POESIA ITALIANA   

a cura di Fabio Zinelli

 

 

 

PRISCA AGUSTONI, Sorelle di fieno / Irmãs de feno, Belo Horizonte (MG), Mazza Edições 2002 (bilbeli@hotmail.com - edmazza@uai.com.br), pp. 112, s.i.p.

 

Ci si può affidare alla poesia iniziale per illustrare convenientemente la struttura del libro: «Perché è più  acile / attraversare l’Atlantico / che passare il valico / del San Gottardo». L’autrice, ticinese (n. 1975),  ive tra la Svizzera e il Brasile (nello stato del Minas Gerais; dei poeti della regione l’Agustoni ha curato  na piccola antologia in Semicerchio, 26-27, 2002), e pratica il portoghese, anche letterariamente, come una seconda lingua. Il dato di questa migrazione personale e linguistica (ma il testo a fronte è in questo caso opera del poeta Edimilson de Almeida Pereira), si specchia qui nelle storie di «voci femminili che ci narrano l’esperienza dell’esilio – dalle valli della Svizzera italiana oltre il valico del San Gottardo, frontiera fisica e simbolica tra il Nord e il Sud del paese, tra la lingua italiana e il tedesco. All’inizio del XX° secolo molte giovani ragazze partirono dal Ticino per essere impiegate come tessitrici in convitti diretti dalle suore, abbandonando l’universo mitico della natura per entrare in quello storico della produzione industriale ». La frontiera interna, ancora una volta culturale e linguistica («Deutschsprechen, bitte»), iniziatica («e voi avete il grembiule / macchiato di sangue», «Mi piace salire ai laghi. / La fissità del pendio / è ostia che glorifica / qualsiasi bagaglio»), tra lo sradicamento delle anonime protagoniste e l’intimità di scoprirsi sorelle di fieno, condividendo le notti sulla stessa paglia, ci portano nel paese al centro dell’Europa, che più di altri può raccontare storie sugli acuti contrasti tra arcaismo autoctono e modernità, radicamento e migrazione (in questi stessi paesaggi si svolgono le storie di asilanti dei nostri giorni raccontate da Fabio Pusterla). I toni del racconto sono quelli della narrazione lirica: «Il vapore nascose il miraggio / nella tana delle volpi. / In quell’anno / nevicò gelo». Gli spazi linguistici sono quelli stretti di metafore di un espressionismo stilistico essenziale («sei la rilegatura delle ossa», «Il valico della montagna / è sudario ad asciugare»), talvolta di spiccata attitudine ‘femminista’ («Santo Antonio da Padova / trova l’equivoco / tra quel guardare obliquo / e il mio candeggiare / il silenzio»), percepibile anche nella disponibilità a una sorta di animismo ‘umiliato’ degli oggetti («i pedali Singer / sono novene che germinano»). Ma se tale repertorio figurale muove dall’interno di percorsi comunque noti della ‘scrittura femminile’, la riuscita del libro tiene anche al fatto che alla voce dell’autore si sovrappone come voce di teatro quella recitante delle protagoniste: «Siamo giovani Penelopi / con vecchi retaggi » (l’effetto è rinforzato dalla posizione dei titoli delle singole poesie in margine, quasi si trattasse di altrettante didascalie di esecuzione). La voce dell’autrice invece, la avvertiamo più forte quando si libera in svolgimenti di una scioltezza ariosa davvero poco italiana e che attribuiremo senz’altro alla vena luso-brasiliana soggiacente alla formazione di questa poesia: «A Elvezia piace cantare. / Ma qui non vale / l’argenteria lirica: / i papaveri sono alti / e le persiane / continuano / ermetiche» (dove si noti il lusitanismo continuano nel senso di ‘restano’).

 

(Fabio Zinelli)

 

 

 

ALESSANDRO CENI, Mattoni per l’altare del fuoco, Milano, Jaca Book 2002, pp. 72,  9,00.

 

Summa delle tre plaquettes uscite dal 1993 al 1996, Mattoni per l’altare del fuoco riunisce in un unico corpo i trentatré ‘passaggi’ componenti le sezioni della nuova opera di Ceni: Nel regno; La realtà prima; Ossa incise e dipinte. Cristologica cifra (conforme d’altra parte al modulo numerico dei tre passaggi ultraterreni danteschi), per una serie di trasmigrazioni terrene che rispondono a un pensiero orientale pervadente l’intera raccolta, a cominciare dalle epigrafi tratte da Tao Tê Ching e Chuang-Tzu, dall’Ashtasakasrika come dalla Leggenda di Thrimikund. L’unità dell’opera, pur costruita a posteriori con demiurgica sapienza, come da poema antico, è sottolineata, soprattutto nella prima sezione, da vere e proprie coblas capfinidas, catenelle di un mistico rosario che si sgrana capitolo dopo capitolo. Quanto alla substantia dei mattoni forgiati a innalzare «l’altare del fuoco» – ara, cioè, per numi superiori – consiste esclusivamente in epifanie del divino nelle umili forme degli innocenti per eccellenza: «bambini e animali»; ovvero in impossibili colloqui con ombre parentali. Dunque tanto il Pascoli più sperimentale, quanto quello più ossessivo soccorrono a lessico e immaginario del poeta. Presenze tutte ‘autorizzate’ dall’ornitologia in versi del poeta sanmaurese, quelle di tordi, passere (il femminile è tratto che ne conferma la matrice pascoliana), merle, chiurli (altri uccelli nei confronti dei più celebri chiù, pure, nominalmente affini), procellarie e mortifere civette. Oracolare sicuramente il ruolo rivestito dagli alati del XXXIII capitolo: «...perché gli uccelli credono / col loro canto di far sorgere il sole», virtù condivisa con gli aedi, che, messa in dubbio, conduce – come si narra nel Fringuello cieco (Canti di Castelvecchio), e come mostra di saper bene Ceni – a immediata perdita della vista, ossia del potenziale immaginifico. Aristofanesco- esiodeo il planare dall’alto dei cieli di passera, merle e chiurlo del II capitolo, che, tuttavia, essendo ormai spiriti discendenti in un mondo evangelicamente rovesciato, giungono piuttosto a confermare la mancanza di certezze, che dal Montale degli Ossi in poi, è divenuta per i poeti legge di silenzio: «hai visto il figlio discendere sul padre / e aprirsi alle parole / per dirgli la parola che non salva...». Non resta dunque che indossare vesti francescane, per passare direttamente, con atto ieratico, la parola alle creature, attendendone un miracolo: «ridestarsi ad un tuo gesto di monaco / tutto il regno animale» (X). Mediterraneo il paesaggio, dominato dalla presenza del mare; dunque luogo deputato a porre in scena paniche metamorfosi dannunziane, seppur ridotto all’essenzialità tenacemente ricercata da Arsenio. Desolati sterpai danteschi – «nella selva secca della terrestre salina / che schiocca sotto il suo grave peso di bimbo» – ripopolati di «alcioni in bonaccia » (VI), costituiscono quasi il manifesto di un’intima fedeltà al poeta delle Laudi (anche effetti di armonia imitativa come l’esempio or ora citato, o altro passo dell’XI capitolo: «...che raso sull’erba / scocchi festuche marine alla terra e / al passo dei tordi proietti la prua di pigne / del promontorio nel ceduo del mare aperto » stanno a dimostrare l’assimilata lezione di questo d’Annunzio), come a certo Pascoli marinaresco, maestri entrambi di una koinè già decantata al filtro della montaliana trilogia di Ossi-Occasioni-Bufera. Una pur veloce analisi del lessico dimostra perfettamente questa linea di discendenza, quasi si privilegino il Pascoli, il d’Annunzio e il Montale più linguaioli, che procedono nei loro esperimenti con squadernato e rubricato il Guglielmotti presso lo scrittoio; così, accanto a nuovi tecnicismi da vocabolario portuale (remeria, cabrare, draga), si sciorinano termini già tutti impiegati da queste tre corone: tolda (Pascoli, Il ritorno di colombo di Odi e inni; d’Annunzio, A Roma in Elettra; Montale, Fuscello teso dal muro degli Ossi), orzare (d’Annunzio, La canzone dei Dardanelli in Merope), alzaia (Pascoli, Gli emigranti nella Luna dei Nuovi poemetti; d’Annunzio, Il commiato in Alcyone), lampara (Montale, Dov’era il tennis di La bufera e altro). Analogamente l’impronta di queste autorità linguistiche, insieme a quella dantesca o carducciana (e non mancano neppure esempi di riesumazione filologica da calepini soderiniani, si pensi alla voce pacciume) è testimoniata tramite lemmi naturalistici quali: glutine (Pascoli, Il vischio nei Primi poemetti), elitre (Pascoli, L’uccellino del freddo nei Canti di Castelvecchio; Montale, Gli orecchini di La bufera), lentischio (Pascoli, Tolstoi in Poemi italici e altrove; d’Annunzio, Il fanciullo in Alcyone), aliare (Pascoli, Alba di Myricae e altrove; Montale, Vecchi versi in Le occasioni – resta da osservare come la canonica dieresi della forma alïare, inaugurata  dal Foscolo delle Grazie, sia nel contempo allusa e sostituta qui da Ceni, tramite variata e neologica accentazione, nell’alìavo del IV capitolo); festuche (Dante, Inferno, XXXIV), ilice (Carducci, Alle fonti del Clitumno in Odi barbare; Montale, Il gallo cedrone in La bufera), ecc. Di contro a queste epifanie dell’oltremondo, a cui è teatro il riarso paesaggio campestre e costiero, gli umili interni, l’«angolo oscuro della casa» (XVII), divengono naturale palcoscenico per l’aggallare di larve familiari. I defunti visitano nelle pagine poetiche di Ceni quotidianamente i mortali, che, dal canto loro, lungi dall’orripilare con sacra meraviglia a tali apparizioni, sembrano accettare come consueta la permanenza delle ombre tra i vivi. Così è proprio alle speciali facoltà del poeta visionnaire, «Io vedo e non vedo» (XX), che le anime si appellano per avere la loro voce di testimonianza, fino a rilasciare dei veri e propri imperativi ai figli, invitati a un ‘banchetto della vita’, che riunisca superstiti e trapassati: «Non mancare alla presenza dei convitati, / agli antichi e svaniti amici che giunsero in sogno / assieme alla voce del padre...» (V), riconfermando ciascuno nel ruolo di un tempo, quasi la morte non avesse potuto niente contro la primeva famiglia, indissolubile cellula terrena: «Tu che non sei di questo mondo e sei nella polvere / e siedi alla parte breve del tavolo...» (XI).

