PRESENZE
OVVERO IOSIF BRODSKIJ A FIRENZE
di Stefania Pavan
Scopo di questo saggio,
ammesso che mai un saggio possa veramente avere uno scopo che non muta, non si
deforma, non devia dal cammino originario man mano che si sviluppa, è il
mettere in luce i documenti che evidenziano i rapporti realizzatisi, i fatti
concreti avvenuti, tra Iosif Brodskij e Firenze. Ma la semplice documentazione
della presenza o, per meglio dire, delle innumerevoli presenze di un poeta in
uno spazio storico-culturale non è sufficiente; essa trascina inevitabilmente
con sé il tentativo di capire cosa possa essere considerato ‘memorabile’, cioè
degno di memoria, nella lettura e nella costruzione di un «luogo comune di
identità» tra il poeta e la città.
La memoria ha un peso
specifico nell’esistenza dell’uomo e del poeta, tanto più di un uomo e di un
poeta che è anche un izgnannik [un esule]. La memoria,
scrive Brodskij nel 1985 nel saggio In a Room and a Half [Una
stanza e mezzo], ha il dono della scelta, il gusto del particolare; caratteristiche
che la apparentano all’arte ma, soprattutto, all’arte della prosa perché la
poesia riesce, invece, sempre e comunque a ricostruire con il dono della parola
poetica una storia il cui senso è completo.
Sempre e comunque, poesia e
prosa, ogni parola detta esige una continuazione: logica, fonetica,
grammaticale. Quello che è già stato detto rappresenta il margine, il limen
da cui prendere nuovamente le distanze, per pronunciare una
parola in ogni caso più significante di quella già pronunciata «e non più a
causa del tempo, ma piuttosto nonostante il tempo».(1) Leggiamo, per capire, le
poesie raccolte nella prima edizione di Čast’ reči [Parte del discorso] del
1977,(2) per non citarne che alcune.
In tal senso, limen
per Iosif Brodskij significa un confine necessariamente da
oltrepassare; esso è formato dalle parole che i poeti hanno già detto; esso è
dato dai poeti stessi che già sono vissuti, unici veri interlocutori del
dialogo poetico. Il confine brodskiano astrae da un significato geopolitico, per
collocarsi in uno spazio storico-poetico, se non addirittura mitopoietico. Una
simile interpretazione di limen, del connubio tra Urania e
Clio, può forse aiutarci a meglio comprendere la sostanziale universalità della
poesia di Iosif Brodskij.
Non a caso, a proposito di
Auden e della sua movimentata biografia, Brodskij avanza l’ipotesi che una
delle cause del trasferimento negli Stati Uniti sia stato il fascino che
esercitava su di lui l’idioma americano; il fatto che egli sentiva che gli
americanismi potevano vivificare il tessuto del verso inglese; che la metrica
utilizzata è la spia della nazionalità del poeta; e:
Le parole, il loro suono,
sono per il poeta più importanti delle idee e delle convinzioni. Quando si
tratta di versi, prima di tutto, c’è la parola.(3)
Il poeta si muove nello
spazio alla ricerca di una parola nuova, dettata da un ambiente nuovo; ma, al
contempo, anche nel tempo, alla ricerca della parola nuova che gli può venire
dall’interloquire con chi e con che cosa lo hanno preceduto. Il metro precede
il poeta, esiste prima di lui e continuerà ad esistere dopo. Anche se qualcuno
lo ha già usato prima, questo metro risuona nella testa del poeta, egli lo
sente adatto ad esprimere quello che sente in quel momento, adatto a quella poesia,
a quelle strofe, lo utilizza e, così facendo, lo rinnova e lo rende proprio,
inequivocabilmente proprio. Ricordiamo le considerazioni di Brodskij sulla
strofe di Poèma bez geroja [«Poema senza eroe»] di Anna
Achmatova, il suo negare una dipendenza sostanziale da Kuzmin perché, anche se
effettivamente Kuzmin aveva già usato la stessa strofe, quella del Poèma
è indubitabilmente e solo achmatoviana. Non si tratta di
stabilire gerarchie; semplicemente, ogni metro può essere adatto a sentimenti
diversi, a idee e convinzioni diverse, a immagini diverse; quello che conta è
chi lo usa, il suo essere o meno un vero poeta, e non un epigone.
Iosif Brodskij ha scritto
che Firenze dà senso alla soglia ultima di tutti:
Potomu čto
smert’ - èto vsegda vtoraja
Florencija s architekturoj Raja.
[perché la morte è sempre una seconda Firenze
con l’architettura del Paradiso.]
Il poeta lega l’architettura
di Firenze, condensato ed espressione visibile e tangibile dell’ideale di
perfezione, compiutezza, armonia ed equilibrio rinascimentali (la geometria), a
quella che dovrebbe essere l’architettura del Paradiso. Soprattutto, però, lega
Firenze e la sua perfezione apparente, nel senso che appare, ad una soglia, ad
un limen, questa volta invalicabile: la morte. Solo il poeta,
identificato nell’urpoeta, in Orfeo, è in grado di compiere un movimento
bustrofedico e ritornare dal regno dei morti, così come bustrofedico può essere
il verso.(4)
Più di una volta, nei saggi,
nei dialoghi, nelle interviste, Brodskij ha sottolineato che la madre della
bellezza è il dubbio, perché la bellezza non appartiene all’uomo, come si sente
chiaramente quando la si incontra. Per cui, tu senti il dubbio, il dubbio ti
prende, e significa che ti senti e sei vicino alla bellezza. L’assenza di
certezze dogmatiche crea l’atmosfera favorevole alla creazione della bellezza.
La bellezza viene quindi dall’esterno, non dall’interno dell’uomo. Firenze, la
realizzazione della bellezza rinascimentale, dovrebbe essere il topos più
adatto per ingenerare altra bellezza, ma essa ha un difetto, probabilmente
insormontabile per il poeta: al suo apice ha eliminato il dubbio.
L’opposizione a Venezia, la
città proiettata verso l’eternità
ètot pejzaž
sposoben obojtis’ bez menja.
[questo paesaggio
in grado di fare a meno di me.]
ci aiuta a capire meglio il significato e il ruolo di Firenze.
Brodskij avverte Firenze
come umana, terrena; città dell’uomo, che celebra la grandezza dell’uomo, una
grandezza enorme, per quanto fisica e concreta. Non si può sfuggire
all’architettura, pur anche paradisiaca, di Firenze. Mentre Venezia è il tempo;
è lo spazio metafisico che trascende l’uomo stesso; che forse non è dato
comprendere sino in fondo neanche al poeta; non è il Paradiso, in quanto topos
che va oltre il Paradiso stesso, Paradiso Perduto. Venezia è la realizzazione
più prossima della categoria estetica. Firenze non è Terra Promessa; come non
lo sono New York e neppure Roma; forse, l’unica che ha qualche possibilità di
esserlo, è Venezia. In tal senso è, forse, accettabile che lì Iosif Brodskij
sia stato sepolto: topos ultimo, topos della non esistenza, alla confluenza tra
Storia e Mito.
