POESIA
TEDESCA
a
cura di Paolo Scotini
MARCEL BEYER, Erdkunde, Köln, DuMont 2002, pp. 116, € 16,90.
Noto ai lettori italiani per
il romanzo del 1995 Flughunde (Pipistrelli,
Einaudi 1997), complesso intreccio di fiction, saggistica
e fonti documentarie che scandaglia il dodicennio nazista e i suoi echi
attuali, Marcel Beyer (nato nel 1965) rappresenta tuttavia anche una delle voci
più importanti nel panorama della giovane poesia tedesca. Fin dai primi
esperimenti poetici quello di Beyer si rivela infatti un linguaggio originale,
incentrato sulla decostruzione morfosintattica e sul montaggio citazionale
nonché su una forte componente ritmico-musicale. Già con la raccolta del 1997 Falsches
Futter (Cibo sbagliato), peraltro, il sound
beyeriano giungeva a caricarsi di una complessa dimensione
semantica, segnando un nuovo, interessante approccio al tema della memoria
storica. Lungo la linea di una tradizione ermetica che guarda soprattutto a
Celan, l’operazione di Falsches Futter si incentrava infatti
sull’auscultazione del «silenzio eloquente » del passato tedesco, le cui tracce
si lasciavano ritrovare in paesaggi periferici, sotterranei, oppure in objets
trouvés, frammenti insignificanti come una scatola di cera da scarpe: un
procedimento di raccoltae di ristratificazione semantica inteso a far saltare
una vulgata storica indurita e cristallizzata.
L’approccio beyeriano al
passato è riassunto nei versi di Trockenfisch,
poesia che compare all’interno dell’ultima raccolta di Beyer, pubblicata nel
2002 con il titolo programmatico di Erdkunde (Geografia),
termine un po’ polveroso rispetto al più moderno Geographie, ma
che rimanda a una prassi disciplinare sentita quasi humboldtianamente come
«occhio della storia». Il poeta muove adesso alla volta di un viaggio da ovest
verso est oltre i confini spazio-temporali del proprio paese: dalla Repubblica
Ceca alle pianure dei paesi baltici fino a Kaliningrad e San Pietroburgo. Lungo
sei sezioni poetiche disposte a suggerire le singole carte di un atlante i
luoghi stranieri si vengono a configurare in termini di colori e di odori: «Die
Luft hat keinen Beigeschmack, kein Brennstoff / in den alten
Kosmonautenstädten, nichts / zu
saugen. Staub Sterne, Kohlgeruch sein einer // Ewigkeit verflogen, [...]» (Fort).
Ma la geografia beyeriana è e resta in primo luogo archeologia della memoria:
alle sollecitazioni del presente si sovrappongono esperienze personali,
reminiscenze storico-culturali («Tallinn mit dem Geruch nach Holz / in der
Erinnerung, Vernäht, geklemmt, / verdammte Füße, wenn ich – Taxistelle – / vor
der Puschkinvilla stehe» Stiche) e fantasmi di un passato
recente di cui resta ovunque soltanto polvere (Staub).Non
a caso fin nella prima sezione, dedicata
alla Boemia, nel ciclo di poesieche dà il nome alla raccolta, l’esploratore esperisce
un processo di ‘ossificazione’ – «Ossizierung », come suona il neologismo
beyeriano – proprio di un paesaggio «poroso», che ha paura perfino di sfiorare
(«[...] in Teplitz, in Teplice oder in Tepl, / ich berührte nichts, alles //
fürchtete ich, würde zerbröckeln, / so wie der Name, porös [...]»). E porosi in
quanto benjaminianamente osmotici, punti di passaggio tra passato e presente,
sono gli scenari urbani del postcomunismo (Funky Sabbath), o
gli pneumatici abbandonati ai lati delle autostrade (Fünf
Zeilen).
