del volume di poesie Hibiskus Code – e Martin Zigg. Oltre agli interventi poetici e poetologici dei due traduttori il volume è completato da componimenti inediti di Arne Rautenberg e Lutz Seiler – autore tra i più rilevanti degli ultimi anni – che presenta nel ciclo altes objekt uno scavo storico legato all’approccio diretto con gli oggetti che segna significativamente anche il lavoro di altri poeti di lingua tedesca.

Un’antologia ‘d’autore’ è quella proposta invece nel numero 21 della rivista, curata da Ulf Stolterfoht, già noto per i suoi cicli fachsprachen pubblicati dallo stesso editore della rivista, Urs Engeler. Il sottotitolo Elf Widerstandnester (11 sacche di resistenza) e lo slogan pop da guerriglia metropolitana «All killa! No filla!», gridato da un adesivo giallo in copertina, indicano pur con una certa autoironia la volontà di attribuire un valore criticocombattivo all’istituto poetico, che passi innanzitutto per una radicale elaborazione linguistica. Dai lunghi poemi post Beat di Paulus Böhmer all’esplorazione storico- geografica di Bert Papenfuß, fino alle sestine grafico-foniche di Oskar Pastior e ai giardini di Oswald Egger l’antologia rappresenta un documento eterogeneo quanto interessante di una poesia che non intende rinunciare a una valenza provocatoria e di ‘intervento’, ma che soprattutto vuole porsi – sulla scia delle avanguardie – come rottura formale rispetto ai vari discorsi standard-tradizionali. In tal senso questa antologia sembra continuare e integrare quella per alcuni versi simile (e con due autori ‘in comune’) curata da Thomas Kling per la rivista «Akzente» nel 1996. La tendenza alla radicalizzazione linguistico-filosofica che pur nelle sue varianti è emersa in ambito tedesco negli ultimi anni si pone come un documento letterario estremamente interessante. Ma sono evidenti anche i limiti di una impostazione che carica il fattore linguisticoformale di valenze che per una serie di ragioni (storico-sociali) esso non possiede più. Una riflessione critica – e autocritica – su questi punti sarebbe auspicabile.

 

[Paolo Scotini]