POESIA BRASILIANA

a cura di Prisca Agustoni

 

 

 

 

CARLOS NEJAR, A idade da Noite (poesia 1); A idade da Aurora (poesia 2), Fundação Biblioteca Nacional / Ateliê Editorial, Rio de Janeiro / São Paulo 2002, Volume 1, pp. 462. Volume 2, pp. 509, s.i.p.

 

Carlos Nejar (Porto Alegre, Rio Grande do Sul, 1939) riunisce in due volumi l’intera produzione poetica inaugurata nel 1960 con Sélesis, e caratterizzata dalla pubblicazione, regolare e costante durante quattro decenni, di testi poetici di eccezionale qualità, che hanno fatto di lui un poeta unanimamente considerato – dalla critica letteraria brasiliana, ma non solo – come una delle voci più importanti della poesia brasiliana posteriore alla generazione di Carlos Drummond de Andrade e João Cabral de Melo Neto. Anche la specialista italiana di letteratura brasiliana, Luciana Stegagno Picchio, ha segnalato il suo nome come quello di « un poeta di grande proiezione nazionale e internazionale, capace di costruire la poesia come si costruisce un edificio » (nel volume História da litereratura brasileira, pubblicato presso l’editore Nova Aguilar nel 1997). In effetti, il dettato poetico di Nejar evoca le ampie estensioni del Pampa del sud del paese, grazie ad un verso che spazia per le amplitudini della poesia epica, indicando al lettore il mistero di ciò che esiste, come un demiurgo che si nasconde dietro il proprio sguardo capace di catturare la genesi quotidiana : «bisogna decifrare / le cose che ti vivono // bisogna conoscere / l’infanzia dei gesti // bisogna abbandonarsi / all’arrivo della Notte // e l’uomo è triste Sélesis / e noi siamo gesti / dimenticati da Dio.//» (frammento tratto da Poema de Sélésis, 1960). D’altro canto, il verso di Carlos Nejar si immerge con cristallina autenticità nella tradizione lirica e, depurato da qualsiasi preziosismo, compone, poesia dopo poesia, anno dopo anno, il grande canto delle cose che esistono, visibili o invisibili, affidandosi con profonda fede all’antica capacità – tutt’ora moderna – della metafora di reinventare il mondo, per proporre una nuova lettura di ciò che, intuito durante «l’età della notte», diventerà segno, incisione rupestre, durante «l’età dell’aurora»:«Conoscerai la speranza, / posteriore alla morte di tutto» (frammento tratto da Canga, 1971) perché «siamo uomini / di un tempo curvato /sotto il peso del sole» (frammento tratto da O campeador e o vento, 1966). In questo senso, il poeta è colui che si presta unicamente a «scrivere il dolore / senza rimuovere il fuoco, / l’antica cenere», ossia, «scrivere / la ferocità delle cose» (frammento di A ferocidade das coisas, del 1980).

Come possiamo notare, la poesia di Carlos Nejar mette in scena esplicitamente un profondo senso di fratellanza umana, fratellanza da intendersi meno nella sua accezione cristiana quanto piuttosto nella sua irrinunciabile apertura verso il cosmo, e caratterizzata dall’onnipresenza della natura, ora protettrice, ora minacciosa, come a volerci ricongiungere al valore di quanto esiste di sacro ed imprescindibile nella vita: « rimane la terra, passa l’aratro / e il lavoro è ciò che tramandiamo, / come nome, come eredità; / rimane la terra, la notte trascorre [...] Arriva il sole e scava la terra; / il seme è come una spada» (frammento tratto da O campeador e o vento). La poesia di Nejar ci presenta personaggi quotidiani, che fanno parte dell’immaginario popolare brasiliano, come il postino, il contadino, il mistico, il pittore, il poeta, il musicista, e compongono una specie di saga umana nella quale ad ognuno è riservato il proprio angolo di osservazione della realtà. Il poeta presta quello che ha di più caro, ossia il suo ascolto e la sua commozione, chiamata in causa molto spesso da un grido così doloroso e così meraviglioso quanto quello manifestato dai suoi personaggi. Ecco perché scaturisce dalla lettura di Nejar un messaggio di speranza, come a voler indicare una possibile redenzione umana attraverso la poesia che si fa presente nelle piccole cose, nei minimi riti quotidiani,come nell’inflessione della voce, nel gesto di  seminare la terra, o nel pulirsi il viso con dell’acqua fresca. In questo senso, addentrarsi nello spazio poetico di Carlos Nejar è scoprire l’ordo amoris di un grande poeta, la sua visione del mondo ancorata in un sentimento di solidarietà che germoglia direttamente dalla terra brasiliana, come le pietre preziose che vi si trovano e  resistono, nonostante anni e anni di spoliazioni. Pietre preziose come i sorrisi della gente, gli incendi degli alberi framboyans, l’incantesimo provocato dalle araucarie o l’eco del vento minuano a sferzare nei campi del Pampa.

