POESIA CLASSICA

a cura di Gianfranco Agosti

 

 

 

SOLONE, Frammenti dell’opera poetica, premessa di H. MAEHLER, introduzione e commento di M. NOUSSIA, traduzione di M. FANTUZZI, Milano, BUR Rizzoli 2001, pp. 382, € 11,36.

 

 

Il nome di Solone presso il pubblico più esteso è piuttosto quello del legislatore, dell’uomo politico, del dispensatore di saggezza, di colui che dialoga della felicità della vita con il potente Creso, magari dell’amante di «cavalli solidunghi» di pascoliana memoria. Benché egli abbia affidato a opere in versi non solo le sue concezioni etiche, ma anche l’esplicazione e la difesa del suo ‘programma’ politico, la considerazione di Solone come poeta ha sofferto da una parte la concorrenza della più o meno coeva, e straordinaria, lirica arcaica, dall’altra la mancanza di una adeguata valorizzazione dei criteri estetici, delle tensioni culturali e delle intenzioni che regolano la sua produzione poetica, analizzata invece soprattutto come fonte storica. A questa visione sostanzialmente riduttiva dei caratteri letterari della poesia soloniana pone ora rimedio la nuova edizione dei frammenti curata da Maria Noussia, cui si deve la revisione del testo (in vari punti diverso dall’edizione Gentili-Prato), l’introduzione e il commento, mentre Herwig Maehler ha fornito una fine premessa e Marco Fantuzzi ha curato la traduzione. La Noussia sta preparando anche l’editio maior del suo commento, che apparirà in inglese, ma già questa editio minor italiana si presenta come un’opera veramente egregia: un fitto commentario di quasi duecento pagine per i circa quaranta frammenti poetici di Solone, ognuno dei quali è corredato da una lettura introduttiva (in cui viene fatto con ammirevole concisione il punto sul dibattito critico e poi viene presentata la proposta interpretativa della curatrice) e da un minuto commentario sulle questioni linguistiche, stilistiche, storiche ed esegetiche. Già in questa veste il commento della Noussia non solo è uno dei migliori della collana della BUR (che ormai annovera parecchi volumi di assoluto valore scientifico e che si sta sempre più caratterizzando come la serie portante in Italia per i testi classici), ma è destinato a rimanere per molto tempo un insostituibile punto di riferimento per gli studi su Solone e sull’elegia greca arcaica.