Ha scritto Ernesto Livorni,
nel saggio dedicato all’emigrazione, all’esilio e all’esodo:
Il tragitto che porta
dall’emigrazione all’esilio costringe a un discorso che coinvolge i due poli
della Storia e del Mito, dell’etica e dell’estetica. Brodskij è perfettamente
consapevole di ciò quando afferma che «questa gente rende assai difficile ogni
discorso a cuor sereno sulla sorte dello scrittore in esilio», aggiungendo più
tardi che «l’estetica è la madre dell’etica».(5)
E ancor più chiaramente
Brodskij stesso in A condition we call exile [«Una
condizione che chiamiamo esilio»]:
L’origine, fosse essa
soltanto la nascita, accompagna e perseguita tutti; con essa, implicita in
essa, viaggia anche la coscienza della fine, fosse essa soltanto la morte. Ma
tra un’origine che si perde nella notte dei tempi e una fine di là da venire
permane proprio il viaggio, ed il senso del suo andare. Per chi è nato in un
luogo ed emigrato in un altro, quel viaggio è più che tangibile, vivo ogni
momento dentro di lui.(6)
L’esilio di Iosif Brodskij,
perché certo non di un’emigrazione si è trattato, è stato un exemplum, un
paradigma di esperienza e umana e poetica, descritto dalla lingua della poesia
con tracce incancellabili. Brodskij è stato definito «un esiliato molto tempo
prima dell’emigrazione », con talmente tanta forza e tanto successo ha ribadito
il proprio diritto di poeta di restare da una parte, non in disparte, ma a
latere della «pazza folla».(7) Firenze è stata una tappa, un punto, un
segmento di questo viaggio incessante; non certo il topos universale e
universalizzante. Firenze ammirata, osservata, capita, ma non modello di
esistenza.
L’esilio, inteso come
paradigma dell’esistenza, come viaggio incessante, come forza centrifuga che
allontana da un’origine la cui presenza resta comunque costante, comporta
l’estraneità, lo sguardo altro, la capacità di estraniarsi da se stesso e dalle
proprie personali vicende, quell’ostranenie [straniamento]
che Iosif Brodskij ha più volte sottolineato essere elemento ineludibile della
poesia in particolare e dell’arte in generale. San Pietroburgo, città che è di
per sé un paradigma di culture, nella quale gli opposti si sono fusi per dare
luogo a una sempre nuova metamorfosi, è l’origine che al contempo allontana e
richiama a sé. Come egli stesso ha detto nella sua famosa lettera a Brežnev, allora Segretario del
PCUS, quando venne esiliato nel 1972:
Non smetto di essere un
poeta russo e credo che ritornerò. I poeti ritornano sempre, di persona o con i
loro versi.(8)
E, nel 1978 nel saggio Posle putešestvija, ili
pozvjaščaetsja
Pozvonočniku
[Dopo il viaggio, ovvero dedicato ad una colonna vertebrale]:
Comunque siano iniziati i
viaggi, essi terminano tutti allo stesso modo: nel proprio angolo, nel proprio
letto, sul quale, dopo esserti lasciato cadere, ti dimentichi quello che è
appena accaduto. È poco probabile che torni di nuovo in quel paese e in
quell’emisfero ma, almeno, il mio letto, al ritorno, è ancora più «mio», e
questo è già sufficiente per un uomo, che acquista i mobili anziché riceverli
in eredità, per trovare un senso nei più inutili spostamenti.(9)
Constatazioni che rimangono
vere, anche se, in seguito, Brodskij si è sempre definito un poeta russo, un
saggista inglese e un cittadino americano, mescolando il criterio linguistico a
quello geografico.
L’estraneità, in tal senso,
non è stata chiusura all’altro, all’altrui, a quanto è appunto čužoe, ma
al contrario il fondamento del dialogo, della struttura principe del pensiero.
Questo dialogo si realizza con le parole, benché esse possano essere anche
soltanto nella mente dell’uomo comune, ma non avviene soltanto tra uomo e uomo.
Il dialogo è con tutto il luogo in cui ti trovi, con tutto quello che questo
luogo significa e rappresenta; solo così è possibile comprendere perché Iosif
Brodskij privilegiasse i luoghi dove c’è l’acqua: forma condensata del
tempo.(10)
Abbiamo appena citato il
saggio di Livori e non a caso, poiché emigrazione ed esilio non sono certamente
sinonimi, e l’intercambiabilità dei termini è impossibile. Brodskij non è mai
stato un cosiddetto émigré, un emigrato; il suo è
stato il viaggio dell’esiliato, un esilio che ha comunque avuto connotati
poetici, filosofici, metafisici, non certo banalmente politici. Il suo
incessante movimento ha avuto lo scopo di riconoscere metamorfosi sempre nuove;
di trovare una parola poetica rinnovata e rinnovantesi; di sforzarsi di capire
i perché ultimi, forse per concludere che questi perché non ci sono.
Emigrazione viene dal latino
tardo emigratio e ha in sé un elemento propulsore di volontà, pur
anche determinato da necessità economiche.
Esilio viene pure dal latino
ex(s)ilium e indica l’allontanamento forzato dalla patria, la
pena comminata dal potere, politico o religioso, a colui che gli è estraneo od
ostile. Questo allontanamento può essere volontario, ma l’elemento di estraneità
al potere vigente rimane costante. In un caso e nell’altro, evidenzia una
situazione penosa, forzata, innaturale e faticosa per l’esiliato. In un caso e
nell’altro, l’esilio ha in sé il senso della soglia da oltrepassare; soglia
fisica e, soprattutto, di sentimenti, di abitudini, di certezze, di tradizioni,
di cultura, in altre parole, di lingua.
Cassiodoro: «ex
solo enim ire est, quasi exsolium».
Dante in Purgatorio II,
46-48, nel descrivere le anime traghettate dalla foce del Tevere all’isola del
Purgatorio: «In exitu Israel de Aegypto /
cantavan tutti insieme ad una voce / con quanto di quel salmo è poscia
scripto».
Il salmo di cui parla Dante
è il CXIII che allude all’uscita dall’Egitto del popolo di Israele. Siamo
all’esodo, al viaggio forzato, ma inteso come il cammino verso la Terra
Promessa, per ritrovare il luogo perfetto.
Essenziale il fatto che
Aristotele chiami esodo, inserendolo fra le parti sceniche della tragedia, la
parte finale che segue lo stasimo. Dove stasimo indica il canto sul posto; il
canto tenuto dal coro nell’orchestra, fra un episodio e l’altro, nell’antica
tragedia greca; canto costituito da uno o più gruppi triadici di strofe,
antistrofe ed epòdo, con accompagnamento di danza e di musica. Si tratta,
quindi, di un canto corale, che Brodskij non poteva non avere presente quando
ha parlato del suo e dell’altrui esilio.
E chissà che Iosif Brodskij
non pensasse proprio al suo esilio, forzato per lui come per tanti altri
artisti, primo fra tutti, emblematico, quello dell’amatissimo Dante, come ad un
movimento che aveva quasi assunto i contorni di un esodo; dove però la Terra
Promessa non era al termine di un segmento lineare, ma al ritorno al punto di
origine, sottolineatura fornita dalla riflessione brodskiana sulla scrittura
bustrofedica. Nel saggio Ninety Years Later [Novant’anni
dopo], già del 1994, Brodskij ha scritto:
Non dimenticate che il
momento in cui Orfeo si volta è il momento decisivo del mito. Non dimenticate
che verso significa «svolta». Non dimenticate, soprattutto, che «Non voltarti»
era il comando divino. Riferito a Orfeo, significa: «Nel sottomondo non
comportarti come un poeta». O anche: come un verso. Orfeo si volta, però,
giacché non può farne a meno, giacché il verso è la sua seconda natura – o
forse la prima. Perciò si volta, e, bustrophedón o no, la sua mente e la sua
vista tornano indietro, violando il divieto.(11)
Il poeta si identifica con
il verso, con il girarsi indietro per vedere, con il tornare sui propri passi;
solo il poeta può violare il tabù divino, ed essere un «abitante del cielo»
ovvero un «eresiarca».(12)
Ma cos’è la Terra Promessa?