Dopo il naufragio della
storia, l’unico terreno solido su cui il geografo può poggiare i propri passi
sono appunto gli oggetti nella loro realtà fenomenica («Die Sprachen sind mir
fremd, als würde / ich Pantoffeln tragen: aber ich // bin da. Kunstfaser, Pelzbesatz und /
Einlegsohlen: alle Dinge sind mir nah.» Narva, taghell). Di qui il procedimento di accumulazione e
stratificazione nominale, il complesso lavoro sul lessico proprio di queste
poesie (si vedano i montaggi e i neologismi di Bienenwinter),
che rischiano qualche volta di ridursi a catalogo di materiale linguistico
seppur di ottima fattura. In un contesto dominato da strutture ellittiche e da
costrutti ostici, il «collante» dei versi beyeriani (il Kitt
che dà il titolo a una poesia) è di nuovo quella musicalità data
da un peculiare intreccio di elementi colti (lo sfruttamento di differenti
metri o il sapiente uso dell’enjambement) e sonorità apparentemente ‘facili’
come le rime della nenia infantile, a cui si aggiungono i numerosi rimandi
interni o addirittura tra questa e le raccolte precedenti: costanti di un
programma poetico che fa leva sull’interpretazione come suo momento
costitutivo.
[Monica
Lumachi]
UWE KOLBE, Die Farben des Wassers, Frankfurt am Main, Suhrkamp Verlag 2001, pp. 80, € 14,80.
Con la sua ultima raccolta
di poesie, Die Farben des Wassers,
Uwe Kolbe, nato nel 1957 a Berlino Est, ritorna a quello che dei quattro
elementi gli è più familiare. L’acqua, legata al mestiere del padre, navigatore
fluviale di un paesaggio orientale scomparso
a presente come incancellabile palinsesto di ogni verso, è ora sicura
dimora tra i canali che solcano Tubinga e i suoi verdi dintorni, dove Kolbe
attualmente vive. Tra alberi e ruscelli i versi, ora in ritmi liberi, ora
oculatamente cadenzati in esametri o in pentametri, riproducono le sensazioni
di un ritrovato presente siglato con il luogo e il giorno della scrittura,
quasi a tenere un diario lirico e costruire lo sfondo di un’esistenza
finalmente approdata a una sicura sponda, tra le colline sveve. «Ma io cerco,
arrogante chimera, / un paese non tedesco (perciò non diviso) / equidistante
dalla Daimler-nazione e dalla Prussia», scriveva nel 1988, e a più di un
decennio di distanza Kolbe si riconcilia con il suo paesaggio perché, e solo
per questo, accolse e ispirò Mörike e Hölderlin. Come di consueto Kolbe è poeta
che legge poesie, che traduce le suggestioni dei suoi autori più amati nei suoi
versi. Se nella Berlino della ‘Prenzlauer-Berg-Connection’ gli espressionisti
gli avevano impresso a fuoco le immagini della metropoli, ora sono i
poetiromantici della natura i numi tutelari della sua lirica, poeti che sono voci di un
paesaggio, melodia di un’esperienza localizzata qui e non altrove, genius
loci. Forse per questo la raccolta si apre con il tentativo di
archiviazione di un luogo ormai remoto, la Vineta dell’omonimo volume (1998),
lo scenario orientale inabissatosi lasciando un «tempo che non guarisce» (Für
Clemens Eich). Diario lirico, si diceva, idillio di ponti e
sentieri ombreggiati, se non fosse che ognuna delle poesie si diparte da quella
ferita sempre aperta nel tempo, se non fosse che il bambino ne ha viste troppe
(Beim Zeitungslesen) e che Don Chisciotte,
sceso da cavallo, si vergogna e non sa più chi è (Zu
wissen). Un io lirico sempre alle prese, suo malgrado, col «prima»,
«mai con il poi» (Womit ich befaßt bin),
condannato a ritornare sempre sui luoghi colpevoli di un’infanzia passata a
giocare all’ombra di betulle che nascondono fosse comuni, di colline che recano
muta la memoria di Miklós Radnóti, poeta ungherese ucciso dai nazisti (Ich
habe es wie immer gemacht). Paesaggiodi betulle sempre novemberkahl,
sempre spoglie come a novembre: questa,
in fondo, la Germania di Kolbe tra le crepe del
paesaggio svevo, non diversa, in questa assonanza novembrina che per la
storia del novecento tedesco ha una connotazione tragica, dal fatale Novemberland
di Günther Grass. Laddove la storia riaffiora e rimuove il verde
e le acque sveve, il linguaggio si disincanta, abbandona nuances
e discrete citazioni ottocentesche, e si fa nuda cronaca quando
non è addirittura orrida pellicola di un inferno dantesco rivisitato che ospita
la vendetta di un io lirico intento a infliggere la pena atroce di Ugolino a
chi, avendo orecchie per intendere, intenderà (Der
schöne Dezember 2000. Frei nach Dante).
