POESIA
E MUSICA
IL
GUCCINI DI JACHIA
Da qualche anno a questa
parte il nome di Francesco Guccini si associa sempre più frequentemente a
parole scritte, e non soltanto sulle copertine dei vecchi dischi in vinile o
nei libretti che accompagnano i compact disk: i romanzi autobiografici Cròniche
Epafániche e Vacca d’un cane, i
gialli del maresciallo Santovito scritti insieme con Loriano Macchiavelli, il
dizionario pavanese, addirittura una traduzione in dialetto pavanese della Casina
di Plauto... Le stesse canzoni del cantautore sono state
recentemente raccolte in un volume della serie einaudiana Parole
e canzoni e un’autobiografia in forma d’intervista è uscita
nel 1999 presso l’editore Giunti. I tempi erano maturi per un’analisi
complessiva del canzoniere gucciniano, offerta ora da Paolo Jachia, specialista
della canzone d’autore italiana e studioso di Michail Bachtin e Franco Fortini, in un libro
intitolato Francesco Guccini. 40 anni di storie romanzi
canzoni (Roma, Editori Riuniti 2002).
Jachia aveva sulla carta le
credenziali giuste per assolvere il compito, e le prime pagine del libro
confermano le aspettative; il risultato complessivo, tuttavia, le delude un
po’, sebbene il libro resti un’utile guida nell’enciclopedia e nell’itineriario
esistenziale (per quel tanto che traspare dalle canzoni) del cantautore
emiliano.
Dopo una nota iniziale di
Roberto Vecchioni, Jachia analizza l’intera produzione discografica di Guccini,
dedicando un capitolo a ciascun album, eccetto per Via
Paolo Fabbri 43 e Amerigo, per
Metropolis e Guccini e
per Quello che non... e Parnassius
Guccinii, considerati congiuntamente per le affinità che presentano.
Segue l’analisi dei due romanzi autobiografici, una conversazione di Jachia con
Loriano Macchiavelli e un’intervista di Claudio Lolli a Guccini, già uscita su
«L’isola che non c’era» del maggio 2000.
Jachia sviluppa i temi
presentati in un capitolo del suo La canzone d’autore
italiana 1958-1997. Avventure della parola parlata (Milano,
Feltrinelli 1998): il sostanziale autobiografismo delle canzoni, la
predilezione per il racconto di ‘storie’ e per i ritratti di personaggi
emblematici, il tema delle radici,
l’impegno etico e civile, la presenza delle figure femminili («le donne, angeli
e specchi di questa ricerca esistenziale»), il profondo umanesimo, per il quale
Jachia si richiama al concetto gramsciano di medesimezza umana, il piacere del
rovesciamento carnevalesco della realtà e delle verità acquisite o
ideologicamente imposte – e qui la guida di Jachia è ovviamente Bachtin –, la
notevole tecnica compositiva, l’utilizzo di immagini e citazioni letterarie nei
testi delle canzoni. Tutto questo, condensato nelle venti pagine del capitolo
gucciniano della storia della canzone d’autore, si espande, forse con qualche
eccesso di insistenza e qualche ripetizione, nelle duecento di questa
monografia. In particolare cresce e diventa analitica l’attenzione dello
studioso per le presenze letterarie, soprattutto poetiche, nelle canzoni; ed è
su questo punto che vorrei soffermarmi per qualche precisazione e integrazione.
L’uso della letteratura da
parte di Guccini è improntato a una commistione dei livelli per cui accanto
alla grande letteratura europea e americana (Leopardi, Gozzano, Montale,
Shakespeare, Eliot, Salinger), si trovano affioramenti ironici della memoria
scolastica: la previsione di Canzone di notte n. 2:
«noi siamo gente che finisce male: Galera od ospedale», riprende evidentemente
quella del Grillo-parlante nel cap. IV di Pinocchio, il
libro letto per primo, a cinque anni, da Guccini: «tutti quelli che fanno
codesto mestiere [mangiare, bere, dormire, divertirsi e fare dalla mattina alla
sera la vita del vagabondo] finiscono quasi sempre allo spedale o in prigione».
È poi una citazione esplicita dal cap. XIII dei Promessi
sposi il «Siempre adelante ma con juicio» di Nostra
Signora dell’Ipocrisia.