Livorni scrive:
La Terra Promessa è
diventata la metafora privilegiata per definire l’utopia, cioè quella visione
che, nella sua proiezione verso il futuro, valorizza nella sua stessa
etimologia l’assenza di luogo. La particolarità etimologica aiuta a captare
ogni possibile connubio epistemologico tra esilio e utopia. Lo stesso Thomas
More, che coniò il termine, lo accompagna in maniera pressoché indissolubile a
quello di eutopia, marcando il passaggio dall’assenza di luogo alla bontà del
luogo.
Iosif Brodskij ha avuto
presente utopia o meglio eutopia, e questa eutopia era la poesia, per la quale
in Italia il topos privilegiato è stato per lui Venezia e non Firenze.
Paradossalmente, lo strappo più doloroso, quello dallo spazio che ci ha visti
nascere e formarci, diviene l’unico vero e possibile inizio di un viaggio dai
chiari contorni soteriologici.
Il mondo della Storia
assorbe e dà un valore ideologico al mondo della Geografia, nel bene e nel
male. Il poeta esiliato non va verso la Terra Promessa, come verso un luogo
paradisiaco; bensì viene scagliato verso uno spazio altrui, né totalmente
utopico né totalmente eutopico; al contempo, viene dotato dall’esilio di una
più ampia visione prospettica e storica e geografica.
L’esilio come distacco,
allontanamento, che permette di riconoscere la propria origine, la propria
nascita, il proprio inizio e come chiarificazione del punto estremo, della
soglia, verso il quale l’uomo è proiettato, il non punto, la morte. L’esilio,
in tal senso, è condizione privilegiata che pone di fronte alla verità, alla
realtà del Mito, ad una «condizione metafisica». Sempre Livorni:
L’esilio pone allora il
migrante sul piano del Mito, lo pone davanti all’universale mistero della
Morte, di fronte al quale egli non può divertere con problematiche della
contingenza, di fronte al quale non gli è più possibile divertere se stesso.
[...] La Terra Promessa è ancora di là da venire, perché il viaggio continua,
ed ancora il migrante trascina con peso il suo corpo, recupera i segni,
disperde le tracce della Storia e già si proietta nel Mito: entrambe le
dimensioni si abbracciano e si confondono in quella che è «la condizione che
chiamiamo esilio».
Passando, ora, all’esame
della documentazione sulle presenze di Iosif Brodskij a Firenze, purtroppo non
è stato possibile rintracciare alcuna testimonianza del suo primo viaggio in
questa città nel dicembre 1976. Mentre sono numerose quelle della prima metà
degli anni Novanta.
Nel 1976 Brodskij non era
ancora un poeta molto conosciuto, non aveva ancora ricevuto il premio Nobel;
egli vagabonda per la città, si potrebbe dire, in incognito, accompagnato
principalmente da Dante, una delle ombre dei grandi poeti del passato che egli
vuole compiacere. Il suo rapporto di allora con la città, quello che essa
rappresenta, e continuerà a rappresentare, è condensato nella poesia Dekabr’
vo Florencii [Dicembre a Firenze]. La rivista «Semicerchio» la
pubblicherà nel 1995, in traduzione inglese dello stesso Brodskij e in versione
italiana di Massimiliano Chiamenti.
Ugualmente, non ci sono
tracce di un altro suo viaggio a Firenze, nel 1985, in occasione di un convegno
internazionale di poesia. Si potrebbe dire che la città ha riconosciuto il
genio poetico di Brodskij solo dopo il conferimento del Nobel nel 1987 e della
qualifica di poeta emerito dalla Library of Congress nel 1991.
Essenziale è stata in
seguito, nel 1995, la collaborazione con la rivista «Semicerchio», fondata a
Firenze nel 1985. Francesco Stella e Antonella Francini vogliono assolutamente
che egli venga per partecipare al corso di scrittura creativa che la rivista
organizza ogni anno assieme al Cenobio fiorentino, e per tenere delle lezioni
pubbliche. Oltre all’ovvio coinvolgimento dell’Università di Siena e della
Syracuse University a Firenze, sedi di lavoro dei promotori, riescono a
coinvolgere anche l’Università di Firenze, il Comune, la Provincia e l’U.S.I.S.
Il nostro invito a Brodskij
si inserisce nel tentativo di dare impulso costruttivo a una vita culturale di
basso profilo, recuperando un rapporto tra cultura universitaria e cultura
militante. Quello che desideriamo è che l’uomo di lettere russo-americano, che
ha il merito di avere restituito alla pratica letteraria una dignità e una
responsabilità morale e politica che sembravano dominate dalla retorica e
dall’ipocrisia, lasci una traccia tangibile del suo metodo, delle sue
concezioni, del suo retroterra. La nostra è una richiesta di cultura non come
orpello o spettacolo, ma come lavoro e valore.(13)
Le parole di Francesco
Stella sottolineano la responsabilità che Brodskij restituisce alla pratica
poetica, quella famosa frase per cui «l’estetica è la madre dell’etica» che
tanto ha coinvolto e coinvolge chi si interessa della sua poesia, l’altissimo
ruolo che egli attribuisce alla poesia come unica possibile barriera ad una
dilagante barbarie. La poesia, la musica che per Brodskij è «la vera madre del
montaggio» e insegna veramente a comporre, cioè a mettere assieme, l’arte tutta
possono insegnare a dare un senso al mondo, a riordinare il caos.(14)
In conseguenza a questo, è
interessante la distanza che separa il «barbaro» Publio dal «non barbaro
romano» Tullio che informerà di sé la pièce Mramor [Marmi],
iniziata ancora negli anni sessanta, quando il poeta viveva in Russia, ma
terminata solo nel 1984, già negli Stati Uniti. In essa, infatti, la barbarie
diviene una categoria filosofica, piuttosto che culturale, opposta alla
civiltà, termine che Brodskij ha usato come sinonimo di cultura, eliminandone
la dicotomia romantica. E, non a caso, barbarie e civiltà sono identificate in
due personaggi coesistenti in un’epoca non determinata, il non luogo (utopia) è
logicamente accompagnato da un non tempo (ucronia), ma identificabile con Roma
in senso lato e con ciò che essa ha rappresentato. Ma questa linea ci
porterebbe molto lontano dal tema di questo saggio.
Intervistato circa l’effetto
che gli fa Firenze, Brodskij non a caso la definisce «città della memoria» e la
contrappone a Venezia, «città dell’occhio». Sottolinea, in tal modo,
l’importanza che egli attribuisce al retaggio culturale di cui Firenze è il
segno palese, ma, al contempo, la valenza metamorfica, la capacità di
rinnovarsi e di essere quindi sempre «nuova ed estranea» dell’amata Venezia.
Firenze è:
sogno che ritorna per il
resto di una vita. L’effetto che mi fa è quello di una capitale abbandonata, di
una nobiltà decaduta, che ora vive in ristrettezze, ma per capirla meglio
dovrei starci di più.(15)
Queste parole, e soprattutto
la poesia dedicata a Firenze, hanno provocato reazioni e suggestioni disparate:
Piero Bigongiari parla di un Brodskij che sente una città brulicante e
impenetrabile, che ne esaspera le ossessioni, lo spirito stralunato e
ossessivo; Francesco Stella evidenzia la Firenze vissuta come mito letterario,
filtrato dalla Divina Commedia, dunque città di
morte alla quale non si torna; Cesare Mazzonis sente emergere le sensazioni di
chi vede un luogo molto bello, ma non sente la città in quanto tale; Giorgio
Van Straten vede una Firenze con più tradizione che non presente, le cui
potenzialità sono dimenticate; Enzo Siciliano, infine, sembra mettere Firenze e
Venezia sulla stesso piano e affermare che Brodskij vive ambedue come luoghi di
abbandono e metafisici.(16) Dobbiamo dire che condividere le parole di
Bigongiari, Mazzoni e Van Straten è semplice, così come contestare quelle di
Enzo Siciliano, ma l’interpretazione più acuta e penetrante è quella di
Francesco Stella che, pur non conoscendo tutte le poesie e la prosa di Iosif
Brodskij, ha percepito i contorni mitopoietici, letterari, di spazio terreno,
chiuso, non proiettato verso quella metamorfosi che secondo Brodskij sola
permette la dimensione metafisica e temporale del futuro, quel grjaduščee così
poetico e nella tradizione della poesia russa, che si ritrova nei suoi versi.