C’è da chiedersi se Kolbe,
che fin dall’esordio nel 1976 su «Sinn und Form» scrive perchéin credito con la
storia, sia riuscito a recuperare tutto
ciò che gli funegato, come prometteva a
se stesso in una poesia di Vineta (Was
habe ich nachzuholen). La sua risposta migliore è il «ma» hölderliniano,
«che era più patria di questo pianeta, forse» («das mehr Heimat war als dieser
Planet, vielleicht»; Der Glückliche) e che è, in fondo,
la patria del sommacco orientale, albero che, nell’immagine più bella della
raccolta, cresce dal nulla tra i binari della stazione Schönhauser Allee: un
«quasi albero», esposto senza tregua, di minuto in minuto, ai due venti dei
treni che viaggiano in direzioni opposte, sempre scosso ora da un lato, ora
dall’altro, sempre impegnato a resistere da qualsiasi parte soffi il vento: «e
ci voleva tutta la sua forza per trattenere le foglie, e null’altro» («und es
alle Kraft galt, die Blätter zu halten, sonst gar nichts»; Der
Essigbaum).
[Stefania Sbarra]
BRIGITTE OLESCHINSKI, Reizstrom
in Aspik. Wie Gedichte denken. Ein Poetik-Projekt mit Urs Engeler, Köln, DuMont Verlag 2002, pp. 131, € 16,90.
La poesia è il prodotto di
stratificazioni successive: il primo strato è dato dalla superficie ritmica,
una componente eminentemente fisica, su cui si adagia il secondo strato,
rappresentato dalla melodia, intesa nella duplice componente di armonie e
dissonanze. L’ultimo strato, il terzo, ha invece natura visiva: l’evidenza
intellettuale si sintetizza in immagini e coaguli di significato. Così descrive
Brigitte Oleschinski (nata a Colonia nel 1955) il farsi delle sue liriche nella
raccolta di scritti poetologici Reizstrom in Aspik,
che ospita le riflessioni della poetessa e storica, già pubblicate in rivista
nel corso degli anni Novanta e radunate qui in una summa
che rende conto del suo percorso artistico. A parte le
interviste-dialogo con la poetessa Elke Erb, suddivise in due sezioni, che
punteggiano la raccolta come «diodi a intermittenza», gli altri contributi si
pongono come una poetica in forma di narrazione, in cui la riflessione sulla
propria officina si confonde, in un intrecciarsi di piani, con ricordi e
vissuto autobiografico, senza tuttavia mai abbandonarsi al memorare
intimistico, ad un solipsistico ripiegamento su se stessa. Piuttosto, la vena
autobiografica si fa appiglio, in una trama di rimandi continui alla realtà
politico-sociale extra-soggettiva, per una prospettiva di forte impegno sociale
e professionale (si vedano le pagine del saggio Silvesterpolen,
dedicate alla riflessione sulle sue ricerche negli archivi dei Lager
polacchi). È dalla percezione costante del reale, infatti, che
scaturisce per Oleschinski l’impulso a poetare, a elaborare quel Reizstrom,
flusso continuo di impulsi, che colpisce senza sosta il corpo e la mente
dell’Io lirico. Arpa eolica in ascolto, esso assorbe e rifrange i suoni e gli
stimoli della realtà cosale, interpersonale e storica, ricodificandoli con
segni linguistici idiosincratici: «ma ‘vedere’ non è la parola giusta: io non
volevo propriamente ‘guardare’ ma lasciarmi andare, in una percezione sfocata,
senza direzione, durante la quale gli impulsi
urtano contro il corpo, non ancora Io».