Solone (ca. 640/39-560/59) è una delle figure chiave della storia greca: eletto arconte nel 594/93, designato come diallakthés «pacificatore» (oggi diremmo «garante») delle parti sociali, si fece promotore di una ristrutturazione in senso timocratico della società ateniese, inaugurando il lento processo che porterà alla costituzione della democrazia periclea; attuò inoltre un programma di alleggerimento dei debiti e di svalutazione, tesi a un riequilibrio delle esasperate sperequazioni sociali. Le intricate questioni storiche ed economiche connesse alle riforme soloniane, oggetto di un amplissimo dibattito scientifico, sono analizzate dalla Noussia nell’introduzione (pp. 21-43): una materia complessa e delicata, trattata con rigore e chiarezza. Qui importa sottolineare come Solone avesse deciso di parlare del suo impegno politico nelle poesie: la scelta del medium poetico per questioni di questo tipo apparteneva a una tradizione già consolidata, così come quella dell’occasione performativa (il simposio), ma l’impegno e l’estensione (che si percepisce anche dai frammenti) con cui il legislatore si era dedicato a quest’opera di propaganda autorizzano, con una piccola forzatura tipologica, a parlare di vera e propria poesia civile (del resto per alcuni frammenti, come il 2, il 3 e il 14, si potrebbe anche pensare ad una recitazione in piazza come discorsi in versi, vd. Noussia p. 44). Solone afferma deciso il proprio ruolo super partes: «mi ersi a protendere lo scudo possente su entrambi [scil. su poveri e aristocratici] / e non lasciai che né gli uni né gli altri riportassero un’ingiusta vittoria» (fr. 7.5-6), dove l’immagine omerica dello scudo è trasformata a suggerire l’idea di un inaudito oplita che solo, in mezzo al campo di battaglia, coraggiosamente separa i contendenti (vd. Noussia p. 270); la medietà come cifra della sua riforma, ma anche come sua inevitabile condizione, se così si deve interpretare il suggestivo fr. 14 «un poco di tempo mostrerà la mia ‘pazzia’ ai miei concittadini: / la mostrerà appena la verità si metterà nel mezzo» (un concetto ribadito anche nel fr. 31.8- 9). La coscienza del proprio operato appare con grande forza nei vigorosi giambi del fr. 30 (uno dei brani più belli, per lucidità argomentativa e per sapiente riutilizzo della tradizione letteraria), ad esempio nei vv. 16-20 «queste cose ho compiuto... / abbinando assieme forza e giustizia, / e sono arrivato in fondo alle promesse che ho fatto, / e ho scritto leggi ugualmente per l’umile e il nobile, / conciliando una retta giustizia per ciascuno», versi in cui è superata «la prospettiva etica individuale di Esiodo in nome di una più concreta Realpolitik» (Noussia p. 360). Talora la forte consapevolezza etica si riveste di sapienza gnomica: «nelle azioni di grande momento è difficile piacere a tutti» (fr. 9), laconico e virile pentametro con cui Solone, secondo la testimonianza plutarchea, avrebbe lasciato Atene dopo la sua riforma, per garantire la legislazione dalle ingerenze dei gruppi di pressione; «dai venti è agitato il mare, ma se uno / non lo muove, è tra tutte le cose il più giusto» (fr. 13), dove la gnome nasconde una nota metafora politica (il mare qui è probabilmente il demos, vd. Noussia p. 284). Presenza stabile nella costellazione dei Sette Saggi (dei quali anzi è stato probabilmente una figura paradigmatica), Solone non disdegnava anche topiche movenze apoftegmatiche: «per ogni aspetto il pensiero degli immortali è invisibile agli uomini» (fr. 21), «né nessun umano è felice, ma sono in pena / tutti quanti i mortali che il sole vede» (fr. 19). Ma queste concessioni a immagini più tradizionali sono una cifra affatto marginale della sua poesia (anche se con ottimi risultati, come il frammento sulle dieci ebdomadi della vita umana: fr. 23), che dà invece il meglio di sé quando la tensione etica si distende in argomentazioni serrate, come nel già ricordato fr. 30 o nel fr. 3 sulla Eunomia, o percorre una logica iterativa tanto lontana dalla nostra mentalità, quanto affascinante: è il caso del celebre fr. 1, settantasei versi dedicati al problema della giusta acquisizione della ricchezza, della teodicea e della norma del vivere umano, caratterizzati da ripetizioni, analisi degli stessi concetti da diversi punti di vista e da un modo di argomentare che hanno suscitato un intricatissimo dibattito critico. Le pagine di commento della Noussia (pp. 187-213) informano con grande chiarezza e precisione su tutte le questioni e risolvono più di un punto controverso; ed è assolutamente condivisibile, per quanto riguarda il problema strutturale, la sua preferenza per la «compresenza di due diverse prospettive in una stessa persona loquens» (p. 189), in pratica una prima parte con una presentazione della giustizia più ‘teologica’ e una seconda in cui lo stesso concetto è analizzato dal punto di vista dei vulgati ragionamenti umani.