Ma il sostantivo è, morfologicamente, il participio presente del verbo grjastí,
equivalente in un linguaggio alto e letterario di «andare». L’uso più conosciuto
di questo verbo, oltre che nel modo di dire Prošlogo pominaem,
Grjaduščego
čaem
[Il passato lo ricordiamo, il futuro lo attendiamo], è
nell’espressione kàmo grjadéši? La frase
letteralmente si traduce «dove vai?», si ritrova nel testo cerkovno-slavjanskij
della Bibbia ed è diventata famosa grazie alla traduzione in russo del titolo
latino del romanzo dello scrittore polacco Sienkiewicz Quo
vadis?. Certo, nel titolo non compare il vocativo latino Domine, ma
chiara è la coincidenza di una domanda con avverbio di luogo con il suo senso
di luogo metaforico, di fine ultimo, di meta al termine di un futuro ancora non
verificatosi. Futuro che Brodskij non vedeva per il mito culturale fiorentino.
Domenica 19 marzo 1995, alle
ore 18, a Palazzo Vecchio, Brodskij riceve il Fiorino d’oro dalle mani del
Sindaco Giorgio Morales e legge alcune sue poesie in russo, lettura cui fa
seguito quella delle traduzioni italiane da parte di Rosaria Lo Russo. Tutti
coloro che lo hanno ascoltato in questa lettura pubblica sottolineano ancora
oggi la «solennità» di questa lettura, il ritmo e l’intonazione che «ricordano
quelli di un testo sacro», i «toni salmodianti di una preghiera cantata». Una
volta di più, riflettere su ciò porterebbe ad un’analisi di tutti i metri
utilizzati da Brodskij, per definire l’eventuale, ma non necessaria, esistenza
di un metro privilegiato ed i suoi perché.
Il testo del conferimento
recita:
La città di Firenze
conferisce il fiorino d’oro a Iosif Brodskij per l’alto valore letterario della
sua poesia che lo lega alla nostra cultura e testimonia il senso di un rapporto
vivo e fecondo con la tradizione umanistica nel suo significato più profondo e
universale.
Tra il pubblico ci sono,
oltre ai promotori, Roberto Calasso, editore italiano del poeta; l’allora
direttore artistico del teatro Comunale Cesare Mazzonis; i professori Gaetano
Prampolini, Guido Fink e Francesco Binni; soprattutto i poeti Roberto Carifi,
Peter Levy e Piero Bigongiari, che gli porta i saluti di tutti i poeti italiani
e che, acutamente, sottolinea la capacità di Brodskij di ricreare una patria universale, in
un’immensità mondiale, approfondendo i temi della sua poesia in un lato
universo interiore che appartiene, quindi, a tutti gli uomini.
Brodskij stesso sceglie le
poesie da leggere nell’occasione: Sreten’e [Epifania],
Babočka [Farfalla],
Tors [Torso], Čast’ reči [Parte
del discorso], Iork [York] dedicata alla memoria
di W.H.Auden, Pjataja godovščina [Quinto anniversario], Pis’ma
dinastii Min’ [Lettere della dinastia Ming], Kvintet
[Quintetto], Rimskie èlegii [Elegie romane], K
Uranii [Per Urania]. L’assenza di Dekabr’ vo Florencii
salta agli occhi.
Robero Carifi scriverà poi
un articolo interessante, dal titolo altamente significante: Il
destino schiacciante del poeta.(17) In esso sottolinea il
legame strettissimo tra il destino
del poeta, non di Brodskij
in particolare ma del poeta in quanto tale, e la parola «da scontare come una
colpa anteriore e immemorabile», e «come tutti i poeti, paga con la parola
l’azzardo e il rischio della verità». Carifi ha messo in luce particolare la
valenza filosofica della poetica brodskiana, la sua profonda riflessione sul
male e sulla colpa dell’esistere, il suo essere metafisicamente sospesa tra ciò
che è e l’attesa di ciò che sarà. Carifi, però, non sottolinea al contempo la
lucidità del pensiero di Brodskij; la pacatezza apparente della sua parola, di
matrice classica e, per la cultura russa, principalmente pietroburghese,
ricordiamoci che egli ha più volte parlato di sderžannost’ [ritegno,
riservatezza, reticenza] a proposito della città, della sua cultura e dei suoi
abitanti; la presenza quasi costante del distacco ironico, che accresce il
disincanto, la disillusione. Tutto ciò non significa, però, assenza di speranza
e di attesa, perché l’estetica, madre dell’etica, ha possibilità eterne e
autorinnovantesi nel dialogo incessante che porta il poeta a confrontarsi
sempre e solo con i poeti che lo hanno preceduto.
Lunedì 20 marzo, tiene una
lezione dedicata all’amatissimo alter ego W. H. Auden, nella sala Est-Ovest e
il giorno seguente, alla Facoltà di Lettere, una lezione dedicata a Robert
Frost. Purtroppo, questi momenti didattici sono riservati, non aperti al
pubblico, su invito e, quindi, molti, studiosi e non, ne sono rimasti esclusi.
Si può notare come nessuna delle due lezioni venga dedicata, né abbia parentela
alcuna, con quella cultura russo-pietroburghese con la quale, pur nella sua
universalità, ha costantemente dialogato la poetica brodskiana. La Russia, San
Pietroburgo, città alla quale il nome storico è stato restituito nel 1991,
rimangono in questa straordinaria occasione defilati, se non addirittura
assenti. In apparenza, l’unica spia sembra essere l’insopprimibile nascita
russa del poeta.
Gli incontri ufficiali
terminano martedì 21 marzo, con un affollato cocktail di congedo alla Syracuse
University.
Straordinario, ma solo in
apparenza, che Iosif Brodskij abbia saputo improvvisare le sue letture, poiché
nel viaggio dagli Stati Uniti a Firenze le sue valigie erano andate perse,
assieme ai libri e agli appunti. La riflessione sull’apparenza del carattere
straordinario è giustificata dal fatto che le due lezioni, se pur non
perfettamente sovrapponibili ai saggi che già Brodskij aveva scritto e
pubblicato sui due poeti, riflettono comunque le sue sostanziali e costanti
considerazioni sull’opera e di Robert Frost e di W.H. Auden. Questi eccezionali
momenti sono stati poi pubblicati in Lezioni di poesia.(18)
Si è già accennato
all’articolo di Francesco Stella, cui fa seguito un saggio nel numero di maggio
della rivista «Poesia».(19) In esso Stella, pur non conoscendo la lingua russa,
dimostra di avere chiare alcune delle fondamentali componenti della poetica
brodskiana: l’esigenza di un significato morale della scrittura poetica;
l’individualità dell’espressione artistica; la riluttanza ad assumere un ruolo
sociale; la poesia come mezzo di attivazione della coscienza di fronte agli
inganni della storia; il poeta quale portatore di un ruolo linguistico e non
socio-politico; il verso, il ritmo, il piede, la rima come forme dell’unico e
vero rapporto con il passato; la poesia quale unica e vera eredità storica.