Nel contempo, il Mental
Heat Control (titolo del primo saggio oltre che della prima
raccolta di poesie, uscita presso l’editore Rowolht nel 1990) è sorta di motto
per l’io disincantato a non partecipare in prima persona all’atto del dictare. Al
ritrarsi del
soggetto corrisponde la frammentazione della lingua poetica, una scelta
stilistica quasi obbligata, che permette di sottrarre il materiale linguistico
all’usura e all’irrigidimento stereotipico: così grammatica e sintassi
diventano, in Oleschinski come in molta parte della poesia tedesca
contemporanea, moncone, scheletro sconnesso, ricomponibile tramite nessi e
associazioni, traccia di una fiducia ancora
presente nella connessione tra pensiero e realtà. E tuttavia la
produzionelirica di Oleschinski non è ermetica, la stratificazione semantica che dà sostanza ai
suoi versi è penetrabile, si apre alla ricezione: la poesia, leggiamo nel
saggio Baustellen, Vespen, Abendgeruch, si
fa forma attraverso la lingua, in particolare nella sua componente culturale e
interazionale. Il testo poetico, coacervo di parole che accostate evocano
significati inattesi e diversi a seconda del lettore, rivela la sua natura
‘sociale’, senza con ciò diventare didascalica o pedante. Piuttosto, la
scrittura, intesa come impegno sociale, come lavoro di rendicontazione del
reale, fa emergere le dissonanze, si pone come stonatura, evidenziando le
aporie della società del benessere; la lingua della poesia riproduce per mimesi
queste dissonanze, riducendosi a frantume, a suono isolato che indica la
presenza di una flebile voce critica, simile alla sabbia del celebre verso di
Günter Eich, che così ammoniva i suoi lettori di trent’anni fa: «seid Sand,
nicht das Öl / im Getriebe der Welt».
[Marcella Costa]
ANDRÉ DU BOUCHET, Bruchstücke
vom Berg für die Landstraße verwendet, traduzione dal francese di
Sander Ort, postfazione di Michael Jakob, München, Lyrik Kabinett 2002, pp.
231, € 24,00.
Un volume azzurro con in copertina un ritratto
dell’autore di Alberto Giacometti e un titolo che riassume embleticamente il
senso dell’opera: «Frammenti di monte utilizzati per la strada provinciale».
L’edizione tedesca di un’antologia delle opere di André Du Bouchet – dal primo
volume Air del 1953 a Axiales del
1996 – a cura del traduttore Sander Ort e dello
tesso poeta scomparso nel 2001, rappresenta per più di un motivo un
evento di particolare importanza, e non solo per l’intrinseca qualità
letteraria di un’opera nodale degli ultimi cinquanta anni. La pubblicazione del
volume a cura del Lyrik Kabinett di Monaco – con una postfazione di Michael
Jakob – assume infatti valenze peculiari proprio se osservata in relazione agli
sviluppi della lirica tedesca, in primo luogo per lo stretto rapporto che lega
André Du Bouchet a Paul Celan, rapporto
personale e letterario intensificato dalla traduzione ‘reciproca’. Nel 1968
Celan entra a far parte del comitato di redazione della rivista «L’Ephémère»,
fondata da Du Bouchet assieme a Yves Bonnefoy e Jacques Dupin, e nello stesso
anno esce da Suhrkamp la traduzione di Celan del secondo volume del poeta Dans
la chaleur vacante (1961) con il titolo Vakante
Glut, unica opera di Du Bouchet edita in lingua tedesca prima della
presente antologia. Nel 1971 è quindi Du Bouchet a pubblicare poesie di Celan
in traduzione francese con il volume Strette.
Senza ritornare in questa sede su analisi e valutazioni di queste traduzioni
(ricordiamo tra l’altro che le versioni dei lavori di Celan da parte di Du
Bouchet sono state a suo tempo oggetto di alcune critiche) è comunque evidente
che esse segnalano un legame profondo e uno scambio attivo che ha lasciato
significative tracce.