Ma la poesia di Solone non conosceva solo la vena etica e politica: assai forte era la presenza dell’elemento erotico (ad esempio il fr. 16) e conviviale (fr. 24 «ora mi sono care le opere di Afrodite e di Dioniso / e delle Muse, che procurano delizie agli uomini»); e anche di quello letterario, come mostra ad esempio il «dialogo » con Mimnermo nel fr 26, cui è suggerito di modificare il pessimismo di una sua celebre poesia e di augurarsi che la morte lo colga non già a sessanta, ma a ottanta anni (si veda al proposito il commento della Noussia p. 329 sgg., che illustra molto bene la natura simposiale del carme). In pagine assai importanti (Solone poeta del suo tempo, 44-52) la Noussia mostra come Solone sia un poeta pienamente inserito nella realtà sociocomunicativa arcaica, in particolare nel fondamentale orizzonte simposiale (tanto che anche i frammenti che gli antichi pensavano destinati a pubblica recitazione, forse sono riscritture in versi, destinate all’eteria del simposio, dei discorsi politici tenuti all’assemblea), ma d’altra parte caratterizzato da una forte cifra personale (che lo differenzia dall’elegia ionica ad esempio), e in rapporto dialettico con la cultura del suo tempo. Particolarmente ricca di risultati, da questo punto di vista, si rivela l’analisi del linguaggio e delle modalità con cui il poeta ripensa la tradizione omerico-esiodea per giungere a risultati spesso innovativi: le pagine iniziali di Maehler forniscono un bell’esempio, con una lettura in filigrana del fr. 3, e il commento della Noussia offre molto di nuovo sotto questo aspetto praticamente ad ogni pagina.

Una parola, infine, sulla traduzione di Marco Fantuzzi, che pur essendo concepita come un ausilio per la comprensione del testo greco e quindi avendo come preoccupazione principale quella dell’accuratezza filologica, riesce tuttavia a raggiungere risultati di grande leggibilità ed efficacia: molti frammenti dimostrano come anche una resa eminentemente esegetica possa riprodurre, persino sull’arduo piano della sintassi, il tono dell’originale.

 

(Gianfranco Agosti)

 

 

 

Posidippi Pellaei quae supersunt omnia. Ediderunt C. AUSTIN et G. BASTIANINI (Biblioteca classica, 3), Milano, LED 2002, pp. 234, € 18,00.

 

 

A un anno di distanza dall’editio princeps dell’ormai celebre papiro di Milano con più di seicento nuovi versi di Posidippo, curata da Guido Bastianini e Claudio Gallazzi con la collaborazione di Colin Austin (Posidippo di Pella. Epigrammi [P.Mil. Vogl. VIII 309], Milano, LED 2001), gli stessi Austin e Bastianini raccolgono ora il «nuovo» e il «vecchio» Posidippo in questo agile volume che offre ai lettori testo critico e traduzione dei suoi circa 140 epigrammi a tutt’oggi noti. Inusuale è la presenza accanto al testo greco di una doppia versione, italiana e inglese: ma si tratta di una scelta intelligente, che permette a questo libro, destinato a rimanere almeno per qualche anno l’edizione di riferimento degli epigrammi posidippei, di valicare i patrii confini e proporsi come pienamente fruibile al pubblico internazionale (e non solo ai non specialisti, perché la traduzione diventa un importante strumento esegetico in parecchi dei nuovi epigrammi, resi oscuri vuoi dalle mutilazioni del papiro, vuoi dal ricorso del poeta a un lessico ricco di tecnicismi o ad una sintassi involuta). Il testo greco è costituito con lodevole equilibrio anche se forse una o due congetture al «vecchio» Posidippo, come quella di Austin in 140.8, sarebbe stato meglio limitarsi a proporle in apparato. Ovviamente l’edizione critica è lungi dall’essere definitiva, vista l’assidua (e prevedibile) fioritura di proposte testuali di cui gli epigrammi del papiro milanese continuano a beneficiare. La traduzione è attenta e precisa, condotta su un registro stilistico alieno da eccessive letteralità come da indebite licenze. Qualche volta le due versioni divergono sull’interpretazione del testo: così in 56.5 μαστòν ’έτι σπαργώντα  μετστρέχoν è reso «mentre al seno ancor turgido anelava» in italiano, «still seeking the swollen breast» in inglese (meglio, a mio avviso). Ma questo accade assai di rado. Vale invece la pena di sottolineare i risultati felici che i due studiosi assai spesso conseguono. Un buon esempio è 93: «Il buon Pitermo, o terra nera, dovunque tu / lo trattenga (perì infatti sotto il freddo Capricorno) / lievemente ricoprilo. Se invece sei tu che lo celi, o padre del mare, / deponilo intatto sulla nuda spiaggia / nell’ampia baia di Cuma, e il suo corpo, come si conviene, / o signore del mare, rendilo alla terra paterna». Bastianini sa rendere adeguatamente in italiano la misurata armonia dell’originale, e non si tira indietro davanti alla necessità di iterare «del mare» nell’ultimo verso (ove un traduttore frettoloso sarebbe tentato di variare con «dei flutti»), riproducendo una ripetizione che non solo per gli antichi era ben più accettabile che per noi, ma che ha anche la precisa funzione di sottolineare la distinzione tra i due mondi: tu, o signore del mare, rendi alla terraferma ciò che le spetta.