Come già ebbe modo di notare il critico tedesco Günter Lorenz durante gli anni ottanta, la poesia di Nejar contiene una forza «che rappresenta lo spirito brasiliano, la musicalità e profondità filosofica del Brasile», paragonando – a giusta ragione  – il dettato poetico di Nejar con la stessa matrice culturale, continentale, tellurica di Guimarães Rosa del Grande Sertão: veredas, dove si delinea un Canto Generale alla maniera brasiliana con le specificità regionali della sua gente, ossia,  passando dai filosofi del Sertão ai trovatori del Nord-Est fino ai gaúchos del sud del paese. Gente comune attraversa le strofe del poeta, ma per mezzo delle parole del poeta, questa stessa gente irradia una dimensione umana universale, trasformata in archetipi umani, come se si trattasse di uno o molti Don Quichotte contemporanei. Un Canto, quello creato dall’opera di Nejar, dove dannazione e redenzione si danno la mano per forgiare un inno alla vita, quasi fosse una sete insaziabile e profondamente umana.

Carlos Nejar è membro dell’Accademia Brasiliana di Lettere, è traduttore dell’opera di Jorge Luís Borges e Pablo Neruda, ha fatto parte della giuria del premio Casa de las Américas (Cuba) e del premio Camões (Portogallo) ed ha all’attivo anche diversi titoli come romanziere. Attualmente vive a Guarapari, nella regione costiera che appartiene allo stato  brasiliano dello Espírito Santo.

 

[Prisca Agustoni]

 

 

 

 

SALGADO MARANHÃO, Sol Sangüíneo, Rio de Janeiro, Imago Editora 2002, pp. 120, s.i.p. 

 