Perché l’invito a Brodsky?
Perché è l’unico poeta contemporaneo che unisca una notorietà mondiale e una
riconosciuta autorevolezza a una voce che sia in grado di parlare a generazioni
diverse senza risultare immediatamente datata. È il poeta che è riuscito a
superare le distinzioni di stili e tendenze per rifondare n colloquio fecondo
con i classici di ogni lingua e una nuova potenzialità dell’idea stessa di
classico nel Novecento.
Un Brodskij che, quindi,
dialoga con un passato che suo e della sua città e della sua cultura al
contempo, Deržavin,
Puškin, Baratynskij, Blok, Mandel’štam, Achmatova,
Dostoevskij, gli oberjuty,
in un elenco lunghissimo. Ma il dialogo è anche con il suo presente,
geograficamente vicino e lontano, Tomas Venclova e Evgenij Rejn, Aleksandr
Kušner e Lev Losev, Dovlatov e Jakov Gordin, Michail Baryšnikov e Solomon
Volkov. Per non parlare delle altre culture, pur sempre nella consapevolezza
che per lui la poesia era quasi una categoria a sé, priva di confini, persino
di lingua poiché essi erano superabili dalla musica del ritmo, e quindi Kavafis
e Frost, John Donne e Umberto Saba, Antonio Machado e Eugenio Montale, Sheamus
Heany e Derek Walcott, per non parlare di quello che egli definiva suo alter
ego, Wistan Hugh Auden. Indietro, in questa ricerca di predecessori e interlocutori,
sino a Dante, e ancora Ovidio, Orazio, Virgilio e l’Esiodo della Teogonia;(20)
tutto in un elenco confuso e quasi senza fine. Dialogo che, unico, è in grado
di dare all’uomo una parvenza di storia.
Per ogni poeta, al mondo,
c’è solo il mattino, e la Storia è una notte insonne dimenticata... Il fato
della poesia è innamorarsi del mondo, a dispetto della Storia.
Parole che potrebbero essere
state pronunciate da Iosif Brodskij e che sono invece di un altro poeta, del
quale egli è, forse, stato un alter ego, Derek Walcott. Quel poeta che ha
parlato, dialogato con lui anche dopo la sua morte, dando vita a quello che è
uno dei migliori e più significativi tributi alla poesia e alla parola di colui
che era appena morto, e che inizia con una domanda la cui inequivocabile
fatalità non necessita di spiegazioni «...Joseph, perché sto scrivendo questo /
se tu non puoi più leggerlo? » e che termina con un’immagine densa di
significati: «la tua ombra gira gli angoli / di un libro e resta in fine della
prospettiva, in attesa di me».
...Joseph, why am I writing this
When you cannot read it? The windows of a book spine
open
On a courtyard where every cupola is a practice
For your soul encircling the coined water of Venice
Like a slate pigeon and the light hurts like a rain.
Sunday. The bells of the campaniles’ deranged tolling
For you who felt this stone-laced city healed our
sins,
Like the lion whose iron paw keeps out orb from
rolling
Under guardian wings. Craft with the necks of violins
And girls with the necks of gondolas were your
province.
How ordained, on your birthday, to talk of you to
Venice.
These days, in bookstores I drift towards Biography,
My hand gliding over names with a pigeon’s opening
claws.
The cupolas enclose their parentheses over the sea
Beyond the lagoon. Off the ferry, your shade turns the
corners
Of a book and stands at the end of perspective,
waiting for me.
Walcott è certo che l’ombra
di Brodskij lo attende, perché ogni poeta attende chi viene dopo di lui, chi
continua il dialogo; come Brodskij stesso ha detto:
Un giorno, quando finirò nel
tuo settore dell’aldilà, la mia entità aeriforme chiederà alla tua entità
aeriforme se hai letto questa lettera. E se la tua entità aeriforme risponderà
no, la mia non si sentirà offesa. Al contrario, gioirà di fronte a un dato di
fatto che dimostra come la
realtà si prolunghi fin nel territorio delle ombre. [...] Credo perciò che noi
due potremmo intenderci a meraviglia. Quanto alla lingua, è molto probabile che
il reame, come ho detto, sia poli- o sovra-glotta. E poi tu, fresco
dell’esperienza fatta nei panni di Auden mentre esaurivi la tua quota
pitagorica,
ricorderai forse un po’ d’
inglese. Può darsi che io ti riconosca proprio per questo. Anche se lui, senza
dubbio, era un poeta molto più grande di te. Ma proprio questo è il motivo per
cui tu hai cercato di assumerne le sembianze l’ultima volta che sei
stato dalle nostre parti,
nella realtà.(21)
Le due lezioni a Firenze
erano basate sul metodo usuale di Brodskij: la spiegazione del testo. A questo
proposito, nella fase preparatoria del suo soggiorno, egli si è preoccupato di
chiedere che gli ascoltatori leggessero in precedenza alcune poesie, in modo
tale da poter agevolmente seguire la sua disamina. Arriva a proporre di mandare
le poesie per fax lui
stesso, se il reperirle a Firenze fosse stato difficile. Per Frost: Provide, Provide; Come in; Acquainted with the Night;
Desert Places; Did Man’s Winter; Night Wood Pile; per Auden: As I Walked out one Evening; In Memory of Yeats;
Shield of Achilles; Fall of Rome.
La lezione su Robert Frost
prende chiaramente le mosse dal precedente saggio On
Grief and Reason («Dolore e ragione») del 1994.(22) L’ analisi
contrastiva ci aiuta a sottolineare il nucleo del pensiero di Brodskij sul
poeta americano e a chiarirne le particolarità, alcune delle quali preziose per
la comprensione dello stesso Brodskij.
Egli rileva l’equivoco
generalizzato che vede in Frost la quintessenza del poeta americano, e
contrappone a questa generalizzazione la propria percezione del carattere
terrifico della poetica frostiana. È interessante in che senso e per quale
ragione Brodskij decida di contrassegnare questo terrore; nel testo russo egli
ha utilizzato il sostantivo užas [terrore] e il
corrispondente aggettivo užasnyj [terribile, terrificante],
contrapponendolo alla tragedia e al tragico: la tragedia e il tragico sono un
fatto compiuto, sono storia, fatti tremendi ma comunque concreti; užas è il
terrore, l’orrore di fronte ad un evento che ci si aspetta, perché lo si
avverte, ma che è ignoto e che, quindi, vede l’uomo bespomoščnyj [impotente].
Brodskij ci costringe a collegarci al presentimento, all’orrifico, alla
sensazione dell’ abisso inevitabile, al fato che stravolge i piani umani, ad un
tempo non legato alla storia bensì alla profezia. I protagonisti delle poesie
di Frost, perché di veri e propri protagonisti di una narrazione si tratta,
hanno presentimenti, destati in loro da visioni.
Questo prendere in qualche
modo le distanze dalla storia fa parte dell’americanità di Frost, del suo
appartenere ad una cultura dove ogni più piccolo uomo, oggetto e avvenimento
non è necessariamente impregnato di strati molteplici di incrostazione storica,
che forniscono loro un’inevitabile capacità associativa. Evidente appare la
consonanza con la poetica brodskiana.(23)
Una riflessione analoga
provocano queste parole di Brodskij:
Frost riteneva semplicemente
che in poesia si dovessero rispettare le regole del gioco, giacché non si gioca
a tennis con la rete per terra.(24)
Anche per Brodskij il
distico, il ritmo – ricordiamoci ’affermazione per cui la musica è la madre del
montaggio e non il cinema, la rima, le regole della versificazione per cui non
si possono usare indifferentemente i metri e mescolare i generi poetici – sono
qualcosa di molto semplice ed inevitabile, sono «le regole del gioco».