 

(Enrico Magnelli)

 

 

 

Saffo e le altre. Le poetesse greche dell’antichità, a cura di TINO SANGIGLIO, Istituto Giuliano di storia, cultura e documentazione 2002, pp. 134, € 5,16.

 

 

In questo bel volumetto, curato con simpatetica convinzione, Tino Sangiglio si propone innanzitutto di colmare un vuoto culturale: la poca conoscenza, presso il grande pubblico, della produzione poetica femminile nella Grecia antica. In effetti, a parte la poesia di Saffo, di cui possediamo una notevole messe di frammenti e di cui in questi ultimi anni sono apparse diverse edizioni, anche divulgative, è esistita in Grecia una poesia al femminile, certo periferica (per motivi storico- sociologici) e sostanzialmente desultoria, ma non per questo meno meritevole di essere conosciuta. Infatti pur nel generale naufragio della tradizione testuale (in qualche caso, però, rinvigorita da fortunati ritrovamenti papiracei) le personalità di alcune poetesse risultano apprezzabili e talora ci troviamo dinanzi a pezzi di notevole valore poetico, come sottolinea più volte Sangiglio con malcelato entusiasmo (fino a giungere talora a una decisa contrapposizione con «l’oro di princisbecco» [p. 59] della poesia maschile, ciò che tuttavia non aiuta molto a capire perché delle poetesse ci sia giunto così poco). Opportunamente il curatore ha premesso alla raccolta un lungo saggio, che delinea il quadro storico-letterario della poesia femminile greca e tenta, attraverso l’analisi della condizione sociale della donna dall’età arcaica a quella ellenistica, di spiegare la scarsa presenza di voci femminili nella poesia greca. Nella Grecia arcaica e classica i valori politici e culturali della polis, nonché il ruolo assai marginale nella vita pubblica della donna, erano poco adatti al sorgere di una poesia femminile: le poche eccezioni si contano soprattutto in aree marginali, come Lesbo, la patria di Saffo, o la Beozia, patria di Mirtide (VI sec.), maestra secondo la tradizione del grande Pindaro e di Corinna. È con l’ellenismo che si creano le condizioni per una presenza più continua della poesia femminile: «solo allora si svilupperanno forme e tendenze poetiche capaci di dare risalto e valore alle istanze interiori dell’artista e quindi in grado di valorizzare anche le esigenze e le aspirazioni femminili» osserva Sangiglio (p. 20), che tende a stabilire un’equazione forse troppo diretta fra sensibilità femminile e poesia fatta da donne. Se esiste indubitabilmente una linea tematica «femminile» (risalente almeno a Saffo, comunque) che via via si caratterizza con più forza, va tuttavia sottolineato che la tradizione antica (i grammatici, i curatori di antologie di epigrammi etc.) è una tradizione «maschile» e che dunque è anche possibile che ci siano rimasti i componimenti più aderenti all’immagine che la società antica aveva della donna (e in ogni caso la poesia patriottica di Telesilla, i nomoi mitologici di Corinna, il poemetto di invettive di Mero rivelano uno spettro tematico ben variegato). Non è forse casuale che, come ricorda lo stesso Sangiglio (pp. 23-24), ci sia una discreta tradizione su donne, spesso etère, che, fin dall’età arcaica, avevano composto opere piccanti, «manuali» di filosofia e di pratica erotica, soddisfacendo così in modo del tutto atteso la pruderie di una società in cui la donna è sempre rimasta, nonostante tutto, ai margini. Ma non si deve pensare che la cultura greca fosse ostile alle poetesse, anche se (sempre a parte l’eccezione di Saffo) taluni entusiastici giudizi hanno il sapore dell’inaspettata sorpresa: Corinna (di Tanagra, Beozia; V sec.), autrice di epigrammi e di nomoi, componimenti lirico-corali, avrebbe sconfitto Pindaro ben cinque volte; Erinna (dell’isola di Telos; IV sec.) è celebrata con accenti grandemente elogiativi da Asclepiade, Antipatro, Leonida e addirittura in un epigramma anonimo è paragonata ad Omero e a Saffo (traduzioni in Sangiglio, pp. 65-66).