Questo è il quinto libro del poeta e compositore José Salgado Santos, piú noto come Salgado Maranhão, nato nell’omonimo stato del Nord-est brasiliano nel 1953, trasferitosi a Rio de Janeiro nel 1973. La poesia di Salgado Maranhão, che presenta un linguaggio poetico maturo e in costante tensione tra lo slancio umano di ricerca del dialogo e la secchezza di un dettato poetico forgiato dalla lavora della terra e dall’addomesticamento della pietra («nascere è stato addomesticare / le pietre», p. 19), non può essere presentata come una rivelazione poetica nel panorama della letteratura brasiliana contemporanea, dato che l’autore è già stato premiato con riconoscimenti nazionali importanti, come il Premio Jabuti attribuito nel 1999 al suo libro Mural de Ventos, forse il premio più importante del Brasile. Tuttavia, l’opera di Salgado Maranhão rimane una pepita d’oro nascosta sotto la terra, in un paese dove la poesia ha trovato un suolo particolarmente fertile, ma dove molti poeti investono nel miracolo dell’eccessiva esposizone massmediatica per imporsi e costruirsi uno status letterario. In questo senso, Salgado Maranhão nuota controcorrente, rifacendosi ad un’autenticità poetica, un’esigenza espressiva che trascende la fretta di ciò che dev’essere consumato, ma scommette sulla pazienza di ciò che è cucinato a fuoco lento, che passa iniziamente dal vissuto e che richiede coraggio perché si affrontino le domande essenziali : «che mari mi addensano / al mio interno // io che mi costruisco / al margine // io che rinasco / dal limbo // al dolce furore /delle acque?» (p. 60). Questo libro rivela tutta l’originalità del suo stile, del suo percorso estetico e personale, che attinge dalla filosofia orientale l’armonia necessaria per conciliare la convivenza quotidiana della poesia con la vita dicotomizzante e lacerante del mondo occidentale. Per il poeta, la poesia è una pratica contemplativa, che richiede gratuità ed abbandono, affinché si possa percepire che «ciò che muove la leggenda / è il folgorare dell’incendio, / il raggio invincibile / fecondando la pietra» (p. 16). La poesia di Sol Sangüíneo è la forza sottile che dà vertigine allo schelettro delle parole, l’alchimia che rinvia alla condizione umana – mitica e concreta – delle peregrinazioni, della nostra «aratura dell’esilio» (p. 20). In effetti, l’esilio rappresenta una delle condizioni umane più dolorosamente visibili in questo terzo millennio reduce di conflitti etnici, religiosi ed economici, ma paradossalmente questa stessa condizione è sempre stata l’ossatura ontologica dell’umanità e dei poeti che, come Salgado Maranhão, si sono esiliati nella lingua senza perdere di vista la realtà umana e la sua cognizione del dolore, per compiere la lunga odissea esistenziale che scava nei meandri della coscienza, compiendo la circolarità che dal corpo conduce all’anima per infine ricongiungerla e riconciliarla con il corpo del mondo. Ecco perché l’autore si serve dei «rammendi del linguaggio / a svestire ciò che vestono » (p. 26), per scoprire che « la mia terra è il nome / dell’indomabile enigma, / la parola fisica incrostata /nella favola » (p. 27), e per convincersi, alla fine, del fatto che «la mia terra è la mia pelle » (p. 27), ossia, il senso che le cose assumono per noi è intrinsecamente legato al nostro corpo, al nostro essere uomo, donna, bianco o nero (come è il caso di Salgado Maranhão), del Sud o del Nord-est del Brasile, corpo, infine, con il quale dobbiamo rappacificarci, perché egli rappresenta la nostra condizione iniziale e finale d’esistenza. E il poeta ci ripete che «tutte le cose vengono gravide / di fuoco. Di un certo navigare / verso nessun molo» (p. 24), confermando la lacerante coscienza della precarietà umana, con la morte sempre all’orizzonte. Tuttavia, il poeta non si abbandona al nichilismo, al contrario, ci spiega che il fuoco è anche fonte di luce, è il sole sanguineo, ossia, la luce che emana dal corpo sopravissuto alla tentazione della rinuncia, il corpo armato di voce e soffio vitale, perché «quando c’è voce, / è la cicatrice che canta » (p. 34), dato che « per lo meno resta / il verso – arido / minerale che soffia / la sua luce obliqua» (p. 26).

 

[P.A.]

 

 

 

 

EBERTH ALVARENGA, Desafins, Belo Horizonte, Scriptum Livros 2002, pp. 64, s.i.p.

 

La lettura del libro d’esordio di Eberth Alvarenga, poeta nato a Belo Horizonte (stato del Minas Gerais) nel 1953, libro di una fattura grafica raffinata, ci pone di fronte ad una variata gamma di possibilità tematiche. Nel tentativo di esplicitarle, il poeta tratta alcuni temi in superficie, altri in profondità, com’è il caso della tensione tra un tempo ideale (desiderato) e un tempo reale, così come la delicata questione dell’individuo frammentato dalla nostra epoca ‘post-moderna’, e la proiezione di questo stesso individuo nelle cose, nel suo contesto concreto. Evidentemente, questi temi non esauriscono il contenuto del libro, al contrario, sono appena degli indicatori di ulteriori cammini che Eberth Alvarenga potrà eventualmente intraprendere per configurare il contorno della sua voce poetica.