Volendo enucleare da questa
lezione soltanto quello che può collegarla a Firenze, è ovvio il richiamo a
Dante. I primi versi di Come in recitano:
As I came to the edge of the
woods,
Thrush music – hark!,
Brodskij vede in questo edge
of the woods, in questo limitare del bosco lungo il quale l’eroe
passeggia cercando accuratamente di non addentrarsi, un chiaro riferimento alla
selva oscura di Dante. Ci sono, quindi,
due regni contrapposti: quello dove esiste la luce e quello dove regna
l’oscurità. A differenza di Dante, Frost non entra nel regno oscuro, lui non è
Dante, non lo eguaglia né come uomo né come poeta e in lui prevale il terrore,
l’orrore dell’ignoto e rifiuta l’invito del titolo: come
in [entra]. Potremmo aggiungere che, in tal modo, Frost nega a se
stesso l’opportunità del versus, della scrittura
bustrofedica; che, forse, Frost non aveva il suo Virgilio; che, forse, Brodskij
si è voltato, come Orfeo; ma questo ci porterebbe troppo lontano.
Per la lezione dedicata a
Auden, Brodskij ha scelto di analizzare principalmente la poesia in tre tempi In
memory of W.B.Yeats [In memoria di W.B. Yeats], la cui disamina occupa
la parte preponderante della lezione, anche se alcune parole le ha spese anche
per le altre poesie da lui indicate.
Possiamo già fare alcune
considerazioni: che quelle di Firenze sono state veramente «lezioni di poesia»
e non semplicemente un’analisi di alcuni versi di altri poeti, in tal senso, il
titolo della raccolta è in questo caso più che appropriato; che sarebbe
interessante, ma ancora una volta ci porterebbe troppo lontano, contrapporre a
questa lezione il precedente saggio su Auden del 1984 e le poesie per la sua
morte, la prefazione che Auden ha scritto per la pubblicazione di Selected
Poems [Poesie scelte];(25) che questa su Auden è una lezione principe
per rilevare l’abitudine brodskiana ad analizzare le poesie verso per verso, in
modo quasi puntiglioso.
Quest’ultima abitudine,
oltre che portare a risultati interpretativi di una finezza e di una capacità
di penetrazione nel testo geniali, dipende senza dubbio dall’importanza
dominante che Brodskij ha sempre attribuito alla lingua del poeta, intesa come
un tutto unico, onnicomprensivo e inscindibile, di parola, ritmo, rima, metro,
verso e strofe. La percezione di tale unitarietà permette la sua personale
ermeneutica del testo. Il saggio «Primo settembre 1939» di
W.H. Auden, ancora del 1984, perché nato come lezione alla
Columbia University, inizia con queste parole:
Abbiamo davanti una poesia
di novantanove strofe e, se il tempo ce lo permetterà, le analizzeremo uno per
uno. La cosa può apparire, e in effetti apparirà, noiosa; tuttavia, in questo
modo abbiamo maggiori probabilità di conoscere qualcosa del suo autore, e insieme
anche della generale strategia della poesia lirica. Poiché, senza tener conto
del soggetto, questa è una poesia lirica.
Lirica è questa poesia di
Auden; un’elegia composta da un lato come pubblica e da un altro come privata;
in parte recitata come da un pulpito e quindi rivolta ai presenti; in parte
dialogo di un poeta con un altro poeta, con uno dei suoi interlocutori e quindi
fenomeno privato. In tal senso, ci è facile comprendere che questa elegia
coinvolge ambedue gli aspetti, e quello pubblico e quello privato, del
commemorato ma anche del commemorante. Quest’ultimo, infatti, interloquendo con
il suo simile, rivela anche se stesso. In altre parole, Auden ci rivela Yeats,
a un po’ rivela anche Auden stesso.
Si capisce, inoltre,
l’apparente controsenso brodskiano: asserisce costantemente che la biografia
del poeta non serve a giudicare la poesia, però egli questa biografia dimostra
sempre di conoscerla perfettamente. Quella di Brodskij è conoscenza attraverso
la poesia; prima egli conosce i versi del poeta e, solo dopo, ne conosce la
biografia, che è già tutta presente nelle sue opere. In un certo qual modo, la
biografia, l’esistenza stessa del poeta sono giustificate unicamente dalla
creazione poetica; una volta di più, per usare le parole di Brodskij, la lingua
poetica è «un idioma di esistenza».
Nel corso della sua
disamina, Brodskij si sofferma in modo particolare sull’interpretazione del
famoso verso:
For poetry makes nothing
happen: it survives
Su di esso, su cosa Auden
intendesse dire, si sono spese pagine e pagine, Brodskij dà la sua
interpretazione, che equivale a: la distruzione non è la fine delle cose, bensì
il mezzo che assicura la loro persistenza.(26) La poesia diventa, in tal modo,
veicolo di eternità, di un eterno rinnovarsi di persone e cose. Ci si può, qui,
riallacciare a quanto scritto all’inizio di questo saggio sulla lingua come
molla propulsiva del perenne movimento del poeta, sulla sua naturale funzione
poetica.
Anche Auden, infine, cita Dante, nel verso:
To find his happiness in
another kind of wood
Questo ritornare
dell’immagine della selva dantesca, questo insistere di Brodskij nel ritrovare
echi di Dante negli altri, è senz’altro una spia del fascino che Dante ha
esercitato sempre su lui stesso. Non tanto la poetica, ma la lingua della
poesia dantesca, quella che, una volta di più, deve essere definita «un idioma
di esistenza», non poteva non incantare Brodskij.
La presenza di Iosif
Brodskij a Firenze va però addirittura oltre la morte, non termina con la
scomparsa del poeta.
Nell’ottobre 1997 Michail
Baryšnikov è in Italia per quello che è stato definito «one-man-show»
[spettacolo per solo] dal titolo Una serata di musica e
danza. Coreografie del nostro tempo; per la prima volta, dopo
molto tempo, il ballerino è in tournée senza il suo famoso White Oak Dance
Project. La prima tappa, il 10 ottobre, è alla Fenice di Venezia e Baryšnikov
dedica questa serata alla memoria di Iosif Brodskij, scomparso da quasi due
anni. Intervistato sul perché ha voluto iniziare proprio da Venezia, Baryšnikov
ha risposto:
Ho ricordi felici di questa
incredibile città, ma di recente sono venuto qui in un’occasione molto triste:
la morte di Iosif Brodskij, ora sepolto qui sull’isola di San Michele, alla cui
memoria dedico questo mio nuovo spettacolo (Il Messaggero, 11 ottobre 1997).
Ballando in laguna vivo
un’esperienza personale e particolare, visto che vi è seppellito il mio amico
Iosif Brodskij (La Repubblica, 12 ottobre 1997).
In omaggio alla Fenice e al
mio caro amico Brodskij, che è sepolto qui, al cimitero di San Michele (Il
Giorno, 11 ottobre 1997).
La stessa frase appare anche
sul programma della serata, e Baryšnikov presenta Piano
bar di Maurice Béjart, Chaconne di
Jose Limon, Tryst di Kraig Patterson, Pergolesi
di Twila Tharp, Tre preludi russi di Mark
Morris, Unspoken territories di Dana Reitz.
Dopo essere stato al
Politeama di Trieste, alla Scala di Milano, al Ponchielli di Cremona,
nuovamente a Milano al Piccolo, il 1° dicembre Baryšnikov arriva al Comunale di
Firenze.