Altro tipo di commistione
messa in opera da Guccini è quella fra livelli linguistici, per la quale Jachia
avrebbe potuto citare il primo Eliot: certi finali di strofa di Canzone
quasi d’amore, come «non voglio menar vanto / Di me o della mia
vita / Costretta come dita / Dei piedi» o «perché siam tutti soli / Ed è nostro
destino / Tentare goffi voli / D’azione o di parola volando come vola / Il
tacchino», ricordano infatti gli incisi o i finali di strofa di Love
Song of J. Alfred Prufrock, dove il particolare quotidiano, stilisticamente
basso, irrompe nel discorso poetico elevato o lo conclude (per esempio, «I grow
old... I grow old I shall wear the
bottoms of my trousers rolled»: ‘Divento vecchio... divento vecchio... Porterò
i pantaloni arrotolati in fondo’, traduce Roberto Sanesi). Curiosamente Jachia
cita a p. 95 la poesia eliotiana per un parallelo basato su coincidenze di
elementi lessicali del tutto casuali: come si possono mettere seriamente in
relazione versi come: «Have known the evenings, mornings, afternoons, I have
measured out my live with coffee spoons; [...] Then how should I begin To spit out all the butt-ends
of my days and ways? And how should I presume? [...] I am no prophet-and here’s
no great matter; [...] And in short, I was afraid» con la situazione di Canzone
delle osterie di fuori porta: «Io ora mi alzo tardi
tutti i giorni, tiro sempre a far mattino Le carte, poi il caffè della stazione
per neutralizzare il vino; Ma non ho scuse da portare, non dico più d’esser
poeta [...]. Ladri e profeti di futuro mi hanno portato via parecchio [...] Non
lo crederesti: ho quasi chiuso tutti gli usci all’avventura, Non perché metterò
la testa a posto, ma per noia o per paura»?
Anche la presenza
leopardiana merita qualche considerazione: «lo sforzo gigantesco, poetico e
culturale, di Guccini» di «aprire la più alta tradizione delle [sic]
poesia italiana alla ballata di derivazione dylaniana», non apparirà meno
impressionante (dovrò tornare su certe espressioni iperboliche di Jachia, e sui
troppi refusi del libro) se in Farewell un
verso come «Siamo come due foglie aggrappate su un ramo in attesa» dipende
invece che dall’Imitazione di Leopardi: «Lungi dal
propio ramo, / Povera foglia frale, / Dove vai tu?» da Soldati
di Ungaretti: «Si sta come / D’autunno / Sugli alberi / Le
foglie ». Per un Leopardi che va, uno viene: che cos’è Canzone
della vita quotidiana se non una riscrittura attualizzata del Cantico
del gallo silvestre contenuto nelle Operette morali?
Su, mortali, destatevi. Il
dì rinasce: torna la verità in sulla terra, e partonsene le immagini vane. Sorgete:
ripigliatevi la soma della vita; riducetevi dal mondo falso nel vero. [...]
Dolcissima cosa è quel sonno, a conciliare il quale concorse o letizia o
speranza. [...] Io dimando a te, o sole, [...] vedesti tu alcuna volta un solo
infra i viventi essere beato? Delle opere innumerabili dei mortali da te vedute
finora, pensi tu che pur una ottenesse l’intento suo, che fu la soddisfazione,
o durevole o transitoria, di quella creatura che la produsse?
La vecchiaia e la morte,
conclude Leopardi, sono il destino ineluttabile dell’uomo. Non meno drammatica
è l’evocazione di Guccini della vita quotidiana: «Inizia presto all’alba / O tardi
al pomeriggio Ma in questo non c’è alcuna differenza [...] E l’acqua fredda in
faccia / Cancella già i tuoi sogni / E col bisogno annega la speranza. E mentre
la dolcezza / Del sonno si allontana / Comincia la tua vita quotidiana [...]
Fatiche senza scopo, / Furiose e vane corse / Angosce senza un forse, senza un
dopo [...] La lotta vuota e vana, / Patetico tentare / Di rimandare un poco la
vecchiaia. / E poi ti trovi vecchio / E ancor non hai capito / Che la vita
quotidiana ti ha tradito».