Già sin dall’inizio dell’opera, il tempo si presenta come l’asse centrale dell’esistenza umana, nonstante il fatto che la sua cattura – tante volte anelata – si sia rivelata impossibile. Il poeta ne è cosciente e, con un pizzico di nostalgia, contrappone questo tempo ideale (contenuto nella metafora di «un cielo posseduto») ad un tempo di scissione «che dona amori incerti / d’incanti» (Incerteza). Il poeta espande questa percezione per constatare quanto è difficile la ricerca «dei tempi / che non si agendano più / persi, senza ritorno orgoglioso al molo» (Diário). Ciò nonostante, Eberth Alvarenga non accetta passivamente la condizione di prigioniero di Cronos. All’interno di ciò che lo divora, il poeta crea la nomenclatura di un tempo differente, misurabile ed umano, grazie al quale riconosce – ora in un’ottica collettiva – le tensioni che noi stessi, esseri umani, provochiamo. Da un altro punto di vista, questa volta individuale, attraversato dalla coscienza del prezzo che si paga per l’esistenza, il poeta registra la concretezza del tempo che lascia segnali espliciti nel corpo : « Le rughe sono digitali del tempo. / Il tempo le ha digitate / senza fughe » (Rugas). Per quel che riguarda la lacerazione dell’individuo – l’« io scisso nel mezzo », come dichiara il poeta in Dial – è interessante considerarlo come un ritratto di un’altra forma di tensione, ossia quella di un individuo che si vuole plurale ma che, di fronte al fallimento di quest’impresa, deve poter affrontare il proprio sguardo senza servirsi del sotterfugio di maschere che lo proteggano. E, così come Álvaro de Campos – una delle voci poetiche più importanti create da Fernando Pessoa – (che, nell’ansia di « sentire tutto in tutte le maniere » scoprì che quest’impresa era impossibile e si trovò confrontato con se stesso, solo, seduto sull’orlo di una finestra), Eberth Alvarenga desidera poter essere « fratello di tutte le creature » (Anunciata), ma, una volta che il desiderio è reso impossibile, al poeta brasiliano rimane solamente la soluzione – già leopardiana – di accontentarsi della vita « fragile come un pistillo di fiore » (Anunciata). Tuttavia, Eberth Alvarenga non registra il dilaniamento dell’individuo guidato unicamente dal pessimismo, presente in passaggi come «consumata ruggine, / quello che siamo» e «miele putrefatto, / fetido orrore, / quello che siamo» (Loucura). L’ironia gli permette un avvicinamento inusitato a temi cruciali che riguardano la vita ed i relativi limiti imposti all’uomo dalla natura umana, senza che il dettato poetico s’inabissi in un nichilismo che uccide l’individuo e annulla qualsiasi tentativo di comunicazione. Questo rischio è preso in considerazione dall’autore, come possiamo osservare nei prossimi versi citati, ma sarà superato dalla relazione dell’essere umano con le cose, mostrando in questo modo un nuovo percorso esistenziale caratterizzato dalla preservazione del senso della vita : «Le bocche portano con sé / parole e lingue / incostanti, / spiriti sonori / di gole dominanti, / che s’incaricano / di vivere o morire, / in celtico, ebraico, / greco, latino e / in altre lingue / pietrificate / o non ancora nate». Per riassumere, possiamo dire che troviamo, in questo libro d’esordio, una grande ricchezza di provocazioni estetiche che ci stimolano ad interrogare la realtà e ciò che di questa realtà si proietta oltre i nostri limiti individuali e collettivi.

 

[P.A.]

 

 

 

 

DALILA TELES VERAS, À janela dos dias. Poesia quase toda, Santo André, Alpharrabio Edições 2002, pp. 192, s.i.p. 

 

Questa antologia della poetessa portoghese Dalila Teles Veras (nata nel 1946 a Funchal, isola di Madeira), radicata da quasi cinquant’anni in Brasile, nello stato di San Paolo, riunisce i libri pubblicati negli ultimi vent’anni, e rappresenta una «sintesi della sua traiettoria poetica», come spiega l’autrice nella postfazione. Lei stessa ci confessa di essere una poetessa « senza scuola né generazione », ma appena con esplicite influenze poetiche (che chiama «dialoghi») di poeti come i brasiliani Carlos Drummond de Andrade, Murilo Mendes, João Cabral de Melo Neto, Adélia Prado, Jorge de Lima, Manuel Bandeira, Ferreira Gullar, Mário Quintana, nonché i portoghesi Fernando Pessoa, Eugênio de Andrade e Luís de Camões.