Nell’introduzione Sangiglio delinea brevemente le caratteristiche di ognuna delle poetesse antologizzate, segnalando anche quelle che sono per noi poco più che nomi (Mirtide, Balbilla, Cleobulina, Edila): la sua disamina si ferma all’inizio dell’età romana, nella quale invero la percentuale di donne dedite alla poesia non aumenta affatto. A questo panorama val la pena di aggiungere qui la menzione di una poetessa tardoantica, l’imperatrice Eudocia, che nella prima metà del V sec. d.C. si dedicò intensamente all’attività poetica, componendo parafrasi esametriche di libri biblici ma anche un poemetto assai interessante, il S. Cipriano (anch’esso dipendente da una redazione in prosa) che racconta la storia di un Faust ante litteram e che è stato finemente tradotto qualche anno fa da Enrica Salvaneschi. Teso a ricercare le realizzazioni poetiche compiute della sensibilità femminile, Sangiglio ha buon gioco nel dedicare le pagine più cospicue all’analisi del sentimento amoroso di Saffo, delle quale è sottolineata l’originale e archetipica forza descrittiva, di Anite (di Tegea, Arcadia; VIV sec.), autrice di epigrammi su temi quotidiani e minimali (epicedi di animali, descrizioni bucoliche, accorati epitafi di giovani spose) e soprattutto di Nosside (di Locri Epizefiri; inizio del III sec.), cantrice di un amore più gioioso e meno angosciato rispetto a quello di Saffo.