 

(Francesca Latini)

 

 

 

ROBERTO DEIDIER, Il primo orizzonte, Genova, Edizioni San Marco dei Giustiniani 2002, pp. 95, s.i.p.

 

Al passo con Una stagione continua (il volume di poesie che recupera le due precedenti raccolte pubblicato contemporaneamente dall’editore PeQuod), Il primo orizzonte si propone come una parabola di approfondimento dei temi presenti nelle opere precedenti. Il termine parabola non vuole essere qui usato in senso improprio: descrive uno stato di fatto, un percorso che si innalza e ridiscende, compiuto un cammino rilevante nel campo della ricerca linguistica e dello scavo dei sentimenti. Come rileva Luigi Surdich nell’introduttivo Gli angeli e la «solitudine di una penna»: «Nella linearità della scrittura si ricompone ... un tracciato di  ricerca discontinuo e oscillante, tra impulsività e controllo, tra passione e disincanto, tra volontà di misurarsi col presente e con la concretezza e fuga dall’imperfezione  e dall’inefficacia della mimesi diretta del reale». Per questo motivo, il ‘tracciato di ricerca’ della poesia di Deidier è tutto ripiegato sulla volontà di una scrittura che  riposi su se stessa e riesca a scandire un percorso di conoscenza e di approfondimento di un Sé che emerge compiutamente dispiegato in esso. La poesia di Deidier  è, infatti, una poesia fatta di pieghe e di pieni: approfondisce il passaggio attraverso la parola per trasformarla in un viaggio  ai limiti delle sue possibilità. Il testo d’apertura ne è spia imperiosa: la «curva d’assedio del  pensiero» del primo verso rimanda all’«orizzonte» dell’ottavo e la stanchezza dei corpi (simboleggiata dal  «piede») e della mente (rappresentata dall’«occhio») non basta a impedire il passaggio e la prosecuzione del percorso  verso il cielo: l’«angelo impigliato nella storia» (simile in questo a Daniel o a Cassiel, i protagonisti di Himmel über Berlin  di Peter Handke e Wim Wenders ma anche al vecchio albatros dei marinai) non è più capace di volare ma porta sul dorso ancora le proprie ali. Per Deidier è questa metafora a simboleggiare l’approccio alla pratica della scrittura  poetica: cedimento e stanchezza, inflessione e scoraggiamento, impossibilità di concludere il proprio viaggio nella parola fino a piegarla compiutamente al proprio  orizzonte di  visione non sono però tanto forti da impedire alla poesia di salvarsi e salvare, contemporaneamente, il suo ‘portatore sano’. Conferma ne è il ricorso a  Orazio (tra i padri della poesia come strumento di salvazione del poeta) al quale è dedicato uno dei testi più belli della raccolta  sotto veste di rifacimento del Carme II, 18, Non ebur neque aureum (pp. 40-41). La certezza della morte non basta a umiliare il ricco e porlo sullo stesso piano del misero; è la poesia la sua forza interiore che  segna la differenza tra il poeta e gli altri uomini e gli permette di opporre la postrema resistenza al mare montante dell’oblio. Deidier ha una concezione forte della poesia come scrittura dei sentimenti e della soggettività: nelle sue parole, montalianamente, l’Io che scrive è  «[...] la media stagionale delle maree, / Un punto tra due bordi d’acqua; / È così breve il mondo a cui somiglio, / Una toppa  ostruita dalla chiave / rimasta spezzata». Compito della poesia è quello di riparare non la chiave ma la toppa della porta, liberandola  da quanto impedisce al flusso della conoscenza di liberarsi. È questa la più interessante tra le possibilità rimaste a chi scrive, alla «[...] solitudine di una penna / Il cui inchiostro divide ogni esistenza: / Ferro e legno, foglia e sasso, / Vetro e muro, sguardo e indifferenza, / E così addestra sulla carta un dolore, / Un  solo foglio per ieri e per domani». La poesia si compara quindi al «primo orizzonte »: quello che si rivela agli occhi di  ognuno al sorgere del sole e comprende tutti i viaggiatori che solcano le strade del mondo. Esso accomuna tutti e concede di vedere ciò che basta a vivere e a soggiornare nell’arco comune dell’esistenza. Scrivere è allora un atto di fiducia nel futuro che porterà all’Io nuovo conforto: «Tornerà  vento di terra / verrà la pioggia / Altra vita conterrà questa chiusa vita. / Uscirai infine dal tuo tempo sospeso / Con il passo certo di chi si dà conforto». Con questo gesto di  apertura alle possibilità della poesia, sembra dire Deidier, l’atto di scrivere aspira a rovesciarsi in esperienza di vita, invito alla pazienza per il tempo presente che rimanda forse la realizzazione del sogno  alle generazioni che verranno.

 

(Giuseppe Panella)

 

 

 

IGOR DE MARCHI, Resoconto su reddito e salute, prefazione di Umberto Fiori, Portogruaro, Nuovadimensione 2002, pp. 96, s.i.p.

 

In questo secondo libro di Igor De Marchi (Vittorio Veneto, 1971) scorre molta vita, ben oltre i toni suggeriti dal titolo – quasi da parametro ISTAT, «reddito e salute» – che potrebbe sembrare (ma non è) ironico e minimalista. Ma accanto alla possibilità lasciata alla poesia di dire qualcosa della vita è importante avere presente come nei versi di De Marchi la morte possa instaurarsi in quanto orizzonte di senso: «Ho sorpassato in autostrada / un camion di maiali. / Qualcuno se ne stava accovacciato / dentro la sua palude. / Qualcuno con il grugno fuori / dalle sbarre lasciato al vento. / Qualcun altro rosicchiava le sbarre / per addomesticare l’appetito. / Io non sono come loro, mi sono detto. // E poi: / qui, chi per me /  può dire / dove finisce l’a caso del macello/ e dove inizia invece / l’equo appezzamento  dei tagli?». Ma non c’è nulla di scolastico nel ‘realismo’ di queste poesie. Pertinente è semmai pensare a una ‘poetica’ degli «occhi asciutti» quale conosciamo attraverso Sbarbaro e soprattutto la strana e inevitabile rivoluzione dello sguardo avviata dalla poesia di Umberto Fiori (prefatore del volume), che ritroviamo in Passeggiata sul fiume: «L’acqua è trasparente e riflettente. / Mi sono appostato immobile, / non mi sono fatto scorgere. / La trota è salita a pelo d’acqua / tranquilla,  come fa sempre / quando sa cheattorno tutto è a posto, / che non ci sono  pericoli. / Fa un mezzo giro e ritorno, / come un gioco solitario / e apre la bocca nell’aria. // Io guardavo: non le avrei fatto  nulla / e non potevo farglielo sapere». Bastano la trama sonora e la metrica di questa poesia, con quel finale così apparentemente ‘banale’ ma rivelatore, a dissipare il dubbio di trovarci di fronte a nuda ‘prosa’ versificata. De Marchi propone, certo, un apprezzabile insieme di componimenti dall’andamento narrativo, ma questa considerazione non deve prevalere nell’avvicinare un’opera che,  testualmente, introduce alcune trasgressioni semantiche e scarti tutt’altro che semplici. Si veda per esempio l’uso transitivo del verbo ‘appartenere’: «della maniera che hai di appartenere / cose diverse», o ancora un caso di disarticolazioni sintattiche come : «Di quel modo che ha la lucertola / a sangue freddo / di prendersi la vita, / facciamo talvolta la nostra casa». Ci si soffermi ancora sulla metrica dei testi, che restituisce, anche ai componimenti più ‘prosastici’, un respiro di falsetto parodico, per il quale si potrebbe richiamare l’opera poetica di Brecht. «Io sono io e la mia circostanza» recitava un aforisma di Ortega y Gasset. De Marchi pare sposarlo appieno. Dietro reddito e salute ci sono la fantasia e la creatività che solo una costrizione data (le regole del guadagnarsi  da vivere su sfondo quotidiano del Nordest) sa mettere in atto, la forza di saper dire «Ognuno piange i propri morti. / Ciascuno il proprio / per non piangerne più nessuno».

 

(Alberto Cellotto)

 

 

 

NELVIA DI MONTE, Ombrenis (Ombre), prefazione di Franco Loi, Roma, Zone Editrice 2002, pp. 88, € 9, 00.