In effetti, la poesia di Dalila Teles Veras non aderisce, a priori, a nessun credo poetico formale o contenutistico, al contrario, la poetessa tenta di catturare con rapidi sguardi le molteplici sfacettatture della realtà, i diversi momenti della luce solare, i movimenti inattesi della natura, come rivelano questi versi che aprono la terza sezione del libro, intitolata Elemento em fúria : «I miei occhi di lince / fiutano il caos / alla ricerca di dei / notturni, i miei occhi / percorrono e decifrano il catrame /: tentativo di vislumbrare / cammini» (Vigília). Nella stessa direzione vanno letti i seguenti versi, che rivelano l’arguità dell’essere umano, spettatore «alla finestra dei giorni» (À janela dos dias) ma agente che può interferire nel proprio destino, e il cui sguardo penetra nelle ombre più scure della vita per compiere la sua ressurrezione quotidiana : «Le sentinelle dormono / ed i miei occhi, lampioni /vegliano la notte / alla luce della propria luce» (Vigília). Solamente dopo essersi immerso nella notte e nelle sue zone d’ombra, l’io poetico espresso da Dalila Teles Veras può affermare che «decodificati i segni / non è più insolito il paesaggio » (Turista veterana), dove possiamo intendere, per paesaggio, tutto ciò che risiede all’interno dello sguardo, la minaccia che si nasconde dietro le palpebre, e che può essere risvegliata dalla voce della poetessa : «cosa pretendi /con la tua danza di lessico / e questa ondulante coreografia? // Non liberare così, poeta / la tua voce incantata /sveglierai il serpente / e spaventerai i turisti» (O encantador de serpentes).

L’autrice, che conosce i suoi demoni, si dona premurosa al corpo della poesia, che l’accoglie ma non risponde alle sue interrogazioni: «Che mare è questo /che mi fa pesce / che mi fa alga?» (Escafandro). Ecco perché Dalila Teles Veras sa che è necessario svincolarsi dalla trappola della logica cartesiana, la quale richiede una causa per ogni effetto, e afferma la sua voglia di libertà: «Urge calmare i demoni / cucire i bottoni / viaggiare senza destinazione / per il piacere di arrivare» (Urgência).

L’antologia rivela la capacità dell’autrice di maneggiare tecniche poetiche che vanno dalla poesia di verso libero alla poesia in prosa, passando per lo stile di origine giapponese dell’haikai, peraltro frequentemente praticato a San Paolo e negli stati del sud del Brasile, dove maggiormente si trovano le colonie degli immigranti giapponesi e discendenti, e dove poeti di altre origini culturali hanno adottato questo dettato poetico. Basti ricordare la poetessa Alice Ruiz, moglie del poeta Paulo Leminski, conosciuta per i suoi splendidi haikais.

La poesia di Dalila Teles Veras presenta un’evoluzione a favore del rigore stilistico, della capacità di dire molto senza spendere molte parole, rifacendosi quindi, ancora una volta, alla tradizione letteraria brasiliana che predilige il verso asciutto, rigoroso, contenuto, tagliente come un coltello ma dolce e musicale come il canto del sabiá.

 

[P.A.]

 

 

 

 

ANTONIO CARLOS SECCHIN, Todos os ventos, Rio de Janeiro, Editora Nova Fronteira 2002, pp. 160, s.i.p. 

 

Questo libro, di un’accurata ed elegante grafica, è un’antologia dei testi poetici di Antonio Carlos Secchin, nato a Rio de Janeiro nel 1952, dove risiede ed esercita la professione di professore universitario e saggista. Il libro è accompagnato da un’introduzione del critico letterario Eduardo Portella, ed è impreziosito da un breve saggio del noto critico letterario Alfredo Bosi, il quale mette in evidenza l’ancoraggio del dettato poetico Secchin nella tradizione satirica brasiliana, che trova le sue fondamenta in autori come Gregório de Mattos, Álvares de Azevedo e successivamente nell’attitudine critica dei poeti della settimana d’Arte Moderna del 1922 (in particolare Oswald de Andrade) impegnati nella refutazione del canone estetico del parnassianismo. In questo senso, una delle caratteristiche presenti in questi autori, così come nella poesia di Antonio Carlos Secchin, è il tratto fortemente metalinguistico delle composizioni, dove la parola diventa la calamita che concentra su se stessa tutte le attenzioni. 