L’antologia, con testo a fronte (non sempre però secondo le edizioni più attendibili), reca le traduzioni di Saffo (fr. 1 Voigt, 31, 16, 49, 47, 48, 81, 94, 102, 112, 130, 137), di Corinna, di Prassilla, dei tre epigrammi di Corinna più una ventina di versi della Conocchia (un epillio esametrico, l’opera più famosa della poetessa, purtroppo rimastoci solo in malconci frammenti papiracei), gli epigrammi di Anite, Mero e Nosside. Nella resa italiana Sangiglio dà prova di fluidità di scrittura, particolarmente a suo agio con gli epigrammi, di cui in genere è offerta una resa aderente a una medietà sintattica e lessicale che privilegia la leggibilità. Il risultato è quasi sempre buono (talora più scorrevole dell’originale): come esempi possono valere Anite, AP 7.190 «A un grillo, usignolo dei campi arati, / e a una cicala, abitatrice delle querce, / la piccola Mirò costruì questa tomba comune / versando lacrime di bimba / quando la Morte spietata le rapinò / i suoi due cari balocchi», oppure Nosside, AP 7.414 «Quando passi, fatti una bella risata e poi dimmi / una buona parola: sono Rintone di Siracusa, / un piccolo usignolo delle Muse, ma con le parodie / tragiche mi sono guadagnato un alloro tutto mio». Talora il traduttore va troppo oltre nella tentazione di esplicitare il testo (come ad esempio in Anite, AP 7.215: «giaccio / senza vita sulla sabbia fradicia della spiaggia», laddove l’originale è più severo κεîμαι δε ραδιναν τάνδε παρ’ ήϊóνα, «giaccio su quest’umida spiaggia»; o nella banalizzazione della sintassi di Erinna, AP7.710.3), ma la qualità della traduzione non si discute (molto buona è anche la resa del celeberrimo inno ad Afrodite di Saffo, ad esempio). Non mi trova d’accordo invece la tendenza (peraltro di consolidata tradizione, se si pensa ad esempio a Quasimodo) a tradurre in modo compiuto i testi frammentari, che dà inevitabilmente risultati fuorvianti: è il caso, ad esempio, del frammento della Conocchia di Erinna (pp. 98-101), per cui oltretutto sono accettate interpretazioni discusse come quella della tartaruga ai vv. 16 sgg. (e in generale il quadro che Sangiglio dà della poesia di Erinna è poco informato delle recenti acquisizioni critiche). È insolito inoltre l’uso, nell’introduzione e nelle note, della grafia moderna (il solo accento acuto) per i termini greci antichi. Ma l’autore ha inteso fare non un lavoro di filologia, bensì di valorizzazione di una tradizione culturale: in tale senso l’operazione gli è pienamente riuscita.

 

(G.A.)

 

 

 

MILO DE ANGELIS, Sotto la scure, Milano, Sàturos 2002, s.i.p.

 

 

In Sotto la scure silenziosa Milo de Angelis isola quattro temi del De rerum Natura: la natura, l’angoscia, la morte e la malattia per associarli a «motivi musicali, con i loro movimenti e le loro variazioni » (De Angelis).

La traduzione di De Angelis è un légein che musicalmente tiene insieme il cerchio ritornante della natura lucreziana, agendo tuttavia su una materia che non è più nel grembo del tò zòon del Vivente. Se per Lucrezio la Natura è la legge degli atomi e ciò che da essa procede, se il divenire del Tutto è Nómos e Thánatos, la voce di De Angelis è quella di un poeta assolto da ogni legge metafisica (quando invece l’atomismo lucreziano seppur non provvidenzialistico non di meno è lex). Ciò che in Lucrezio è vortice di atomi che si scontrano, in De Angelis diventa paesaggio lunare, desertificazione, musica di una materia che, spogliata di tutto, plotinianamente si rivela nulla. La materia di De Angelis arde di una passione smisurata e sconosciuta al mondo greco-latino: la passione della distanza, la passione per quella che Heidegger chiamerebbe differenza ontologica, ovvero lo scarto fra essere e ente che ritorce l’apophantikós nella sua impossibilità. Da quale distanza è possibile dire quello che segue, chi può dirlo? «Vedrai l’eterno agitarsi dei corpi nel vuoto» (p. 17).

E da quale prospettiva, per quale occhio, la seguente visione? «Guarda il mare, la terra, il cielo: tre forme della natura, tre masse di atomi, tre cose viventi. Ebbene, basterà un solo giorno a distruggerle. Sì, un solo giorno: crolleranno, finalmente insieme a tutta la materia, in un fragore assoluto» (p. 23).

Impossibilità che diventa produttiva, mater polisemica, generatrice di linguaggio: (ri)diventa paradossalmente natura. Natura sui generis, o meglio: extra genera. «Osservando il cielo e la terra, anche senza conoscere l’origine delle cose, posso affermarlo: il mondo non è stato creato per noi». E di qui il «come» dell’angoscia, della paura di Nulla: la belva ha paura della natura, mentre l’uomo si angoscia del nulla esibito dall’eclissi del naturale come dimora che accoglie. L’angoscia «ci domanda a sé, ci pretende»: «Forza, devi sbrigarti, devi arrenderti al tempo, devi morire». L’angoscia assedia la vita sfigurata e indebolentesi, la scava e, con una contiguità a tratti ironica, dona senso a partire dalla disperazione di Senso. E il Senso è figura di un’angoscia che non è mai inerte non senso. A proposito di De Angelis scrive Luigi Tassoni: il non senso è carico «di tracce di un surplus che nel discorso si amplifica piuttosto che ridursi all’insensato in sé e per sé». Il grado zero è il prisma dell’angoscia che scompone il Senso in policromia, disseminazione, esplosione.