Oltre a riscontrare
coincidenze nella concezione stessa dell’operare poetico e del valore da
attribuire alla poesia (non a caso il primo numero de «L’Ephémère» si apriva
con Il meridiano di Celan) ci interessa
rilevare qui la ricorrenza in entrambi i poeti di alcuni elementi chiave, di
cose o oggetti – in particolare del paesaggio
– che si pongono come concreti punti di riferimento in un rapporto di
tensione poesia-realtà (e storia, in Celan).
L’intera opera di Du Bouchet
espone e indaga questa tensione: sulla pagina emergono, interrotti da grandi
vuoti bianchi, gli elementi del paesaggio di cui si diceva – monti e ghiacciai, neve, strada, sole, aria,
temporali ecc. –, registrati da un poetaviandante a formare topografie, a
delimitare spazi. I puntini di sospensione che spesso introducono i versi
sembrano indicare la precarietà di questa ricostruzione topografica, al pari
dei vuoti bianchi (o silenzi) che invadono le pagine, ma non è certo un
tradizionale ‘ritorno alla natura’ che Du Bouchet propone, come sottolinea
Michael Jakob – esegeta e amico dello stesso Du Bouchet, nonché acuto
interprete celaniano – nella postfazione. «Auch was hier Natur ist», continua
Jakob, «bleibt stets herzustellen, ergibt sich im Zusammenhang von Zeichen»: la
tensione tra poesia e realtà di cui dicevamo assume così un carattere
costruttivo che si sviluppa nel momento stesso della lettura, ovvero –
trasposto sul piano dell’autore – della ‘passeggiata’.
Ed è in questa attenzione ad
una costruzione e definizione spaziale – che si dà però come processo, come
azione – che si affida a pochi e basilari elementi del paesaggio, che André Du
Bouchet viene a incontrare una delle linee più forti della nuova poesia di
lingua tedesca – pensiamo in particolare ai lavori di Michael Donhauser e Peter
Waterhouse -, una linea nella quale sono già stati inseriti, in qualità di
maestri, lo stesso Celan e Andrea Zanzotto. In questo contesto l’uscita del volume di Du Bouchet permette di aprire –
o forse riaprire – un dialogo, di sviluppare un’ulteriore
ottica del discorso, riconducendo al contempo il discorso stesso a quelle
fondamenta che appaiono oggi tra le più stabili della poesia contemporanea.
[Paolo Scotini]
RIVISTE
AKZENTE,
Zeitschrift für Literatur, herausgegeben von Michael Krüger, Heft 1/Februar
2003; Heft 2/April 2003; € 7,90; Carl Hanser Verlag, Postfach 860420, D-81631
München.
Il cinquantesimo anno di
vita della rivista «Akzente» – che ha accompagnato in questi cinquanta anni i
passi decisivi della letteratura tedesca moderna – si apre con un notevole
numero monografico dedicato a W. G. Sebald, scomparso nel dicembre 2001. Saggi
sulle sue opere e ricordi personali, un’intervista inedita e un testo dal
lascito (Campo Santo) tracciano un ricordo dell’autore degli Anelli
di Saturno e di Austerliz.
Assenti in questo volume sono eventuali interventi relativi alla sua produzione
poetica, anche se «Akzente» aveva già pubblicato nel 2001 una scelta di poesie
dello stesso Sebald.
La poesia ritorna invece ad
essere al centro del secondo numero del 2003, in particolare con la presentazione
di un’antologia di lavori di Hans Faverey, autore olandese morto nel 1990, e
della poetessa Jorie Graham, una delle voci più note e significative della
nuova poesia americana, qui tradotta e letta da due diversi interpreti.
[Paolo Scotini]
ARTIC, Texte aus der fröhlichen Wissenschaft, Nr. 8, Herbst 2001, heilig, € 12,00; Am Heedbrink 17, D-44263
Dortmund.