D’altro canto, la poesia di Secchin assume un marcato aspetto polifonico, sia in quanto alla sua forma, che spazia dal sonetto, all’aforismo, alla poesia di metrica libera, all’haikai, per servirsi anche di alcuni elementi della poesia visuale (come la poesia Itinerário de Maria), sia in quanto al tema, che attinge ad aspetti del verso colloquiale, della vita quotidiana del poeta e della sua città, cuciti su una trama poetica che convoca la mitologia classica ma che non per questo riproduce un dettato poetico cristallizzato nel tempo, come mostrano questi versi che ricordano, in parte, la scioltezza espressiva della poesia marginale scritta in Brasile durante gli anni della dittatura militare : «Non posso fare di me uno spettacolo. / La platea fuggirebbe / prima del secondo atto. / Un attore perplesso mischierebbe / versi, versioni e fatti. / E un critico, maldicendo la sua sorte, / latrerebbe feroce / contro la mia verve / sibillina» (Confessionário).

In effetti, Secchin fu uno dei ventisei poeti selezonati da Heloísa Buarque de Hollanda per comporre l’ormai famosa antologia 26 Poetas Hoje, pubblicata nel 1975 nell’intento di raggruppare un numero significativo di poeti che stavano emergendo sulla scena letteraria di un paese controllato dalla censura, in un periodo in cui, nonostante il sogno vigente di una nazione alla ribalta nel panorama economico e culturale mondiale, il Brasile viveva una realtà di violenta repressione dittatoriale.

Dal lontano 1975 fino al 2002, anno di pubblicazione di Todos os ventos, il percorso di Antonio Carlos Secchin si è sviluppato ed è cresciuto fino a raggiungere le proporzioni di una personalità importante nel campo della letteratura brasiliana, più in luce come «professore ammirato, come acuto analista dell’avvenimento letterario, come saggista sagace» che come poeta, rifacendoci alle parole di Eduardo Portella nell’introduzione. Questo libro ci conferma la dedizione che Secchin ha riservato alla letteratura brasiliana contemporanea ed ai suoi protagonisti: le poesie sono costellate da dediche a nomi importanti della poesia e della critica letteraria brasiliana contemporanea, come Antonio Cícero, Ruy Espinheira Filho, Ivan Junqueira, Eucanaã Ferraz, Waly Salomão, Suzana Vargas, Ferreira Gullar, Ivo Barroso, Carlos Nejar, Olga Savary, Armando Freitas Filho, Marly de Oliverira, Marco Lucchesi e molti altri, una dimostrazione del suo ruolo centrale nel panoramaculturale brasiliano. Ma questo libro ci mostra anche come il critico ha saputo accompagnare, attraverso il suo dettato poetico, le evoluzioni della poesia brasiliana durante gli ultimi decenni.

 

[P.A.]

 

 

 

 

Segnalazioni

 

JOSÉ ALBERTO PINHO NEVES (coord), Companhia de Poetas, Juiz de Fora, Funalfa Edições 2003, pp. 392. s.i.p. 

 

Companhia de Poetas è il titolo di quest’antologia che riunisce poeti del blocco economico del Mercosud latinoamericano, ossia, autori del Brasile, dell’Argentina e dell’Uruguay. Progetto realizzato dal Municipio della città di Juiz de Fora (nello stato brasiliano del Minas Gerais), l’antologia, oltre a rappresentare un importante progetto di fratellanza poetica tra i paesi ispanoamericani ed il Brasile, fatto purtroppo ancora molto raro, gode anche di una raffinata soluzione grafica che valorizza le singole poesie. Il volume rende omaggio al poeta brasiliano Mário Quintana (1906-1994), il quale inaugura l’antologia con tredici poesie. I poeti brasiliani che compongono il libro sono Adão Ventura, Affonso Ávila, Cláudia Roquette- Pinto, Edimilson de Almeida Pereira, Esio Antonio Pezzato, Fábio Weintraub, Fabrício Carpinejar, Hamilton Alves, Jaime Vaz Brasil, Lu Menezes, Myriam Fraga, Osmar Pisani, Renata Pallottini, Ricardo Rizzo, Sandra Regina Sanchez Baldessin, Wilson Bueno. 

I poeti argentini presentati sono Arturo Carrera, Diego Formia, Joaquín Giannuzzi e per l’Uruguay sono presenti Circe Maia, Marcelo Novoa Sepúlveda e Salvador Puig. La presentazione del volume è di Antonio Carlos Secchin. 