In De Angelis, il «come» dell’angoscia è legato al vuoto pneumatico della modernità talmente assolta dal Tutto da non potersi che legare al proprio sgomento di libertà.

Terzo motivo di un Weltschmerz, il «chi» dell’angoscia è l’amore che De Angelis rende voce-corrispettivo uditivo della stasi allucinata della «pupilla tragica di Lucrezio». Se per Lucrezio, fedele ad Epicuro, l’amore è inganno che distoglie dal piacere catastematico cui il sapiente deve tendere, in De Angelis diventa forza desiderante e distruttiva, nevrosi dei sensi e ferita. «Alla fine, non appena il desiderio accumulato nel sangue trova uno sbocco, il loro agitarsi ha una pausa. Ma poi li riprende la stessa rabbia e la stessa frenesia. Non sanno cosa cercare e non possono trovare rimedio al loro male. Si decompongono così, in una misteriosa ferita».

Un amore carnefice e fisico, fatto di respiro cadenzato su cadute, di calamità, di semi di una morte concupiscente. «Oscuri impulsi li spingono ad aggredire il corpo. [...] Sperano sempre che l’essere capaci di accendere una fiamma così tremenda sia anche in grado di sopirla: illusione!» (p. 67).

Infine, in Lucrezio la malattia che colpisce lo stolto è sciagura, quella che affligge il sapiente è l’occasione perché la sapienza rifulga scacciando un timore ingiustificato. La malattia è invece trattata da De Angelis come teorema e come rivelazione, ovvero come due contraddizioni patentemente esibite l’una tramite l’esistenza dell’altra. «Il male li inghiottiva. Corpi essiccati» (p. 81). «Altri invocavano una briciola di vita, supplicavano di esistere ancora un giorno» (p. 83). La peste di Atene coincide con il senso del disfacimento, rivelazione che possiede l’evidenza d’un teorema (la peste è ineluttabile) e teorema che ferisce con la violenza di una rivelazione (la peste è ineluttabile per me).

E tutto questo fino a che «vedrai l’eterno agitarsi dei corpi nel vuoto», fino a che vedrai i primordia caeca, che compongono le stelle e la terra, il tempo e gli uomini.

«Quattro stagioni, senza una quinta per decidersi per una di esse» (Celan). Il luogo inesistente, l’impossibile quinta stagione che fa valere il suo nulla come intralcio e che rende inattuabile ogni decisione, è la quinta stagione sotto il segno della quale crediamo essere la poesia di De Angelis.

Essa sta negli accenti, nella monodia sospesa e ripresa, negli oblii necessari e senza misericordia, in un Lucrezio esposto ad una dimensione atopica eppure realissima, ucronica perché non più cadenzata sulle stagioni della natura; in De Angelis, anzi, la natura è divenuta una delle stagioni, insieme all’angoscia, alla morte, alla malattia, non è più lo spazio che, grecamente, contiene e serba tutte le altre.

Il confronto con Lucrezio è sempre un’infrazione, una personalissima presa di posizione, una violenza che suscita un páthos sconosciuto all’autore latino.

I trentasei frammenti scelti da De Angelis in Sotto la scure silenziosa hanno ricreato l’increato Lucreziano a partire dalla misteriosa alterità celaniana, «deserto buio di atomi, nulla», e ciò che resta è lo stupore per una voce inaudita.

 

(Lorenzo Chiuchiù)