La focalizzazione
monografica che segna anche graficamente i numeri della rivista «Artic»
riguarda nel volume 8 l’aggettivo heilig,
«sacro». L’approccio è al solito – come indicano gli aforismi ’apertura – quello di un brain storming multitestuale
e multivisuale che intende sottrarsi in maniera ludica e curiosa a qualsiasi
impostazione fondante o comunque organica. Tale programma non è privo di una
certa maniera tutta contemporanea (e che coinvolge anche l’‘accademia’), ma la
particolare qualità dei singoli interventi grafici o letterari fa della rivista
una delle proposte più interessanti e stimolanti degli ultimi anni. Lo spazio
dedicato alla poesia ospita – in versi bianchi su fondo oro – lavori di Marcel Beyer
confluiti poi nel volume Erdkunde (si veda la recensione in
questa stessa sezione) e di Norbert Hummelt, amici e partner
performativo-letterari nella Colonia degli anni ’90. I brevi componimenti, che
ribadiscono l’interesse formale delle ultime prove dei due autori, colpiscono
nel contesto di un numero dedicato al sacro per
l’attenzione e l’insistenza su realtà minime ma soprattutto estremamente
concrete.
[Paolo Scotini]
DAS GEDICHT, Zeitschrift für Lyrik, Essay und Kritik, Nr. 10,
Sommer 2002- Sommer 2003, Politik
und Poesie, € 11,50 - Nr. 11, Sommer
2003-Sommer 2004, Pop
und Poesie, € 11,50, Anton G. Leitner
Verlag, Buchenweg 3b, D-82234 Weßling bei München.
Complessa congiuntura
storica e specifica situazione letteraria suggeriscono la ripresa del tema politico in libri,
riviste e dibattiti, ma ciò che colpisce è il fatto che il rapporto tra
letteratura e politica analizzato in varie sedi e circostanze non parta dalla
registrazione di una produzione engagée,
bensì della sua assenza, a cui segue di norma l’invito a riprendere una
direzione da tempo abbandonata. Un’impressione del genere emerge anche dal
numero 10 della rivista a cadenza annuale edita da Anton G. Leitner, il cui
tentativo di mediare qualità e pubblico iniziato dieci anni fa appare
definitivamente riuscito. Sia nella parte antologica, come al solito di ottimo livello,
che in quella critica (con interventi, tra gli altri, di Enzensberger e Johano
Strasser), si ha quindi spesso l’impressione di una forzatura, impressione
intensificata dal fatto che l’approccio degli autori al tema è di natura
assolutamente eterogenea. In un’altra ottica questa eterogeneità può
rappresentare invece proprio il lato interessante dell’antologia che cerca di
coprire le tendenze più varie della poesia tedesca contemporanea, dalle
presenze ormai abituali dei ‘maestri’ (Friederike Mayröcker, Kurt Marti, Günter
Kunert tra gli altri), passando per la generazione dei trenta-quarantenni (Jan
Koneffke, Dieter M. Gräf, Albert Ostermeier, Tanja Dückers) fino ai più giovani
(Nora Bossong).
Un po’ in ritardo
sembrerebbe invece arrivare il numero 11 della rivista, dedicato al binomio
Poesia/Pop, le cui relazioni sono presentate, descritte e indagate da una
decina d’anni in numerose riviste e antologie. Ma «Das Gedicht» affronta
(provocatoriamente?) la questione sotto un aspetto quasi esclusivamente
musicale- ludico (assumendo a motto il verso di Albert Ostermeier «lass mich
deine jukebox / sein») che permette l’inserimento nella sezione antologica di
componimenti certo molto distanti dai temi pop standardizzati.
Non mancano però alcuni eredi della vera e propria tradizione pop
– che in Germania passa in particolare per i lavori degli anni
’70 di Rolf Dieter Brinkmann – dal citato Ostermeier a Stan Lafleur a Helmut
Krausser. Segnaliamo, oltre ai consueti interventi saggistico-poetologici (in
tono minore in questo numero), una ricca sezione di recensioni che pur nella
brevità dei contributi consegna un affidabile riassunto critico dell’anno
poetico trascorso.
[Paolo Scotini]
SCHREIBHEFT, Zeitschrift für Literatur, Nr. 60, 2002, € 10,50,
Rigodon- Verlag, Nieberdingstr. 18, D – 45147 Essen.