Il libro non si trova in vendita presso le librerie, ma dev’essere richiesto al Municipio della cittá di Juiz de Fora, non trattandosi di una pubblicazione con fini lucrativi. 

 

 

 

 

JORGE SANGLARD (org.), Poesia em movimento, Juiz de Fora, Editora Universidade Federal de Juiz de Fora 2002, pp. 224. s.i.p. 

 

L’intento di quest’antologia è recuperare, a distanza di trent’anni, l’effervescenza letteraria che Juiz de Fora, città di origine di Murilo Mendes, Pedro Nava e Affonso Romano de Sant’Anna, ha vissuto durante gli anni settanta, quando sorsero nuove voci interessanti ad aggiungersi al già ricco panorama letterario della città. Furono gli anni di formazione di poeti che raggiunsero successivamente (durante gli anni novanta) una visibilità nazionale nel panorama letterario brasiliano. La revista D’Lira fu l’epicentro di questo movimento, e nonostante siano stati pubblicati tre soli numeri, riscosse un notevole interesse presso poeti e critici letterari di quegli anni. 

Poesia em movimento ripropone alcune delle poesie che circolarono artigianalmente nella regione di Juiz de Fora, in seguito raggruppate in antologie dei rispettivi autori, che confermano la peculiarità di questa città dove si concentrano voci poetiche di rilievo. Tre saggi d’introduzione (ad opera di Jorge Sanglard, Gilvan Procópio Ribeiro e Affonso Romano de Sant’Anna) accompagnano il libro, così come delle belle riproduzioni di illustrazioni di artisti che integrarono il movimento culturale iniziato negli anni settanta, ovvero, Arlindo Daibert (1952-1993) Jorge Arbach e César Brandão.

 

 

 

 

OLGA SAVARY (org.), Poesia do Grão-Pará, Rio de Janeiro, Graphia 2001, pp. 522, s.i.p.

 

Creata dall’ambizioso progetto della poetessa Olga Savary – nata a Belém, capitale dello stato amazzonico del Pará, nel 1933 – di riunire poeti nati nello stato del Pará, o ivi cresciuti, questa preziosa antologia è frutto di quasi cinquant’anni di lavoro, collezionando testi, lettere, libri di poeti poco noti al pubblico dell’intero Brasile, affiancati da personalità letterarie di peso appartenenti allo stato del Pará. Il risultato mostra l’eccezionale qualità della letteratura di questo stato del nord, letteratura meno diffusa e meno conosciuta in ragione della sua posizione geo-politica (è noto che autori che non vivono nelle città del sud-est del Brasile incontrano molte più difficoltà per inserirsi nell’editoria nazionale). Questa è una delle ragioni per la quale l’iniziativa di Olga Savary va segnalata come un’efficace e coraggiosa alternativa di fronte all’egemonia del mercato che, purtroppo, poco si interessa alla cultura amazzonica.

In ragione della presenza di oltre cento nomi, l’antologia dedica poche pagine ad ogni autore, ma serve da mappa per chi intende inoltrarsi nella fitta foresta della poesia brasiliana contemporanea e permette di riconoscere alcuni tra i nomi più significativi, come Age de Carvalho, Bruno de Menezes, Max Martins, Mário Faustino e la stessa organizzatrice, Olga Savary. 

 

 

 

 

CAETANO VELOSO, Letra só; Sobre as letras, São Paulo, Companhia das Letras 2003, pp. 342 e 80. 55 Reais. 

 