Sul «Corriere della sera»
del 28 novembre 1997, in un articolo-intervista di Margherita d’Amico,
Baryšnikov ribadisce come l’intera tournée sia dedicata a Iosif Brodskij e,
soprattutto, alla sua idea di creare a Roma un’Accademia in grado di ospitare
artisti russi per soggiorni di formazione. Si incontrano per la prima volta a
New York nel 1974, a una festa in onore di Rostropovič; Trotskij è in
esilio già da due anni e Baryšnikov ha da poco messo in atto la fuga in Canada.
Mi disse semplicemente:
«salve, sono Iosif Brodskij» e, dal momento che lui viveva già da un po’ negli
States, mi diede qualche consiglio. Conversammo su come fosse la gente lì in
America e su questioni di immigrazione. Lasciata insieme la festa, ci
incamminammo giù verso il Greenwich Village, continuando a parlare fino alle
tre del mattino. Dopo un paio di giorni gli telefonai e da allora incominciammo
a vederci spesso. Sono passati ventitré anni, ma sembra ieri; il tempo passa
molto in fretta. Iosif è stato la persona più bella e completa che io abbia mai
conosciuto. [...] Figlio di russi, io ho vissuto nella Lettonia occupata per
sedici anni e poi in Russia per dieci. Quando però sono arrivato negli Stati
Uniti sapevo che quella sarebbe stata casa mia. Per Brodskij è stato più
difficile; c’ era anzitutto la questione della lingua. E poi lui non voleva
appartenere a niente, è sempre stato al di sopra di qualsiasi struttura
politica e culturale. Dal canto mio, ero in qualche modo un girovago. Sono
certo che per lui Leningrado, oggi San Pietroburgo, abbia rappresentato
un’ancora, in un modo molto diverso rispetto a quanto non sia valso per me. E
d’altro canto io mi sento molto più americano di quanto, con ogni probabilità,
non si sia mai sentito lui.
Baryšnikov coglie
l’occasione della serata fiorentina per sottolineare il progetto che ha visto
Brodskij impegnarsi negli ultimi due anni di esistenza: la creazione di
un’Accademia Russa a Roma, dove gli artisti che ogni campo dell’arte esprime
possano soggiornare, studiare, affinare i propri mezzi espressivi in quel
dialogo incessante che solo un luogo così privilegiato può consentire. Egli si
spinge oltre, e parte dell’incasso della serata fiorentina è devoluto alla
realizzazione di questo progetto.
Purtroppo, il sogno si è
avverato solo parzialmente; solo i poeti russi hanno la possibilità di questo
soggiorno, per le altre arti non si sono trovati fondi sufficienti; anche la
sede, nonostante la dichiarata disponibilità del Sindaco e del Comune di Roma,
ancora non esiste e i poeti, che un’apposita commissione sceglie ogni anno,
trovano ospitalità presso l’American Academy, della quale Brodskij stesso era
socio e che lo aveva accolto anni prima.
La bozza di suo pugno dello
statuto di questa Accademia sognata è interessante per comprendere il suo
rapporto con l’Italia e meriterebbe di essere resa pubblica, come documento da
analizzare per gli studiosi. L’ambasciatore Boris Banchieri, Presidente
dell’Associazione Iosif Brodskij che si è costituita allo scopo di realizzare
questa iniziativa, ne ha resi pubblici alcuni stralci:
L’Accademia Russa si impone
per l’ovvia verità che la cultura italiana è senz’altro la madre dell’estetica
russa e che per settant’anni, nel nostro secolo, questo legame tra madre e
figlia è stato artificialmente troncato. Molto di ciò che è venuto fuori in
Russia, nel suo clima mentale in particolare, è conseguenza diretta di questa
sciagurata frattura, e l’idea di istituire l’Accademia Russa di Roma nasce
anche dal desiderio di restituire a quella figlia un buono stato di salute.(27)
Brodskij vede, quindi, la
ragione dell’esistenza di questa Accademia nel legame da figlia a madre
esistente tra l’estetica russa e quella italiana. Egli sente un legame diretto
tra le categorie estetiche dei due paesi; un legame che egli vuole riportare
alla luce, rendere nuovamente sensibile. Sembra di intuire che, pur conscio dei
rapporti strettissimi e innegabili con la Francia, l’Inghilterra, la ermania,
Brodskij desiderasse rendere gli artisti russi nuovamente consapevoli di quelle
loro radici che affondano nella cultura italiana, su su fino alla grande
stagione dei classici latini, eredi naturali dei greci. Il paese non come meta
ambita e privilegiata di un tour più o meno grande, ma come
spazio entro il quale la cultura, la civiltà si è realizzata. In tal senso si
comprende la sua frase all’amico Baryšnikov:
Il marmo, il marmo di Roma mi stringe l’aorta.
Le presenze continuano,
perché il 18 maggio 2000 Derek Walcott inaugura il Cipresso Tecnologico della
Fondazione il Fiore e la Fondazione, per presentare Walcott, ricorre al saggio
di Brodskij del 1991.(28) I lettori italiani conoscono questo saggio
soprattutto quale introduzione alla raccolta di versi del poeta inglese, edita
da Adelphi nel 1992 con il titolo Mappa del Nuovo Mondo. n
esso Brodskij riprende un tema a lui caro per cui
la poesia non è l’arte del
silenzio, bensì l’arte dell’eloquio, dell’affermazione. [...] Compito della
poesia è opporsi alla realtà, farla sopravanzare dall’alternativa linguistica,
temprare il cuore davanti ad ogni possibilità, compresa la propria sconfitta
finale.(29)
Tema già ampiamente trattato
nel saggio di due anni precedente Poèzija kak forma
soprotivlenija real’nosti [La poesia come forma di opposizione alla realtà],
dove scrive incisivamente della poesia dell’ amico Tomas Venclova.(30) Tutto
questo a riprova del fatto che la vera poesia, i veri poeti, pur nella loro
individualità irripetibile, hanno tratti che li accomunano. E Derek Walcott,
con i suoi versi basati sulla rima piuttosto che sul ritmo, particolarità che li apparenta all’immagine
dell’oceano con le sue onde, ha dato voce alla cultura, alla storia dei suoi
Caraibi con la lingua di coloro che li avevano assoggettati. In modo molto
simile aveva già scritto di sé circa venti anni prima, nella lettera-articolo del
1972, scritta al e per il «New York Times»:
La Russia è la mia casa, ho
passato lì tutta la mia vita e devo a lei e al suo popolo tutto quello che ho
nell’anima. Soprattutto, la sua lingua. La lingua, come ho già scritto, è una
cosa più antica e più inevitabile di qualunque forma di stato e essa evita,
stranamente, allo scrittore molte funzioni sociali. In questo momento provo una
strana sensazione, nel fare di questa lingua l’oggetto delle mie
considerazioni, nel guardare ad essa a latere, poiché proprio essa ha
condizionato questo sguardo alquanto estraniato all’ambiente, all’humus
sociale, cioè quella qualità dello sguardo di cui ho parlato più sopra.(31)
«Il più grande poeta di lingua inglese, oggi, è un nero.»
Ricordiamo che anche Walcott
ha vinto il Nobel per la poesia, nel 1992. Ma ricordiamo, soprattutto, che
Derek Walcott ha dedicato le sue Italian Eclogues a
Brodskij, al poeta morto nel 1996; le ha chiamate Italian,
forse a sottolineare una marca che li contrassegnava, forse o per lo meno un
po’, ambedue. La dedica è in larga misura dovuta alla recente morte di
Brodskij; resta questo aggettivo Italian,
che meriterebbe un’indagine più approfondita e che, forse, getterebbe una luce
maggiore su quello che l’Italia, intesa come segno culturale, come unico ed
esteso genius loci, ha significato per questi due poeti, così diversi
tra loro, così geograficamente distanti e, al contempo, unificati dal loro
essere poeti. Walcott ha scritto:
Italian eclogues (for
Joseph Brodsky)
On the bright road to Rome, beyond
Mantua, there were reeds
of rice, and I heard, in the
wind’s elation, the brown dogs
of Latin panting alongside
the car,
their shadows sliding on the
verge in smooth translation,
past fields fenced by
poplars, stone farms in character,
nouns from a schoolboy’s
text, Virgilian, Horatian,
phrases from Ovid passing in
a green blur,
heading towards perspectives
of noiseless busts,
open-mouthed ruins, and
roofless corridors
of Caesars whose second
mantle is now dust’s,
and this voice that rustles
out of the reeds is yours.