 

Nelvia Di Monte ha cominciato solo recentemente a utilizzare il friulano, ma da «straniera», come «lingua di un divieto, di una lontananza, di una perdita» nella quale identifica un che di inattuale, da intendere «proprio nel senso letterale di ciò che non appartiene alla mera attualità, alla moda, all’effimero: qualcosa di denso, di opaco, che resta sul fondo e che non si può cancellare perché è impastato alla stessa materia del mondo» (N.D.M., in Diverse Lingue,16, 1997). Coerente con la sua poetica della ‘realtà’, emersa nitidamente nei bellissimi Cianz da la Meriche (Canti dall’America, Firenze, Gazebo 1996), dove affidava a lettere di emigranti le memorie della terra e della lingua friulane, mischiate con storie di guerra, di fame e di sradicamento («Nikolajewka: fevelàvial / cualchidùn la mê lenghe? / Dulà ise / la femine che mi à butât dongje dal pît / une patate cjalde?», ‘Nikolajewka: parlava / qualcuno la mia lingua? Dov’è / la donna che mi ha buttato vicino al piede / una patata calda?’), in questo libro la Di Monte si ispira a ‘banali’ fatti di cronaca. Il poemetto che dà il titolo all’intera raccolta ed è strutturato come un testo teatrale, scandito in due cornici e quattro incontri, ruota attorno al suicidio di una sconosciuta, che dopo essersi lasciata scivolare una sera nelle acque di un fiume, partendo dalla conclusione del proprio segmento di vita (Scuasi une fin: ‘Quasi una fine’), fa affiorare il suo dramma in un muto involontario dialogo con quattro figure femminili immerse nei loro pensieri lungo le sponde di quello stesso corso d’acqua. Le sue parole oltrepassano le rive del fiume e quelle del tempo: alle soglie del nulla i fili di cinque vite si intersecano per qualche istante; cinque persone si interrogano sul senso del proprio esistere. Quel senso che la protagonista di Ombrenis non è riuscita a trovare. La sua era «la pôre – no sai – / di piardi e scomenzâ // masse o masse pôc: par vivi / no cjatavi misure» (‘la paura – non so – / di perdere e ricominciare // troppo o troppo poco: per vivere / non trovavo misura’). Fare un passo indietro, «tal grump de vite» (‘nel mucchio della vita’) non è stato possibile. Eppure, nel finale, che non senza ragione s’intitola Viars il princìpi (‘Verso l’inizio’), tutto sembra ricominciare daccapo, perché il cerchio della vita non si chiude mai veramente («si riavvolge al contrario la vita»). I personaggi di questo singolare poemetto filosofico, denso e profondo, rappresentano altrettante tessere di un mosaico esistenziale andato in pezzi. Perché, come dice uno di loro, «o sin duc’ discompagnâts, / modons di un paîs ch’al crès e al mûr / e – tal miez – sbregos di cîl» (‘siamo tutti scompagnati, / mattoni di un un paese che cresce e muore / e – nel mezzo – strappi di cielo’). Riordinarle forse si può, ma solo in quell’inesistente tempo aggiunto, una Spoon River gelida e fangosa come le acque del fiume che rotolano sulla voce narrante in «cheste gnot / ch’e distude stelis sot de cinise» (‘questa notte / che spegne stelle sotto la cenere’). La lingua utilizzata dall’autrice, la koinè, con varianti del basso Friuli, dà una connotazione timbrica aspra molto particolare alle voci femminili. Il medesimo registro espressivo cifra anche i testi brevi della seconda parte del volumetto, Ritarts (‘Ritardi’), ispirati essi pure a microdrammi del quotidiano e annodati insieme dalla tematica dichiarata dal titolo. A dominare la scena qui è proprio lei, la Siore, la Signora, metafora della morte, che se ne sta tranquilla nel bar di una stazione, dove gli smarriti caproniani viaggiatori della vita sostano tra un’attesa e l’altra, e aspetta le sue vittime, con la certezza della vittoria finale («...jo o stoi ferme: / timp o tart al vignarà ben lui a sbati / dentri la sô muse, falant colp, forsi // une sviste, un lizêr indurmidîsi / e al è tant facil sbagliâ stazion», ‘...io sto ferma: / prima o poi verrà ben lui a sbattere / dentro il suo muso, confondendosi, forse // una svista, un leggero appisolarsi / ed è così facile sbagliare stazione’, Polse, ‘Sosta’).

 

(Anna De Simone)

 

 

 

GABRIELE FRASCA, Rive, Torino, Einaudi 2001, pp. 190,9,30.

 

Diceva Cecchi di Ulysses che Swift si sarebbe divertito un mondo a leggerlo. Si sarebbe divertito Joyce a leggere questo libro di Gabriele Frasca? Probabilmente abbastanza (si immagini magari un Giacomo Joyce installatosi non nell’asburgica Trieste ma a Posillipo). La domanda può sembrare impertinente e vuole invece essere liberatoria. Al modo di Cecchi, che quasi clandestinamente, e prima della pioggia delle teorie, sottolineava la componente umoristica (non soltanto parodica) del grande libro, ci si dovrà ormai domandare in presenza della seconda raccolta einaudiana dell’autore e di quella che è contemporaneamente la sua maggiore prova narrativa, il romanzo Santa Mira (Napoli, Cronopio 2001), se al di là dei raggiungimenti acquisiti all’interno della ‘letteratura di ricerca’, se insomma, oltre il proprio progetto, l’opera di Frasca tiene alla lettura. Dunque per leggere Frasca dobbiamo innanzitutto sintonizzarci su «una lingua fatta di immagini ritornellate nel loro tentativo di prendere forma» (così l’autore stesso nel saggio introduttivo a Samuel Beckett, Poesie, Torino, Einaudi 1999, p. 293, riprendendo Deleuze e la sua definizione di ‘Lingua III’ del sistema beckettiano, e altrove Frasca parla ancora delle «risonanze formulaiche del Finneganswake»), perché fondamentale appare distinguere, dal punto di vista formale e teorico-percettivo, il concetto di tempo che la governa. L’aspetto formulaico e ‘para-litanico’ di tanta parte dei componimenti del libro è soprattutto effetto della sintassi: catene di subordinate precipitano cascando (beckettianamente) le une sulle altre e al passo, si direbbe, della struttura metrica, quasi fosse, vichianamente, il verso a precedere la parola. Come se la necessità di incatenare terzine (triti, rivi), di adeguare la voce all’oratoria lenta della canzone iniziale (nove stanze di ventisette versi tutti endecasillabi), o di ben oliare il ‘consueto’ meccanismo dell’effetto sestina (qui presente nella novena, ma a livello macrostrutturale, i titoli delle tre raccolte poetiche di Frasca, Lime, Rame, Rive, sembrano altrettante parole rima di sestina, in disponibilità insomma almeno teorica di almeno altri tre libri-posizione...), determinasse questa fuga in avanti della frase. Altre misure sono comunque impiegate come altrettante evoluzioni/applicazioni di questa ‘furia della sintassi’ (così il titolo del libro di Frasca sulla sestina, Napoli, 1988) il cui nucleogenerativo sembra comunque risiedere stabilmente in un respiro metrico regolato (l’autore si è più volte espresso in questo senso). Il polso può dunque espandersi nei versi lunghi di a rotoli («stasera ritorna la sera che un maggio diperse sfumando / nell’ultimo rosso del cielo con gli ultimi lembi lucenti», sorta di variazione sulla nota unica tenuta dall’elettrodomestico: «e dentro il basso / continuo del frigo risuona dei tanti rimorsi segreti»), o contrarsi nel loro pendant, i  versi brevi di rivoli (sul modello beckettiano di Rockaby). Si può bloccare sulla musichetta di Molli, quartine di endecasillabi tutti ritmati alla stessa maniera mimeticamente scazonte (2a, 5a, 8a, della caduta e del faticoso riguadagnare casa di una vecchia sciancata, sorta di clocharde, si tratta). Può colare nello stampo di quella ‘chiusa infinità’ costituita dai sonetti, il cui fascino quasi figurato, ‘araldico’ (come va ripetendo Andrea Cortellessa), risiede anche nell’effetto di fermo immagine sul flusso della lingua-tempo. O minimizzarsi epigrammaticamente nell’esperimento delle Intime infime (da McLuhan) germinato dalle beckettiane poesie della serie dello Pseudo-Chamfort, riproposta in Lime (Torino, Einaudi 1995) «operazione di ‘minorazione’ musicale della lingua» (una prima volta attivato nelle Minime massime da La Rochefoucauld di Rame), in cui abiterebbe «lo sfrigolio di una mezza risata (o un quarto di sorriso...)» (così nel commento a Beckett, Le poesie, p. 292). Ma frequentemente il battito può prendere il passo di una prosa a suo modo numerosa (nata dalla metrica), come nel caso degli scintillanti magnifici orologi, ‘prosa a scatti’ in cui gioca un ruolo fondamentale l’addentellato del punto metrico, espediente prosodico/ tipografico (già in Lime) che se ricorda da un lato la prassi scrittoria degli antichi canzonieri manoscritti suggerisce l’esistenza di una sorta di bip sovrasegmentale rispetto al numero, quasi appartenendo al fondo stesso della lingua ed emergente ad incontrare, nella forma, il metro. È un procedimento dunque che compare anche all’interno di verso nelle poesie ‘regolate’ (su un altro livello pensiamo all’uso dello slash nella poesia di Fabrizio Lombardo), e che riaffiora anche nei momenti lirici o meglio, ‘cantati’, del contemporaneo Santa Mira: «Già, il cielo. Il cielo che è quel posto dove niente. Niente. Ma proprio niente. È come qui.», a riprova del fatto che la partita si gioca ugualmente e in buona sostanza sul piano della lingua. Presente ancora nella ‘veglia’ della prosa slumberland (veglia finneganiana, situazione ‘chiave’ del libro, tra deriva e adequazione formale a un flusso; vedi anche l’attacco di rivi, con esergo dal Finnegans: «rivà veloce come verso il vuoto / rovinano le solide strutture», e rotoli: «...la rabbia furiosa del flusso / che induce qua giù a girare / fra tumide masse / ad ogni minimo influsso / sul culo / per quanto insulso / sia questo ruotare /  sull’asse / e questo continuo rinculo...»), il punto metrico manca invece nelle otto strofe-sequenza in prosa di blasto, ‘germe’ embrionale linguistico e psicologico, corrispettivo di laboratorio dell’onnipresente nella raccolta e dantesco lessema seme. Sulla traccia suggerita dall’esergo preso dal famoso «Escotatz, mas no say que s’es, / senhor, so que vuelh comensar », di Raimbaut d’Aurenga, componimento che l’aristocratico principe d’Orange diceva appunto non sapere se era prosa o verso quanto veniva scrivendo (la dimensione romanza, modernista e progettuale, si incontra forse in Frasca antropologicamente con quanto sosteneva il vecchio Vossler circa la sensibilità innata dei popoli latini nei confronti della forma), il ritornellato «ciò che non so cos’è che sia» si avvolge alle spire fluide di un essere nascente. Ma una lettura di blasto, proprio per questa sua dimensione anfibia, si rivela istruttiva anche in termini di definizione del soggetto, che viene quasi nascendo per scissione dell’embrione, si direbbe, sotto i colpi della «roncola dell’è ». Fondamentale è l’intacco tra la forma retorica e le forme del sé, nel distacco di «quella parte di me che s’indurì nel tempo», dove il soggetto che nasce, fondamentalmente per blastogenesi, è già vecchio e segnato dagli anni («lì dove sto a bere i miei caffè sempre un po’ più vecchio »), stratificato e già finito («questa è la tua complessità cellule morte che si tengono cosí per strati e poi fanno sostanza in te»), replicante («tu se mai sei qualcosa sei malgrado te ... riverrà», e torna il solito lessema rivà), inutilmente resistente («quel fesso che smaniando identità se ne andrà tutto nelle smanie sí delle sue smanie»), e, insomma, una terza persona staccatasi dall’io, a rischio di un duro risveglio di annientamento: «...al punto che eccolo qui eccolo che verrà anche per lui il sonno del risveglio anche per lui la fine dell’imbroglio e sarà spento sí quel tenue abbaglio che l’accecò per farlo stare sveglio e steso lí sottile come un foglio nell’infinita veglia sulla soglia su cui si scioglie questa voglia sí». Dove se il referente immediato è certamente il finale del celebre B movie di Don Siegel, L’invasione degli ultracorpi, in cui gli abitanti di una tranquilla cittadina della California si risvegliano trasformati in replicanti extraterrestri (e vedi anche, scopertamente, in Santa Mira, che lo ricordiamo è contemporaneamente nome del luogo d’azione del romanzo e del film di Siegel: «t’è mai  capitato di pensare che anche noi non siamo più noi? Come se anche a noi, o a ciò che siamo stati, avessero sottratto il corpo? ... a volte sento soltanto di essere una copia di me, e nemmeno troppo fedele»; al film di Siegel Frasca ha dedicato il saggio La scimmia di dio, Genova, Costa & Nolan 1996), la chiusa «su cui si scioglie questa voglia sí», se ha la veste del celebre orgasmico di Molly Bloom, molto più sembra un sussulto di meccanismo inceppato o strozzato da improvviso blackout o fine di batteria, se non anche un brusco commiato, come nell’antifrastico singhiozzo della chiusa della poesia funebre beckettiana di Malacoda: «aye, aye, / nay». Sembra allora potersi cercare in questi paraggi la chiave umoristica che suggerivamo (altro è l’umorismo virtuoso e stilistico sul tono dell’invettiva nei molto danteschi e insieme tristamente giocosi fenomeni in fiera), la figura che continuamente, ammiccando, nasce, e non sai se resiste o dormirà (naturalmente resiste, come si evince per esempio da uno dei testi più diretti del libro, il sonetto in memoria di Vittorio Russo, sorta di ‘morte di un dantista napoletano’), ma alla quale il passare degli anni ha dato i caratteri di una proiezione autobiografica nei panni quasi di un clochard beckettiano. Così, galleggia sugli umori, il personaggio della canzone che, al risveglio, sacramentando, vede se stesso come un doppio: «uno finisce che si sveglia e trova / solo il tempo d’alzarsi che s’accorge / che c’è qualcosa intorno che non quadra / e non sa bene cosa e scruta e squadra / tutta la casa che gli sembra nuova / strana e tornato accanto al letto scorge / dalle coperte una mano che sporge / chi cazzo sarà mai miseria ladra / si dice e s’avvicina e intanto prova / a capirci qualcosa poi solleva / pian piano le coperte finché emerge / un corpo cristo è il suo... ». E questa mise en scène per cui il soggetto non è più meramente linguistico, come invece quasi ‘naturalmente’ nelle scritture di avanguardia, e nemmeno semplice corpo-recettore di sensazioni, sembra uno degli elementi nuovi del libro rispetto alle raccolte precedenti. Certo, in zona di avanguardie italiane un Sanguineti ha comunque sempre funzionato da garante della vecchia soggettività, tra comunismo e liberty come gli è stato malignamente rinfacciato. Ma quanto sembra impedire a Frasca di capitombolare dal filo teso tra fantascienza e liberty (ah il vero anarchico della letteratura di massa, Philip K.   Dick!), o, altrimenti detto, tra struttura e autobiografia, dove la prima è talmente coesa e giustificata ideologicamente da poter suscitare talvolta irritazione (soprattutto per sentimento di esclusione noniniziatica), la seconda documento antropologico dell’esistenza del clerc poeta che si spella impiegatizio i polpastrelli, trita carne, sui tasti del computer (e carne, come seme, è un’altra delle parole chiave del libro), è quella voce da dentro («ehi mi senti. mi senti. sono vivo.», quasi gridando da dentro la macchina dei versi, ed è grido che risuona almeno a partire dal sonetto da Quevedo di Rame «ehi della vita chi mai mi risponde») che esce dagli ordigni di cui l’Opera si compone. Usciva dantescamente mugghiando dai metalli di Rame, rimbalza tra le rive del fiume finneganiano, prendendo la forma modernista del monologo interiore, si fa strada ormai come voce individuale di quel classicismo paradossalmente ma necessariamente manierista, vivo oggi come sempre all’interno della tradizione italiana, garante, speriamo, contro ogni restaurazione, sia questa quanto si vuole illuminata.