Altra presenza costante
negli accostamenti di Jachia è Montale, e in questo caso le assonanze sono
convincenti; in un caso l’autore menziona un parallelo solo per scartarlo: a
proposito della canzone Scirocco Jachia scrive che «è
inutilmente pedante dire che Scirocco s’intitola
una poesia di Montale» (p. 141). In effetti il grande poeta ligure non c’entra:
la canzone di Guccini s’ispira direttamente a una prosa dei Canti
Orfici di Dino Campana, intitolata appunto Scirocco
(Bologna):
Era una melodia, era un
alito? Qualche cosa era fuori dai vetri. Aprìi la finestra: era lo Scirocco:
[...] la città [...] dava l’immagine di un grande porto, deserto e velato [...]
mentre che nello Scirocco sembravano ancora giungere in soffii caldi e lontani
di laggiù i riflessi d’oro delle bandiere e delle navi che varcavano la curva
dell’orizzonte.
È la situazione iniziale
della canzone di Guccini: «Ricordi? Le strade erano piene di quel lucido
scirocco / Che trasforma una realtà abusata e la rende irreale / Sembravano
alzarsi le torri in un largo gesto barocco / E in via dei Giudei volavano
velieri, / Come in un porto canale». Peraltro Campana aveva fornito a Guccini
gli elementi per una pointe in Via
Paolo Fabbri 43, «se devo emigrare in America come mio nonno /
Prendo il tram»: un’altra delle
prose dei Canti Orfici s’intitola Passeggiata
in tram in America e ritorno.
Queste poche osservazioni e
quelle ben più numerose reperibili nel libro di Jachia dimostrano che la fama
di autore colto («Guccini è forse il più colto dei cantautori oggi in
circolazione», ha scritto Umberto Eco) è ampiamente meritata. Ma quando Jachia
scrive che «Guccini muove vocabolari giganteschi» e parla di «un dominio e di
una padronanza dell’italiano e delle sue varianti dialettali e gergali enorme»
e di letture sterminate, io penso esageri un po’. Intendiamoci, che la stima
per Guccini nel mondo intellettuale sia sempre stata meritatamente alta, anche
prima della consacrazione letteraria, dei premi e della laurea honoris
causa, è senz’altro vero; anzi è ben possibile incrementare l’elenco
di esponenti della ‘cultura alta’ che hanno preso ad esempio Guccini.
Pier Vittorio Tondelli,
citato per altre ragioni da Jachia, racconta in Un
racconto sul vino (in L’abbandono,
Milano, Bompiani 1998) il suo incontro con le canzoni del cantautore; nel 1972
al liceo un’amica gli fa leggere alcuni versi di Un
altro giorno è andato:
Quello stesso pomeriggio, a
casa della mia amica, ascoltai un suo disco. E la musica del cantautore
bolognese entrò nella mia vita. Francesco Guccini diventò, per anni e anni,
fino all’università e anche oltre, accompagnato solo dall’alto patronato di
Leonard Cohen, la colonna sonora di quel mio passato irrequieto e provinciale,
conteso fra i treni rugginosi che mi portavano verso Bologna e le highways
californiane dei miei scrittori preferiti che mi portavano, con
la fantasia, nel territorio del mito americano.
Guccini diventa per Tondelli
non un diversivo ai libri, ma addirittura il tramite per lo studio delle
letterature classiche: «Imparando a memoria tutte le ballate di Guccini, e
dovendo contemporaneamente tradurre Alceo e Orazio, la mia amica e io urlavamo:
“Ma è un Guccini allo stato puro!”, invertendo, ingenuamente, il percorso
culturale e storico».