Questa pubblicazione presentata al pubblico a fine anno riunisce tutti i testi delle canzoni scritte da Caetano Veloso dall’inizio della sua carriera come musicista e compositore. Il dato interessante del libro è che alle canzoni è riservato un trattamento letterario, essendo queste presentate dall’organizzatore Eucanãa Ferraz in divisioni tematiche, che mettono in evidenza la pluralità dei temi affrontati da Veloso durante la sua lunga carriera. Le canzoni non sono quindi accompagnate da spartitti musicali, ma si presentano come «letras só», ossia, come poesie. E questo trattamento è reso possibile grazie alla versatilità artistica del noto musicista brasiliano, nato a Santo Amaro (stato del Bahia) nel 1942, artista preoccupato non solamente dell’aspetto ritmico e musicale delle sue creazioni, ma anche dell’aspetto letterario, contenutistico nonché formale dei testi, rifacendosi spesso e volentieri alle sperimentazioni dei poeti concretisti Augusto e Haroldo de Campos. Interessante anche l’aggiunta di un secondo libro, Sobre as letras, dove lo stesso Caetano Veloso rivela curiosità e filiazioni delle singole canzoni, rinviandoci ad un più vasto contesto, ossia, permettendoci di dialogare con la storia del Brasile della seconda metà del ventesimo secolo. In questo senso, è importante sottolineare lo spazio singolare che la sua generazione (che comprende i musicisti e cantautori Gal Costa, Maria Bethânia, Gilberto Gil, Torquato Neto, Tom Zé, etc), occupa nella storia della poesia brasiliana contemporanea, essendosi imposta attraverso il movimento del Tropicalismo, come uno dei grandi movimenti culturali degli ultimi decenni (teminato bruscamente con la prigione e il successivo esilio di Caetano Veloso e Gilberto Gil durante la dittatura), e questo anche grazie all’apertura proposta dalla fruttuosa collaborazone con poeti come i già citati fratelli Campos o come il bahiano Waly Salomão, o la costante influenza esercitata dal poeta modernista Oswald de Andrade.

 

[P.A.]

 

 

 

 

RIVISTE

 

CACTO. poesia & crítica, n° 2, autunno 2003, São Paulo, 18 Reais. Redazione: revistacacto@uol.com.br 

 

In questo secondo numero, gli editori della rivista Cacto analizzano lo stato di salute della poesia brasiliana contemporanea, alla quale dedicano un ampio dossier comprendente 19 poeti che propongono testi inediti, così come uno spazio di riflessione critica con saggi che prendono in esame la poesia contemporanea alla luce della sua diversità e molteplicità.

Il capitolo di apertura, dedicato al poeta Age de Carvalho, che vive in Europa dal 1984 (tra la Germania e l’Austria), è particolarmente interessante, perché oltre a editare nuove poesie dell’autore, ci propone un’intervista nella quale egli stesso ci svela i meccanismi del suo processo creativo. La rivista dedica un notevole spazio anche alla traduzione di testi poetici, privilegiando la poesia di lingua tedesca, francese e inglese. Tuttavia, è necessario indicare l’interessante dossier di poesia argentina contemporanea (a cura di Aníbal Cristobo), ed un’intervista con la poetessa argentina Carolina Jobbágy. La rivista riscuote di una buona accettazione presso le nuove generazioni di poeti brasiliani, in parte grazie alla sua buona circolazione in territorio nazionale, ma principalmente in funzione della scelta, da parte degli editori, di privilegiare l’eterogeneità espressiva della poesia contemporanea brasiliana.

 

 

 

 

INIMIGO RUMOR. N° 14, primo semestre 2003, Rio de Janeiro / São Paulo / Lisbona, Sette Letras / Cosac & Naify Edições / Livros Cotovia, 2003, pp. 242, 25 Reais (in Brasile), 12.50 (in Portogallo). Contatto editoriale : editora@7letras.com.br; info@cosacnaify.com.br; livroscotovia@mail.telepac.pt 

 

La rivista gode di un’ottima diffusione grazie alla sua pubblicazione concomitante in Brasile e in Portogallo. Inoltre, il fatto di essere pubblicata a cavallo tra i due contintenti permette di raggiungere (ed includere) un numero maggiore di collaboratori, come avviene in questo numero, quasi interamente dedicato alla poesia in prosa, dove sono presenti poeti della penisola iberica (Spagna e Portogallo), poeti del Brasile, dell’Argentina, della Francia e del Giappone. In coda alla breve antologia dedicata al poema in prosa troviamo alcuni saggi che vertono su aspetti specifici della poesia contemporanea, come ad esempio il saggio dell’italiano Alfonso Berardinelli riguardante i confini della poesia moderna, ossia, la vana ricerca di ciò che ci permette affermare, con certezza cartesiana, che un determinato testo possiede la «qualità ontologica» intrinseca al testo poetico. L’apparato critico composto dai saggi finali è stato scelto con cura e s’inserisce perfettamente nel clima prescelto per questo numero.

 

[P.A.]