 

(Fabio Zinelli)

 

 

 

NICOLA GARDINI, Nind, Borgomanero (NO), Edizioni Atelier 2002, pp. 76, s.i.p.

 

Un libro di esercizi e sinopie. Per la presenza importante di traduzioni/riscritture alla Lowell; perché studiatamente ‘trifario’ (come i libri di Bandini e il recente Carbones di Michele Sovente, per il quale vedi infra), italiano, latino (vedi per esempio la deliziosa elegia De rursus inventa imagine sui, su una fotografia dell’autore bambino), molisano; perché infine, proprio le parti molisane hanno il loro pendant (si tratta a volte di veri e propri cartoni come Zà Càrm’na Marì) nel recente e notevole romanzo iniziatico Così ti ricordi di me (Milano, Sironi 2003), dove il dialetto valica ampiamente lo spazio della mimesi per esplorare fondi magico-antropologici. Il niente del titolo è allora fatto un po’ del nind infantile e cantilenante di «e nissciun’ po’ sapè / quanda ghè bbèll nu nind» (‘e nessuno può sapere quanto è bello un niente’), degli endecasillabi baciati dell’inno secentista al Nulla (da Edward Taylor), della meditazione sulle note di Wallace Stevens di: «Ascolto e, niente io stesso, / fisso il niente che non c’è / e il niente che è». Tanti niente, per provocare la nostalgia, vera musa del libro, traguardo e fine dell’allegoria, come in quelle rose a dicembre, così kitsch e familiari, dischiuse dal calore della canna fumaria, «quasi le spingesse quell’alito che le anima / a morire, a fiorire in questa / primavera che non è / ed è soltanto per non essere mia».

 

(Fabio Zinelli)

 

 

 

ANDREA GIBELLINI, La felicità improvvisa, Milano, Jaca Book 2001, pp. 79,8,26.

 

Ci si accingesse a scrivere un seguito al saggetto di Pasolini Officina parmigiana, valicando però il limite topografico della stretta bottega cittadina del maestro, Attilio Bertolucci, uno dei primi ruoli se lo guadagnerebbe Gibellini per questa raccolta. Si vuole dire che ci sono casi in cui approda a riuscite non epigonali chi sa intingere il pennello in certe tavolozze (vedi un testo come Piccola elegia per Roma lontana, ma non si vuole negare la presenza di altre vene e influssi, principalmente anglosassoni, dunque in territori non lontani da quelli battuti dal maestro). Al di là del lavoro sui colori, quello sui ritmi, anche se meno mossi per inarcature e meno epicamente ‘sprung’, per cui sull’epos del quotidiano la vince il quotidiano, ma con la possibilità di acuti di buona lega come: «altri anni ancora a scavalcare questa luce forsennata del mattino».

 

(Fabio Zinelli)

 

 

 

ANDREA INGLESE, Inventari, con una nota di Biagio Cepollaro, Rapallo (GE), Editrice Zona 2001, pp. 96, € 7,23.