Dal linguista e filologo
romanzo Lorenzo Renzi (Come leggere la poesia,
quarta edizione, Bologna, il Mulino, 1991) viene un’utile indicazione per
sciogliere il rapporto fra canzone d’autore e poesia. Alla diagnosi che
Giovanni Pozzi, seguito da Cesare Cases, ha formulato a metà degli anni Settanta
di una «generale disappetenza dei giovani per i testi poetici» Renzi
oppone il fatto che la poesia consumata dai giovani non è quella «più alta», ma
semmai quella accompagnata dalla musica e che porta la firma dei cantautori; a
titolo d’esempio lo studioso cita qualche verso gucciniano, da Piccola
storia ignobile e da Eskimo. La
canzone d’autore, definita in termini quasi autoreferenziali da Guccini: «le
canzoni non sono né poesia né musica, sono canzoni, hanno cioè una loro
specificità artistica e una loro precisa dignità», viene ricondotta nel
discorso di Renzi nell’alveo della storia della poesia in volgare, all’origine
accompagnata dalla musica nella Provenza dei trovatori, nella Germania dei Minnesänger, e
per alcuni generi poetici, ell’Italia
dei poeti federiciani e dei cosiddetti siculo-toscani. Il successivo «divorzio
tra musica e poesia» che caratterizza la poesia italiana del Due-Trecento e
quella successiva, ci ha abituati a una distinzione netta fra canzone e poesia
che si stempera in una prospettiva storica; scrive Renzi che «se c’è qualcosa
da giustificare, questa è la poesia senza musica, non quella con la musica.
Sono Cavalcanti e Montale che devono scusarsi, non Walter von der Vogelweide e
Guccini!».
È giusto perciò sottolineare
il valore culturale della produzione del cantautore, ma certi toni troppo
enfatici rischiano di introdurre in uno studio peraltro serio e approfondito
elementi apologetici di cui Guccini non ha certo bisogno. Emblematico in questo
senso il modo in cui Jachia apostrofa quei critici che hanno giudicato
severamente il sesto disco di Guccini, Stanze di vita quotidiana del
1974, e l’ultimo Stagioni uscito nel 2000. Discutibile
intanto la scelta di non nominare i critici malevoli: a parte l’esigenza
scientifica di contestualizzare anche la peggiore incomprensione, ne viene
fuori una damnatio memoriae dal sapore un po’ manicheo.
La reazione di Jachia ai giudizi sull’album del 1974 (ripetitività delle
situazioni, scarsa inventività musicale, insomma l’appartenenza alla categoria
dei ‘cantautori sbadiglioni’) è abbastanza contenuta: «resto attonito e non mi
spiego una così vertiginosa incomprensione del dettato gucciniano e della sua
complessiva figura di uomo e artista» (p. 90). Qualche parola sopra le righe
appare in conclusione:
viene solo da dire che [voi
critici] non siete adulti, non ascoltate Guccini, ascoltate l’ottimo Morandi
(non quello di C’era un ragazzo
che come me, roba hard per voi dove comunque si parla di morte
e di Vietnam, ma quello di Fatti mandare dalla mamma a prendere il latte).
Per gli insulti infine, quelli io non posso scriverli, e vi rimando,
graziosamente, alla splendida, da voi meritatissima, Avvelenata
(p. 91).
Più accesa la reazione alle
critiche a Stagioni, aggravate dalla
circostanza che in parte le critiche sono venute da sinistra: «ma si rendono
conto questi bambocci di chi stanno parlando? Non si vergognano dall’alto della
loro supponenza, di chiamarsi, come fanno – e su mandato di chi e con quali
titoli e verifiche – ‘critici musicali’?» (p. 183).
Ora, la qualità della
produzione discografica gucciniana è fuori discussione, la cultura dell’autore
evidente, così come le doti letterarie e la capacità di costruzione
dell’intreccio narrativo nei romanzi gialli sono notevolissime; ma davvero c’è
bisogno di questi toni? Il rischio non è tanto di essere attaccato dalla
corporazione dei critici (dai singoli critici non nominati Jachia non può
temere nulla), ma di incorrere nell’ironica censura dello stesso Guccini che
potrebbe annoverare Jachia fra coloro «che ti adorano fedeli e senza intoppi /
Coi santi non si scherza, abbasso il Milan, viva Coppi!» (Parole).
Un altro esempio. Premesso
che condivido con Jachia la critica alla classe dirigente della sinistra che ha
perso le ultime elezioni politiche, non riesco a non trovare di cattivo gusto
la chiusa di questo inciso: «abbiamo votato tutti per D’Alema, Guccini in
primis che si proclama ‘elettore diessino’, ma si vorrebbe un po’ più di
coraggio e di coerenza ideale, nevvero compagno baffino?» (p. 188). Insomma,
c’è da rimpiangere la sobria, densa e serrata argomentazione del libro sulla
canzone d’autore italiana.