Dedicato, secondo il motto Leave
us alone, alle giovani generazioni di narratori del mondo di lingua
inglese dedite alla riflessione postmoderna sull’autoreferenzialità della
costruzione testuale quale «fabbrica delle citazioni», il numero si presenta
come una interessante piattaforma di discussione, in cui ai materiali letterari
si accompagnano interviste con gli autori – Ben Marcus, Lydia Davis (commentata
dal poeta Michael Hofmann), David Markson. A questo colloquio partecipano da
parte tedesca, in una sorta di variazione sul tema, i testi della sezione
poetica di autori come Marcel Beyer, che con le terzine di Don
Cosmic consegna un omaggio al mondo del reggae e al principio musicale
del dub quale riferimento essenziale di una poetica incentrata sul ritmo, Ulf
Stolterfoht, portavoce della componente più specificamente
filosofico-linguistica, e il giovane Uwe Tellkamp, di cui viene presentato qui
il poema Nautilus, una sorta di enciclopedico viaggio attraverso il
motivo stesso del viaggiare, alla ricerca delle nuove possibilità dell’epos
nella poesia contemporanea.
[Monica Lumachi]
ZWISCHEN DEN ZEILEN, Eine Zeitschrift für Gedichte und ihre Poetik. N.
19, Dezember 2002, € 10,00 N. 21, Elf Widerstandsnester,
kompiliert von Ulf Stolterfoht, Mai 2003, € 17,00. Urs
Engeler, Dorfstrasse 33, CH - 4057 Basel.
Il numero 19 della rivista
di poesia e poetica edita da Urs Engeler propone – come era già avvenuto in
passato – la giustapposizione di opere di autori in lingua straniera e dei loro
traduttori, lasciando quindi un implicito spazio di verifica e confronto di
interessi e affinità. I due autori presentati, di lingua francese, sono Luca
Ghérasim, poeta di origine rumena suicidatosi nel 1994, e Jude Stéfan, nelle
traduzioni rispettivamente di Mirko Bonné – di cui segnaliamo la recente
uscita, presso DuMont, del volume di poesie Hibiskus Code – e
Martin Zigg. Oltre agli interventi poetici e poetologici dei due traduttori il
volume è completato da componimenti inediti di Arne Rautenberg e Lutz Seiler –
autore tra i più rilevanti degli ultimi anni – che presenta nel ciclo altes
objekt uno scavo storico legato all’approccio diretto con gli oggetti
che segna significativamente anche il lavoro di altri poeti di lingua tedesca.
Un’antologia ‘d’autore’ è
quella proposta invece nel numero 21 della rivista, curata da Ulf Stolterfoht,
già noto per i suoi cicli fachsprachen pubblicati dallo
stesso editore della rivista, Urs Engeler. Il sottotitolo Elf
Widerstandnester (11 sacche di resistenza) e lo slogan pop
da guerriglia metropolitana «All killa! No filla!», gridato da
un adesivo giallo in copertina, indicano pur con una certa autoironia la
volontà di attribuire un valore criticocombattivo all’istituto poetico, che
passi innanzitutto per una radicale elaborazione linguistica. Dai lunghi poemi post
Beat di Paulus Böhmer all’esplorazione storico- geografica di Bert
Papenfuß, fino alle sestine grafico-foniche di Oskar Pastior e ai giardini di
Oswald Egger l’antologia rappresenta un documento eterogeneo quanto
interessante di una poesia che non intende rinunciare a una valenza
provocatoria e di ‘intervento’, ma che soprattutto vuole porsi – sulla scia
delle avanguardie – come rottura formale rispetto ai vari discorsi
standard-tradizionali. In tal senso questa antologia sembra continuare e
integrare quella per alcuni versi simile (e con due autori ‘in comune’) curata
da Thomas Kling per la rivista «Akzente» nel 1996. La tendenza alla radicalizzazione
linguistico-filosofica che pur nelle sue varianti è emersa in ambito tedesco
negli ultimi anni si pone come un documento letterario estremamente
interessante. Ma sono evidenti anche i limiti di una impostazione che carica il
fattore linguisticoformale di valenze che per una serie di ragioni
(storico-sociali) esso non possiede più. Una riflessione critica – e
autocritica – su questi punti sarebbe auspicabile.
[Paolo Scotini]