 

La silloge di poesie di Andrea Inglese presente nel Sesto quaderno italiano di Poesia contemporanea (Milano, 1998, cf. Semicerchio 20- 1, 1999) si apriva con un ormai tradizionale contratto col lettore, una poesia di poetica intitolata L’erista infelice. L’erista, ovvero colui che attende alla confutazione di qualsiasi affermazione, sia essa vera o falsa, non sarebbe il poeta bensì l’immaginario interlocutore cui sembra rivolgersi l’io ragionante. So che l’erista non approverebbe – dice in sintesi la poesia – so di non avere risposte o affermazioni inconfutabili, tuttavia io continuo imperterrito a ragionare, ovvero a parlare e a scrivere, perché solo così io sopravvivo, rimandando continuamente «l’esecuzione cruenta del mentitore». Il poeta è un mentitore, sia esso un affabulatore alla maniera di Sherazade, oppure, come Cisti fornaio per Geri Spina, uno capace di ‘rimettere gli occhi dello intelletto’, cioè di far riflettere l’ascoltatore. Il poeta mente, ovvero scrive per motivi pratici, radicalmente estranei ad ogni ontologia e non per questo meno cogenti. Sono motivi sociali, analoghi a quelli che spingono Chichibio a costruire le sue invenzioni verbali ad uso di Currado Gianfigliazzi, com’è esplicitamente dichiarato nell’Erista infelice: «Io ragiono / non per le verità eterne / le leggi profonde della storia / ma per spostare l’accento / d’umore del tiranno / come Chichibio salvarmi / con giochi di parole». Inglese si colloca così, con la sua ostentazione di consapevolezza (del valore convenzionale e intersoggettivo della lingua e della letteratura; della possibilità di fondare la comunicazione su una base eticopragmatica) all’interno del moderno allegorismo poetico, a fianco dei compagni di strada di Baldus e quindi del cosiddetto Gruppo ’93. Il libro degli Inventari non è introdotto da dichiarazioni di poetica, e l’autore saggiamente resiste alla tentazione di allegarne in fondo al volume. Ma in questo caso il titolo vale più di qualsiasi manifesto, e serve a collocare più esattamente il libro nell’orizzonte individuato. Perché l’inventario è un ordinamento arbitrario e convenzionale (convenzionale perché arbitrario) che interviene a dare una sistemazione – generalmente seriale – a un caos preesistente, originario. Lungi dall’eliminare o negare il caos, l’inventario lo riconosce per confinarlo in un orizzonte controllabile. L’inventario conferma  il caos, attestandone l’insensatezza senza però rinunciare alla partita della comprensione, sia pure limitata, che cerca la sua validità nell’efficacia e nel rapporto intersoggettivo. Non saprei dire se dietro al titolo si nasconda la ricerca di una funzione del poeta e del poetare – l’addomesticamento del mondo? –, ma di sicuro il problema incombe e questo libro ne è un’allegorica rappresentazione: la messinscena d’una ricerca inesausta e inesaudita, che trova nell’inventariare una delle sue declinazioni. Quando Inglese tenta d’inventariare il rapporto amoroso (più che egregiamente l’amplesso), la donna – il suo nome – ci appare come il punto di fuga di ogni senso, di ogni direzione, di ogni verso: «Sono chiuso in un diamante di frasi / tagliate nette, dentro cui il tuo nome / ritorna: scossa di sonaglio, timpano, / nel variopinto errare della danza, / monotona cadenza, ipnosi, mantra, / mitraglia che al pensiero il verso / toglie, il senso, l’arco logico, e benda / di luce ogni tua visione» (p. 43). Non produce, la donna, un verso senza pensiero, ma un pensiero senza verso, dove il verso è a un tempo la direzione e la ‘versura’, l’a capo, il segno privilegiato della poeticità. Un’ambiguità che si scioglie qualora si intenda la contorta verticalità della poesia come la sola possibilità di conferire un ‘verso’ al mondo, ovvero ai discorsi degli uomini in cui il mondo parrebbe risolversi. La poesia dà senso al pensiero, in quanto la sua evidente convenzionalità – il suo essere allegoria della convenzionalità stessa – l’autorizza a non nascondere la funzione eminentemente sociale della lingua. La poesia è una forza contraria al puro nome della donna, che tuttavia viene assorbito e messo in scena dalla poesia, viene non razionalizzato ma reso comprensibile, quindi condivisibile. La poesia d’apertura del libro, l’Inventario dell’aria, torna su una frequentatissima cadenza dannunziana per imbastire un fittissimo e mimetico rincorrersi di suoni. Piove polline dal cielo e tutto viene avvolto e travolto dalla sua melassa bianca, mentre il lettore è travolto da una pioggia di sdrucciole variamente incatenate: «Nevica ora polline e luccica come manna / in alpe d’ocra incendiata, nevica / controluce albumi di lana come in taciturni / campi di cotone, le lanugini, i bioccoli, / nevica in cenni di ciclone, in baraonda di luce, / nevica fiamme di soffioni, fiocchi, grappoli / d’aria / ... le gonne / ombrellano atomi d’ovatta, s’intana  rapida / una polvere tra le trine che inguantano/ l’inguine, e le spore più rade nel pube / spannano, dove io le seguo, fiutando / l’incenso delle carni che ribollono ». Non c’è fonosimbolismo; semmai un abile sfruttamento della dimensione fonica della lingua. Le figure di suono sono una parte della retorica, quindi persuadono, convincono, veicolano sensi (non il senso) giusto il tempo che occorre perché l’erista infelice non li distrugga col suo nichilismo. È quest’aria che soffia il vero leit motiv del libro.

 

(Simone Giusti )

 

 

 

LORETTO MATTONAI, (l’) una soltanto, Firenze, Gazebo 2001, pp. 44, s.i.p.

 

Dato luogo alla luna, grande, ma «luna soltanto», poiché con la «civetta illune» si parteggia, opponendo alla «stellare / crudeltà delle colombe» il proprio umbratile canto, la raccolta di Mattonai procede, fin dal titolo, sul bisticcio linguistico, sulla dissimilazione-assimilazione dell’articolo di chiara tradizione petrarchesca (l’aura- aura). Ne sono infatti protagonisti tanto una ricca fauna di piccole creature diurne e notturne (gioco facile riconoscere coppie in antitesi classica: rondine-usignolo; cicala-grillo), a scandire il tempo nettamente diviso in queste due opposte realtà (non solo temporali, ma poetiche), quanto «l’una soltanto», esclusiva figura femminina, ché, per modulo canzonieristico, «altra non v’à parte». Al sole, quello di estivi meriggi dannunziani, la terra formicola di minuscole presenze, di cui spesso non si ritrova che una labile traccia; e sono «le / mosse di una volpe intorno al laccio», il tendere delle vibrisse di un gatto, «lo strofinìo di una cicala chiusa in duomo» a rendere l’idea di come la vita sibili e manifesti a scatti la propria essenza. Esterni e interni, ognuno col suo feticcio animale; i ricci o i grilli delle Occasioni montaliane a sancire il limes tra focolare e orto; laddove distanze siderali si colmano nel cuore della notte grazie a un dialogo tra terreni e celesti che si fa possibile solo in quest’ora. Il numero diviene indizio di corrispondenze: «sei gatti con l’unica femmina / a far l’accoppio... ‘sette Pleiadi un poco più sù’ a graffiarti il dorso». Questa l’ora in cui rendere domestico ogni spazio cosmico: «Pergolato di stelle, pigolìo di / galassie...» e, cosa ben più ardita, conciliare il diario all’elegia, l’Ungaretti di Stasera al poeta di Notizie dall’Amiata. Quanto all’esito del canzoniere (che si concentra nell’ultima ventina di componimenti), l’assenza dell’«una soltanto» si scopre essere non accidente canonicamente occorso a metà dell’opera, ma essenza stessa di questa, mancanza rilevata col «balzare tra i denti parole d’altri», un’eco dal Foscolo più luttuoso, variata proprio nel verbo, a significare il potere autoreferenziale nonché consolatorio della poesia: «Solo questo mi basta: che il tuo / vivere tuttora priva di me, il non / esserci incontràti ancora, e l’un / dell’altro il fare senza // divengano i puri nodi, oramai / confessi, di una stessa risolta / pazienza».

 

(Francesca Latini)

 

 

 

ANTONIO MARIA PINTO, Sonàr, introduzione e commento di Francesco Muzzioli, Roma, Le impronte degli uccelli (via S. Michele 11, 00153 Roma) 2002, pp. 43 (s.i.p.).

 

È noto come Gide rifiutando la definizione di roman alla maggior parte dei suoi romanzi (con l’eccezione dei Faux monnaieurs) abbia sottotitolato Les caves du Vatican, une sottie. Così facendo, un genere comico medievale veniva suscitato per descrivere una (ma fosca, dostojevskiana) commedia di caratteri e costumi. Il traguardo era sempre quello di agganciare il comico alla morale, e oggi ancora il problema, dopo gli abbondanti recuperi di ‘stile chioccio’ operati soprattutto nell’area della cosiddetta ‘letteratura di ricerca’ (o ex-avanguardia, dato che tutto prende avvio dalle Malebolge di Sanguineti), si pone nei termini di preservare all’impiego di tale gamma stilistica l’intenzione comica, schivando le secche del moralismo-e-basta (ammettendo però che ciò che per Dante era ‘comico’, è ormai per noi il più delle volte stile ‘tragico’). Questo per dire che la corona di dodici sonetti (declinati metricamente secondo figure anche extracanoniche) allestiti da Pinto con la collaborazione di Francesco Muzzioli autore di commenti insieme liberi e puntuali, disposti pezzo per pezzo come un testo a fronte, pur affrontando temi di macelli e corruzioni del mondo contemporaneo, se ne esce in sostanza in buon equilibrio tra invettiva e carnevale. L’idea è quella di rovesciare una lingua fatta di gergo burchiellesco, e degli accostamenti pre-boschiani (Hieronimus Bosch) delle fatrasies, alla ricerca di un senso attraverso il nonsense. Sembra infatti che nel breve volgere di questo poetico carnevale che intreccia alle pieghe più inattese della lingua di tradizione abbondanti sortite veneziane (tra Giorgio Baffo, ma soprattutto il Casanova di Fellini/ Zanzotto, vedi anche «Con cauti guardamenti la giudecca / sommersa guata lemme la balena») e impasti ispano/franco- maccheronici, secondo i modi del descort plurilingue medievale, l’autore giochi una partita più libera di quella ingaggiata, nel segno di una articolata dimensione giullaresca, nella raccolta maggiore, Istoriette (Lecce, Manni 1999), dove il ‘tremendismo’ giunge a sfregi quasi pasoliniani, con le petrarchesche «Chiare, fresche e dolci acque» profanate dalle «Acque scure di bettola». L’invitation al viaggio testuale prende così avvio dalla melodica barcarola veneziano-spagnola: «Andémo, galantomo, / que la pequena barca / xe de martuffi [idioti, ma fools?] carca», e prosegue dopo tanto anche fieristico invito («venghino signori venghino », commenta Muzzioli, e pensiamo anche alla scena della grande Mòuna, sempre nel Casanova, per la penna di Tonino Guerra), tra mostri sessuali, scatologiche buccine («botto osé del cul del re»), rumorosi notturni («Luna falcata sornacchia sul core»), sfide iperboliche («Mademoiselle, xe el carnaval! / mal bonito, amour brûlé, / madre Morte che non c’è»), diaboliche ricette («Di noci e pistacchi ripiena ranocchia», e l’«abbacchio scortato da minchie a tocchetti» uscito, si direbbe, da un film di Greenaway). La barca contorna invelenita gli scogli difficili degli inferni militari e massmediali per finire nuovamente in musica e serenata, sulla «playa de la mort». Sul medioevo è passato il barocco, sul carnevale una metafisica paura: «Su sta palla plorosa possedette / certa certanza dell’anima niuno, / niuno crepò non pavendo il digiuno / dei vermi nelle bare benedette».