Quel libro aveva inoltre il
pregio di una sostanziale correttezza, a parte il fatto, trascurabile, che
Guccini veniva fatto nascere a Pàvana, e non a Modena. In questo si trova
invece una quantità di refusi a mio parere eccessiva, alcuni dei quali
imbarazzanti. Per un verso, visto che Jachia ci informa di essere ebreo, lo
storpiamento del titolo del libro biblico dell’Ecclesiaste:
«Solo chi sappia davvero cos’è l’Eccelliate, la
lettura preferita di Leopardi dove si ribadisce che tutto al mondo è vanità,
può confrontarsi...» (p. 92). Per un altro verso, considerato il culto per
l’oggetto della ricerca, le imperfezioni riguardanti la discografia di Guccini:
«Autogrill è la più bella canzone di Metropolis
» (p. 133; semmai di Guccini);
«E qui, torniamo, come dicevamo, a Inutile e a Rimini»
(p. 156), dove lo sfondo della canzone Inutile,
Rimini nel mese di marzo, diventa col corsivo il titolo di una canzone di
Fabrizio De André! Anche i testi delle canzoni non vanno esenti da mende: «Ride
chi ha negli occhi l’odio / E dentro il cuore la paura» da Canzone
delle osterie di fuori porta (p. 92) è in realtà «ride
chi ha nel cuore l’odio / E nella
mente la paura»); «È facile tornare tra le tante pecore stanche» da Canzone
di notte n. 2 (p. 108) è invece «È facile tornare con
le tante stanche pecore bianche»). Mi chiedo infine: perché
non riportare alla lettera il discorso con cui Guccini introduce nel concerto
con i Nomadi del 1979 la canzone Statale 17, ma
farne una parafrasi per di più molto meno efficace?
Complice forse un po’ di
fretta pre-natalizia, il libro è insomma risultato inferiore alle attese;
nondimeno, consentendo di conoscere meglio e apprezzare più in profondità le
canzoni del cantautore italiano più colto e longevo, la sua opportunità non può
certo essere intaccata da questi pochi appunti marginali.
Nota bibliografica
Oltre ai due romanzi Cròniche
Epafániche (Milano, Feltrinelli 1989) e Vacca
d’un cane (ivi, 1993), Guccini ha pubblicato la conversazione
con Vincenzo Cerami Storie di altre storie,
Casale Monferrato, Piemme 2001, da cui si ricava la notizia sulla precoce
lettura di Pinocchio. I romanzi gialli firmati
insieme con Loriano Macchiavelli sono Macaronì. Romanzo di santi
e delinquenti (1997), Un disco dei Platters. Romanzo
di un maresciallo e una regina (1998), Questo
sangue che impasta la terra (2001), tutti pubblicati da
Mondadori; presso lo stesso editore sono usciti nel 2002 i racconti Lo
Spirito e altri briganti.
Il Dizionario
del dialetto di Pàvana. Una comunità fra pistoiese e bolognese, è
uscito in «Nuèter», Gruppo di studi Alta Valle del Reno, Pàvana 1998; Guccini
risulta inoltre fra i compilatori del Dizionario toponomastico
del comune di Sambuca Pistoiese, a cura di Natale Rauty,
Pistoia, Società pistoiese di storia patria, 1993, in cui firma una Nota
sui dialetti (pp. 21-22). Della traduzione della commedia
plautina si dà notizia in Plauto a Pavana: due atti della Casina
tradotti da Francesco Guccini, «Autografo», XVII,
43, 2001, pp. 129-61.
I testi delle canzoni del
cantautore sono raccolti nel volume Stagioni. Tutte le canzoni,
curato da Valentina Pattavina e introdotto da Roberto Cotroneo, Torino,
Einaudi, 2000, cui è affiancata una videocassetta a cura di Vincenzo Mollica;
l’autobiografia in forma d’intervista è Un altro giorno è andato.
Francesco Guccini si racconta a Massimo Cotto, Introduzione di
Luciano Ligabue, Firenze, Giunti 1999.
(Paolo Squillacioti)