 

(Fabio Zinelli)

 

 

 

GIOVANNI RABONI, Barlumi di storia, Milano, Mondadori 2002 (Lo Specchio), pp. 80, € 9,40.

 

Cinque sezioni numerate e disuguali (dopo la prima, monodica, la seconda e l’ultima, corpose, ne incorniciano due più esili), si dividono trentacinque testi, fra cui quattro componimenti datati fra il 1988 e il ’93 e due prose. Le poesie, tutte anepigrafe e monostrofiche (da 8 a 30 versi), sono tessute costantemente delle misure classiche della tradizione (endecasillabi, settenari, e anche novenari), solo qua e là ipo- o ipermetriche, ma ampiamente sfruttate, per così dire, nelle loro ‘potenzialità marginali’ di realizzazione, ovverosia tronche o, soprattutto, sdrucciole, e spesso scandite da una prosodia non canonica (per il principale dei versi numerosi gli accenti di quinta). L’attenuazione ritmica è completata dai frequenti enjambements e da omofonie limitate ad assonanze e consonanze (con qualche rima al mezzo e ritmica), sicché l’imbastitura a un tempo solida e leggera apre lo spazio poetico al tono colloquiale dell’affabulazione e al fluire sommesso della rievocazione memoriale, veri timbri – sin dal titolo – della raccolta. Dal punto di vista linguistico essi si nutrono di un lessico semplice e quotidiano, le cui punte più preziose si riducono a qualche sostantivo astratto (orfanità, mutezza, il figurato profluvio), all’analogico sfuocati, e al toscanismo (montaliano) stente, in un tessuto altrimenti piano e persino ostentatamente banale (per esempio nei superlativi assoluti degli aggettivi, e negli avverbi in -mente), materiali di una metaforica immediata («gli anni che tremano / alle spallate d’un vento invisibile») che non rifugge dalla fraseologia più comune (montarsi la testa, come viene viene, senza capo né coda, anime in pena, restandone alla larga). Ne è corrispettivo una sintassi che all’iniziale uso di modi indefiniti e proposizioni ellittiche preferisce presto una dizione più sciolta e articolata, non aliena da intenzioni assertive (evidenti specie negli attacchi: «I film porno mi annoiano ») e propositi gerarchizzanti (periodi complessi e subordinate). Ma questi, costantemente intralciati dai modi del parlato (incisi e parentetiche, magari fétiche: «Su, lascia perdere, guarda») e sottoposti ai sussulti interrogativi ed esclamativi della coscienza («Mai avuto, io, il doppio dei tuoi anni / Ma cosa dico? certo che li ho avuti, / solo che tu non c’eri, eri, vediamo, / a Padova») sono destinati alla frustrazione dell’inconcludenza (frequenti i punti di sospensione in corso e in fine) e costretti al ripiegamento appositivo e a continue ripartenze (anche negli esordi in congiunzione: O, E). Di tale andamento sussultorio partecipa la costellazione delle anafore («Ricordo troppe cose dell’Italia. / Ricordo Pasolini»), delle epanadiplosi  («E il patronimico? Mai saputo, / adesso che ci penso, il patronimico»), delle epifore («scomparendo in voi, diventando voi»), magari – come qui – variate dal mutamento di funzione sintattica connesso al precisarsi dell’approssimazione («dove da vari indizi era probabile / che fosse nato e dove / comunque sicuramente abitava / e da dove si poteva pensare / che fosse partito al mattino»): ripetizioni che mimano finemente la retorica del parlare quotidiano, elementare anche quando è nobilitata a climax («quella luce / che da rosa si fa viola, quell’ombra sempre più evanescente / che la sedia disegna sulla ghiaia / quella mano d’adulto che si posa / in primissimo piano»), magari in clausula («per vederci come loro s’inventano / che siamo, che ti tocco, che respiri»). Coerentemente con questa gradualità nella variazione del significato, e con il procedere a tentoni proprio della rievocazione una volta scontata l’accensione mnemonica, qui extralinguistica (la ‘foto’ sottintesa nella deissi di un attacco come «In questa gli assomiglia»), l’apparato retorico limita le figure che accrescono la concentrazione semantica (gli ossimori: ferocemente mite, feroci quisquilie familiari, atrocemente innocenti, osceno incantesimo del buio), ed evita quelle in cui l’accostamento sia affidato esclusivamente al piano del significante (paronomasie e allitterazioni, di cui trovo solo l’occorrenza «mutezza del mare. Matura»). D’altra parte Barlumi è un libro anche letteralmente colloquiale, indirizzato a diversi destinatari, sebbene – come in tutto Raboni – più spesso scomparsi (il padre nella poesia liminare, la comunità dei morti nell’ultima della quarta sezione) che vivi (la compagna), e comunque sempre fantasmatici, come il se stesso oggetto di domande inevase, o il fratello maggiore sospeso, di fronte alla fine incombente (come spiega la postilla), «in questo labirinto / di secondi», in cui gli anni di differenza svaniscono: «e adesso non sono più niente, / meno della durata di un’azione, / meno del tempo che ci vuole / a un mediano di spinta / per raggiungere l’area di rigore». Così, dalla fotografia sfocata alla gioia vissuta come una reliquia, dalla felicità d’un altro tempo, allo sperpero sereniano «dei giorni che cadono a pezzi » prende forma un mondo ‘postumo’, in cui trovano spazio, anche se non direttamente interpellati, gli amici perduti (Sereni, Fortini, Scialoja, poi Pasolini e Volponi) o lontani (la vedova di questi, Giovina), in un ricordo inizialmente privato e familiare, in cui però penetra a poco a poco la realtà esterna – il cinema, i cellulari, il tram (a cui è dedicata la terza sezione), la città di Milano – e con essa, gradatamente, il severo giudizio sul presente, magari veicolato nel rovescio di un’immagine idilliaca («a spese di chi, mi domando, / anzi di quanti, quale contrappeso / di umiliazioni e di dolori / sarà necessario per bilanciare / la perfezione di due istanti / alla corte dei conti dell’orrore?»). Così, con un movimento simile alla recente tensione autobiografica di tanti intellettuali italiani e no (da Asor Rosa a Cases, da Steiner a Reich-Ranicki), l’ultima e più politica sezione dispiega apertamente, fino all’adozione della prosa, il  ricordo di un’infanzia lontana, trascorsa fra guerra e liberazione, ma che incredibilmente prolunga le sue potenti emozioni su un oggi dominato invece dall’apatia («Ogni sera che viene sulla terra / milioni e milioni di reduci / del ventesimo secolo / ascoltano senza tremare / le notizie del giorno / da Gerusalemme e dai territori»). È in questa impari dialettica che sottilmente matura la consapevolezza della fine di un’epoca, anche quando i suoi germi siano individuati in eventi non recentissimi, e a risultare schiacciati, fra i due poli, siano gli ideali del dopoguerra, come le aspettative suscitate negli intellettuali di Questo e altro dalla triade Kruscev-Kennedy-Giovanni XXIII, e spezzate dai proiettili di Dallas: «E fu anche – così, almeno, mi viene da pensare ora – come se essi colpissero di striscio e tuttavia mortalmente la nostra speranza o utopia di poter frequentare pubblicamente e collettivamente la letteratura come un ‘questo’ da abbinare a un ‘altro’, come ‘un luogo della verità umana’».

 

(Attilio Motta)

 

 

 

STEFANO RAIMONDI, La città dell’orto, Bellinzona, Casagrande 2002, pp. 118,   15,00.

 

Nel suo Elogio di Milano per la sua fertilità e la sovrabbondanza di ogni bene (che occupa per intero il quarto capitolo del De magnalibus Mediolani) Bonvesin de la Riva osservava : «Vi sono anche gli orti, che fioriscono per l’intero corso dell’anno e producono abbondanza di legumi di ogni genere». E forse Stefano Raimondi, ordinando le sue poesie sotto il titolo La città dell’orto, potrebbe strizzare l’occhio al suo grande antenato duecentesco: benché gli orti, come tutte le altre bellezze naturali elencate da Bonvesin (frutteti, castagneti, dolcissime vigne, fertili fiumi e infiniti ruscelli di fonte etc.), sembrino oggi del tutto estranei alla realtà milanese. E proprio in questo senso già il titolo scelto dall’autore suggerisce una dolorosa antitesi, che sarà poi sviluppata ed elaborata nel corso della raccolta. L’argomento principale del volume, il tema della morte del padre, è infatti sin dall’inizio inserito in una cornice metropolitana che complica e arricchisce la meditazione poetica di Raimondi. Se l’«orto» richiama una dimensione umana umile e familiare, una memoria operaia di lavoro e di affetti che rimanda alla figura paterna, l’altro termine «città» parla invece della Milano odierna, frenetica e spietata, «malabolgia fatta a cerchio» in cui i destini individuali sembrano perdersi nel nulla e svanire. Cos’è la morte, nella Milano contemporanea? Quale spazio sa schiudere la città «costato di calcine» alla pietà del dolore e del lutto, alla dolcezza del ricordo e dei baci? E in che modo il transito delle vite umane modifica e rifonda la stessa città, passando il testimone della memoria dal padre al figlio (ma in questo scambio, la memoria stessa non muta? e come? «Sono io adesso, ad avere memoria...», recita uno dei versi più belli)? Sono questi, e altri di analoga intensità, gli interrogativi che Raimondi insegue nei suoi versi, entro i quali la vicenda biografica, appena accennata con pudore, si intreccia e si fonde con il paesaggio urbano, colto nei suoi rari momenti di apertura, di squarcio in chiaroscuro: giardini, parchi, spiazzi, dove per un istante le case si aprono, e le figure umane si rivelano nella loro precaria individualità, nel loro divenire tormentato, più purgatoriale che infernale (le «ombre che vanno» di Purgatorio XXIII, per esempio; ma il canto VIII della stessa cantica è esplicitamente rammentato in uno dei testi finali  del libro, che cita per esteso l’Inno della Compieta). Uno degli aspetti più interessanti del libro risiede appunto in questa sovrapposizione drammatica, che si manifesta soprattutto nelle parole e nelle immagini : come se un lessico cittadino pietroso, secco e scarno, fosse centrifugato insieme al vocabolario pietoso dei sentimenti, alle formule quasi liturgiche del compianto funebre. Per questa via, ecco generarsi ora una lacerazione semantica  («per restare fatti / di pietà e di pietra»; «ghiaccio sui tombini come sopra bocche »; «da qui non s’indovinano i perdoni. / Solo la luce rasa tiene / il conto dei tetti risparmiati, / delle cantine tenute premute / con il buio bendato alle porte / rifugiato dentro»), ora una sorta di misteriosa fusione («La pietra ora è nel mio sangue. / Non so chi di noi due è più solo / chi forte e d’ora in poi / per sempre»; «Un’ombra fa più alta la casa / e dentro è un cortile che tace tutto / anche l’ultimo piano che si sbraccia»; «Tienile al buio le mie parole. / Hanno ancora un’ombra / una sola città dove farsi capire ») che sembra poter trasformare anche il dolore in una luce  commossa: sicché nella poesia conclusiva, ma anche in molte altre parti della raccolta, «Tremano anche le stelle: brillano».

 

(Fabio Pusterla)

 

 

 

CLAUDIO RECALCATI, Un altrove qualunque, Bergamo, Moretti e Vitali 2001, pp. 100, € 10,30.

 

Un altrove qualunque sono i due luoghi in uno della poesia di Recalcati (n. 1960): altrove, cioè nei versi, qualunque cioè qui (in una Lombardia reale e poetica che comincia almeno dalle Case della Vedra di Raboni e dalle periferie di Erba). Nei due abita il sentimento della lingua: dal lampo espressionista (ma in chiusura di testo, quasi melodico) di «Ho appreso a mutilarmi nel sorriso», a impasti verbali nei quali la materia delle parole può a volte resistere indocile («Tutti gli illesi con noi / già lesi»), a volte sciogliersi amica del poeta: «avrei del tempo un furto di clessidre / nel gioco del tuo gioco giacerei».

 

(Fabio Zinelli)

 

 

 

JEAN ROBAEY, Presentazione del Duomo di Modena, Bologna, Book Editore 2002, pp. 88, € 10,50.

 

Sotto il segno del prodigio si apre e chiude la Presentazione del Duomo di Modena del belga Robaey, scandita in quattro capitoli («Presentazione dei quattro bassorilievi biblici», «di re artù attraverso i mesi», «del pontile con ambone», «di dio in croce»). «Prima non erano qui» è l’esordio del testo poetico; richiama la traslazione dei quattro bassorilievi, senza specificare come siano giunti alla collocazione attuale, dando spazio, mediante tale reticenza, all’immaginazione di un fatto di sapore soprannaturale. Allo stesso modo il «sangue caldo», e dunque vivo, sul crocefisso all’interno del duomo, nei versi di congedo del libro, avvicina al ricordo del miracolo di una statua che sanguina. Nelle pagine di mezzo, in stile di ricalco epico, si svolge una sorta di percorso di conoscenza fenomenologica di rivisitazione attuale e di ricostruzione storica dell’edificazione della cattedrale modenese, delle sue sculture e di chi l’ha attraversata nei secoli, supportato dall’uso continuo di un verbo essere, coniugato nell’accezione di copula a spiegazione di qualcosa (è, che è, era...), di cui però ne assevera così l’esistenza (essere come esistere), quasi un lapsus involontario di un ateo – a suo dire – irriducibile.

 

(Giuseppe Bertoni)

 

 

 

EDOARDO SANGUINETI, Il gatto lupesco. Poesie (1982-2001), Milano, Feltrinelli 2002, pp. 480, 25,00.

 

Ha qualcosa di sornione e mannaro il titolo dell’ultima uscita editoriale di Edoardo Sanguineti, Il gatto lupesco, raccolta completa dei suoi libri di poesie, le più recenti per larga parte qui per la prima volta pubblicate, degli ultimi vent’anni – a cavallo tra il sapore malizioso degli epiteti e dei nomignoli che sanno di fusa ed effusioni dell’intimità di coppia, e il retrogusto ironico delle definizioni erudite che odorano di carte e pergamene anonimamente medievali (il Detto del gatto lupesco è infatti il titolo assegnato a un poemetto giullaresco del Duecento fiorentino). Al di là di tutto, gatto lupesco è formula ossimorica che mette in movimento due nature animalesche inconciliabili, destinate anzi a essere una inseguita dall’altra, quella felina da quella canina: una rincorsa infinita e senza posa, senza scampo, come un gatto che si morde la coda. In questo circolo vizioso è invischiato il linguaggio poetico («ma succhiami, tu almeno, questi versi perversi, queste fiale di inchiostro / bestiale, di fiele e di miele, che dall’aia ti latra e ti abbaia il tuo mostro fedele») che, fin dalla pubblicazione di Segnalibro. Poesie 1951-1981 (Milano, Feltrinelli 1982) mostrava di avere già azionato molteplici forme possibili di comunicazione linguistica, tracciando percorsi sperimentali d’intento alterativo nei confronti di un esistente impermeabile però agli attacchi destabilizzanti dell’arte in tutte le sue espressioni. Una volta che la scrittura poetica vede disinnescato il proprio potenziale detonante di denuncia di una realtà ormai massicciamente standardizzata non solo sul piano sociale, pubblico, culturale, ma anche su quello interpersonale e privato, ecco che essa può sentirsi indotta a scegliere di esaurire il proprio senso in una struttura testuale e soprattutto comunicativa chiusa. Il lettore deve decidere consapevolmente di tendere l’orecchio all’ascolto perché la voce residua (Codicillo, Senzatitolo, Corollario sono titoli di libri e quindi di altrettante sezioni de Il gatto lupesco) è un bisbiglio, un sussurro (Bisbidis...), un rantolo farneticante ma lucido che non vuol più fronteggiare lo schiamazzo dirompente d’intorno. Accanto agli eduli ardori, partecipati, esangui, dai netti toni politici e sociali, che governano, con ritmo popolare, le ottave delle Ballate (1982-1989) e di Novissimum Testamentum; accanto al tema costante del proprio disfacimento corporale, tra alti e bassi della propria sessualità, dove la figura della moglie ha il ruolo ambivalente di rispecchiamento e appiglio interiore contro una dissolvenza esteriore; prendono piede giochi di sonetti acrostici per amici artisti e intellettuali (fra i quali Luciano Anceschi, Luciano Berio,  Carlo Cremaschi, Enrico Baj; un tributo particolarmente toccante è riservato a Adriano Spatola) e veri e propri Rebus (questo il titolo di una sezione di Bisbidis). Così, ad esempio, un «azzardar discorsi» a raffica, da parte di questo «genovese galante», non riduce al significante la propria significanza, come accade invece in certo puntiglio compositivo da lessicografi di una neo-neo-avanguardia, ma, viceversa, insiste nel creare immagini e soprattutto a tessere le fila di un pensiero organico e coerente, per quanto destrutturato e decomposto, dove le parole tendono a farsi cose: «quello che dico, te lo faccio (8,8):». E proprio Cose si chiama l’ultimo libro, quasi interamente inedito, della raccolta, quello forse appena sotto tono rispetto agli altri, per l’uso di un congegno creativo già più e più volte collaudato (rebus, acrostici, endecasillabi, iperversi...) dunque a tratti prevedibile. Eppure è qui uno dei componimenti più freschi dell’intero volume, perché, con un lessico ‘da chat’, il dialogo tra i due interlocutori, che si gridano il loro «silenzio muto», dà un volto all’incomunicabilità e alla solitudine relazionale odierna: «dopo due punti, ormai sono una sbarra / obliqua,  e metto, in mezzo, un meno (:-/)». Ruotando la pagina in senso orario di novanta gradi, i segni grafici – due punti, trattino, sbarra obliqua compresi tra parentesi – diventano un faccino con la smorfia che sembra dire: «boh?». Anche per una certa maneggevolezza emotiva immediata, ha questa poesia la suggestione del verso conclusivo, con la sua univocità silenziosa irreversibile. Occorre allora richiamare un gran testo polifonico, di alcuni anni prima, Requiem italiano. La voce è rotta, spezzata, interrotta, interpolata, reiteratamente; balbettano un disagio universale, insieme, tutti in una volta, Dante, Galileo, Michelangelo, Leonardo, il Newton di Foscolo, Leopardi... «nuovi generi: ci furono descritte: e nuove specie: e nasceranno: nuovi ordini: / e prego anch’io: cadesti: nuovi ordini delle cose: quiete: e un mondo nuovo:».

 

(Giuseppe Bertoni)

 

 

 

GABRIELLA SICA, Poesie familiari, Roma, Fazi Editore 2001, pp. 156, € 14,46.

 

Quartine e sonetti le forme prescelte per questo continuo dialogo, condotto a preferenza con altri poeti che dipanarono il proprio viluppo lirico per il bandolo dell’intimismo. E se Petrarca delle Familiares, insieme al Virgilio dell’Eneide, sono evocati fin dall’epigrafe come cantori di quella «campagna come un’infanzia» viterbese, che è una delle principali protagoniste della poesia di Gabriella Sica, il Pascoli della quasi omonima raccolta assemblata a posteriori con materiale domestico e dimenticato, è il maestro primo di un canto sapientemente invilito. Smottano in vere parodie gli echi dalle Myricae, manifesti a partire dal titolo: Felicetta la cucitrice (rilettura sul canone della Cucitrice); inversamente, quasi per gioco leggero e vagante, una sezione che potrebbe far pensare ai più arditi esperimenti del Pascoli ornitologo, Canzoni uccellette, la si conduce con a modello le canzonette sabiane degli Uccelli, pertanto in una lingua da sempre saputa. E parodia, nel solco della tradizione, quella con cui si omaggia nel contempo destinatario, Paolo Prestigiacomo, e referente, Guido Cavalcanti, in una ballatetta, voce d’addio del vivo a chi se n’è partito per antifrasi, già similmente usata dal Caproni dei Versi livornesi; come studio sulle variazioni del metro breve e della rima facile è Roma rimario, canto antifonale alla Litania che Caproni dedicava alla Genova della sua formazione poetica. Paesaggio etrusco, già ruvida ed essenziale sinopia d’affreschi giotteschi, nei Versi viterbesi la campagna esce lumeggiata alla maniera di un  Pasolini delle Ceneri, qual terra che «tiene ancora del macigno» e che naturalmente si presta a costituire la scena dei «miseri e quieti anni Cinquanta», dove «la povera gente d’Italia, / così umile fatta di stracci e luce», da secoli intonante confiteor e santificetur, ripete in figure quali la mitica Candida, rubeste Fillidi oraziane; patria segnata da fratte e siepi, netti confini sanciti in una lingua antica, «So che quelle terre ...», a tratteggiare gli «alba pratalia» di una poesia indistintamente nutrita di più linguaggi: quello della lirica pura, come quello del taccuino pittorico- cinematografico; l’intimo idioma del quaderno bertolucciano, come l’eloquio che accenna a una devotio continiana.

 

(Francesca Latini)

 

 

 

MICHELE SOVENTE, Carbones, Milano, Garzanti 2002, pp. 171,  15,00.

 

Procede nel suo triplice versante linguistico – latino, italiano e dialetto –, la ricerca poetica di Michele Sovente, che con Carbones dà alle stampe un altro densolibro di versi dall’assai elaborata articolazione. Molti testi, ma non tutti, vengono dati nelle tre forme linguistiche, alcuni in due sole, altri solo in italiano. Il lavoro dell’autore non è di mera traduzione: le diverse lingue si stratificano alternandosi in ordine vario, così come in ordine vario sono dislocate le tre versioni di uno stesso testo, spesso intercalate da poesie altre, a creare echi a distanza mutevole, suggestioni mnestiche che chiedono il raffronto, la rilettura, a rendere, il suo, un testo da ripercorrere nella memoria immediatamente emotiva delle immagini o nella più minuta, puntillistica analisi sinottica delle lingue. Tre lingue che per Sovente sono ossa e radici, legami a una terra flegrea impastata di miti, poggiante, essa stessa, su tombe d’eroi, su leggende antichissime, sepolte ma non ancora, non mai calcinabili. La sua poesia di primordia lucreziani, di elementi archetipali – acqua e terra, fuoco sulfureo e vento – cerca, in accenti antichi, modi nuovi di declinare e interpretare un presente spesso oppressivo, in dialettica con un passato personale e collettivo, percepito nella pluridirezionalità di lingue altre, dialetto e latino, appunto. «Negli intarsi o incastri del presente / si annida ogni dubbio, ogni congettura, / non è mai uguale a sé stessa / l’alba, la notte, l’una spalanca, l’altra / occlude, smaniose e insidiose / tutte e due. Il presente: questo / cavo uovo ossessivo che genera / menzogne vaste quanto una foresta, / strette più di un tunnel»: versi esemplari, oltre che della difficoltà di sostenere un presente menzognero, fatto di «preziosi mimetismi » e capace di disarticolarsi e di riprodursi, anche di quel gioco di opposti che è fondamentale nella poesia di Sovente. Se le tre lingue inducono una dialettica classicamente trimembre, in cui però di volta in volta tesi, antitesi e sintesi slittano l’una nell’altra, elidendo a vicenda la fissità dei loro ruoli, la ricorrente alternanza di opposizioni, invece, tende a cristallizzare la dicotomia di ‘sintagmi in base due’ o di coppie incomunicabili: alba/ notte; spalanca/occlude; cavo/uovo concettualmente ossimorico e tendente all’omoteleuto anche con il seguente «ossessivo »; menzogne vaste/strette; e poi, altrove: «macchie / bianche e nere»; «D’aria le voci e di ghisa»; «un mare di tenebre e un mare / di sale»; «tutto è morto, tutto vive». L’intero componimento Sia in pazienza sia in passione è strutturato su un ritmo binario dato dall’incalzare delle dittologie contrastive e chiuso, come un parallelogramma, su un rovesciamento di segno che stringe una inesorabile vacuità: «le cose non fatte rimangono / come ceneri che il vuoto pungono / ... le cose fatte non rimarranno / e le ceneri le notti avranno». In questi versi, allegoricamente attraversati da «carboni», nuclei del nero, energie delle accensioni memoriali, versi pervasi da amarezza, c’è molto «horror vitae», percepito ad una con la consapevolezza del baratro, «la minaccia del vuoto che dilaga / quando la luce viene meno». Unica possibilità di resistenza al «futuro franante» è la scrittura, in questa sua anomala, triplice forma linguistica, che, non essendo allineata alla koinè letteraria odierna, è volontà d’autonomia e di contrasto. Segno di una vitalità feroce eppure intellettualmente distillata: il bianco e nero della scrittura, in contrasto cromatico basilare, è linfa che scorre autonoma e sotterranea, protesa anch’essa su un potenziale abisso: «Si muovono / all’insaputa di ognuno / le parole. Come il sangue che poi / si può d’un tratto fermare ». Lo stesso atto della scrittura è per Sovente uno scrivere contro, anche contro di sé, atto che mentre separa, insieme preserva ed espone: la carta scritta, piena «di segni, di nomi / mi custodisce e mi esclude / – da cosa non è dato sapere – / la fremente carta rubata / ogni volta a qualcuno mascherato / contro me puntualmente imbastisce / un capo di accusa perché / sa molte cose di me». Il sapere può essere inquietantemente incriminatorio. La concretezza materica della lingua non è concetto nuovo in Sovente, e qui non solo di fisica articolazione ritmica o fonica si sta parlando – articolazione di cui Cabaletta, in posizione chiave all’interno del libro (IV e VIII sezione), può essere esempio straordinariamente limpido nella sua ritualità da esorcismo/filastrocca popolare –, qui si sta parlando anche di presenza della materia nella lingua, anzi di problematica coincidenza di sostanza e verbo. Già il componimento XXXVIII di Per specula aenigmatis 1980-1982 poneva in un latino terso, evangelico e gnomico il dilemma dire/apparire: «Me tangit res. Me pungit verbum. / Verbum est res. Est res verbum. / In verbo est index mundi. In re / est codex. Index et codex sine die / per noctis itinera me gravia flagellant », ovvero, nella sua specchiante (non specchiata) versione italiana: «La cosa mi lambisce. La parola mi sfinisce. / La parola è la cosa. La cosa è la parola. / Nel dire si manifesta il mondo. Nell’apparire / si forma il codice. Il dire e l’apparire / senza tregua mi assaltano lungo le vie / scoscese della notte». Dire e apparire saranno allora complementari e necessari l’uno all’altro, e tuttavia non identici. «Specchio» e «ombra», nel testo che apre Carbones, si dislocano continuamente – contiguamente – l’uno nell’altra. Le immagini speculari non sono perfette, come non lo sono i paragrammi che tanto frequentemente nella poesia di Sovente creano false specchiature, echi allusivi fra vocaboli. In questa poesia in cui si aprono – come autentiche chiavi interpretative – «crepe» e «macchie» sui muri, in cui si «seminano tracce» e si levano turbini «d’ombre», in cui si disegna «la grafia sottile delle nuvole» e la voce si può confondere con l’acqua, si coglie, frammista all’affiorare della memoria, una persuasa condiscendenza all’indagine e alla meditazione, oltre che ad un’effusione lirica sempre rattenuta, non mai contratta. Effusione affidata agli oggetti, alle «gialle e profonde ferite» del paesaggio, alle sopravvivenze culturali tangibili come le strutturali tre lingue di Sovente, tra le quali non corre rapporto di subalternità, ma di continua, minima variatio poetica. Sorta di sottile Metamorphosis, come il trittico bilingue, latino-italiano, in cui l’io soggetto  poetico pare focalizzarsi in una speranza chiusa all’umano, botanica ma fruttuosa, frugiferente, allusa dalla triplice ripetizione di un verbo forte, fulcro di ciascuna delle tre parti, verbo vegetale e gemmante, «floresco».

 

(Cecilia Bello Minciacchi)