To every line there is a
time and a season.
You refreshed forms and
stanzas; these cropped fields are
your stubble grating my
cheeks with departure,
grey irises, your corn-wisps
of hair blowing away
say you haven’t vanished,
you’re still in Italy.
Yeah. Very still. God. Still
as the turning fields
of Lombardy, still as the
white wastes of that prison
like pages erased by a
regime. Though his landscape heals
the exile you shared with
Naso, poetry is still treason
because it is truth. Your poplars
spin in the sun.
Ecloga italiana (a Joseph Brodsky)
Nella luce viva della strada che va a Roma, dopo Mantova,
ecco gli steli del riso, e nell’ebbrezza del vento
io sento il latino in affanno che tiene dietro all’auto
in corsa come un cane scuro, un’ombra di velluto che scivola
sul ciglio in traduzione, e oltre il limite dei pioppi, nei
campi,
le cascine di mattoni, com’è nell’uso, e quei nomi che sanno
di libro di scuola, Orazio e Virgilio, o anche un frammento
di Ovidio che si perde nel verde lungo il percorso,
verso prospettive di busti camusi,
privi di naso, e quelle rovine
a bocca aperta, i corridoi senza un tetto e i Cesari di marmo
ormai ricoperti dalla polvere come un secondo mantello,
e tra questi steli la voce che fruscia è la tua, Joseph.
C’è un tempo per ogni verso e c’è una stagione. Tu hai dato
fiato alle forme e vigore alle strofe; nei campi a coltivo
le tue stoppie sono ruvide sulle mie guance come un commiato,
iridi grigie, e i pennacchi del grano sono capelli nel soffio
del vento. Dimmi che non sei svanito. Dio. Che è qui la tua
pace.
Si, che in Italia ancora ci sei. In questa pace dei campi
di Lombardia che girano come raggi e via da quella prigione
che tace laggiù nelle bianche distese simili a pagine
cadute nelle mani di un regime che cancella. È nel paesaggio
che cerca salvezza chi muore in esilio e tu, come Ovidio,
lo sai che dentro la poesia si trova una verità che da sola
è tradimento. I tuoi pioppi, ritti come fusi, filano nel sole.
(traduzione di Luigi Sampietro)
Il concetto di genius
loci, in Brodskij, vede la parola genio recuperata
nel suo valore primario, di generatore della vita, dio particolare di ogni uomo
che veglia su di lui dalla nascita alla morte, prendendo parte alle sue gioie e
ai suoi dolori, e sparisce quindi con lui; come ogni persona, così ogni luogo,
ogni città, ogni Stato, ogni cosa ha il suo genio protettore, che ne
rappresenta lo spirito, l’essenza metafisica. Oggi, invece, questo termine
solitamente indica il carattere di un luogo, le suggestioni, l’aria che vi si
respira, in qualche modo pur sempre erede del suo genio.
Ci possiamo collegare al saggio di Petr Vajl’ Genij
mesta. Semejnoe delo(32); il
saggio è stato scritto dopo il viaggio di Petr Vajl’ in Italia, durante il
quale, nel settembre 1995, egli è ospite di Iosif Brodskij per una settimana in
una casa sulle colline di Lucca. Brodskij, dunque, ha da pochi mesi ricevuto il
«Fiorino d’oro» e tenuto le sue lezioni fiorentine.
Nel saggio Vajl’ riflette su
due città italiane distantissime tra loro, e come spazio e come cultura,
Firenze e Palermo, vedendole soprattutto come origine di due figure che ne
rappresentano appunto il «genio»: Machiavelli e Puzo. Vajl’, nel parlare di
Firenze e di Machiavelli, cita Brodskij e la poesia Dekabr’
vo Florencii. Nulla di particolare, se si considera l’amicizia
di lunga data che li ha legati, interessante è il divario di posizione nei
confronti del «genio» della città. La posizione di Vajl’ è senz’altro più
dichiaratamente positiva rispetto a quella di Brodskij; egli ammira senza condizioni
l’architettura della città, dove arte e vita si intrecciano in modo così
stretto da non poter essere scisse l’una dall’altra; sindrome che Brodskij, non
va dimenticato, ha passato sotto silenzio a differenza di quasi chiunque parli
di Firenze. Firenze per Vajl’ è soprattutto il luogo il cui genio ha espresso
la figura complessa di Machiavelli; Vajl’ analizza in modo puntuale Il
principe e, in modo più parziale, La mandragora.
L’analisi del penultimo capitolo del Principe, Il
Signore, lo riavvicina al pensiero brodskiano. Egli riporta il passo in
cui Machiavelli abbandona la logica del pensiero politico; in cui il discorso
si fa quasi frammentato e acquisisce un’intonazione privata, da individuo
singolo:
Spesso si è detto che tutto al mondo viene guidato dal destino e
da Dio.
Vajl’ scrive:
Con stupore vediamo come trionfi un modo di pensare puramente
artistico.
Al pensiero politico, che fa
di Machiavelli quasi l’ipostasi di uomo del Rinascimento, subentra una
riflessione divergente: il destino dell’uomo è segnato dall’alto, in un
connubio che unisce destino e Dio, sacro e profano, la cultura classica e la
religione cristiana; ma all’uomo è conservata la volontà e, quasi a non far
torto a nessuno, ogni agente può determinare circa la metà delle azioni umane.
Machiavelli, però, alle liberatorie asserzioni cristiane preferisce l’etica
romana, con il suo insistere sul predominio del bene della res
publica e dell’uomo come valore principale di essa. Le categorie di
«qui» e «adesso » vengono superate e sostituite da quelle di «ovunque» e
«sempre». In questa riflessione di Vajl’ echeggiano analoghe riflessioni di
Brodskij, che non ha mai parlato di Machiavelli, ma la cui poetica è fondata
sull’azione etica espressa dalle categorie estetiche.
Si può concludere,
richiamando il libro a cura di Francesco Bellino Dialettica
interculturale e perfezionamento dell’uomo(33) dove, nel capitolo 9, si legge che oggi l’umanità ha il
problema di trovare il proprio ethos (Eraclito),
ovvero la propria dimora. E Bellino non trova di meglio che citare Brodskij, un
poeta russo, emigrato negli Stati Uniti, che non si era formato su studi
classici:
«Le culture sono simili ad alberi, che hanno bisogno di radici
per vivere e ramificare».
Questa frase di Iosif Brodskij
sottrae la dialettica interculturale all’ideologia del sangue e della terra;
l’uomo e la sua cultura divengono invece una sorta di albero capovolto, le cui
radici non sono chiuse nel buio della terra, bensì si trovano in alto, radicate
nell’ aria, nel cielo aperto, nel vento, nella luce, tra i volti umani.
Qua Bellino interpreta ethos
come dimora, come cultura nel senso più ampio del termine e
Brodskij ha formulato le parole che riportano alla luce questo ampio
significato. Di conseguenza, ogni individuo deve ritrovare la propria dimora,
senza obbligatoriamente farla coincidere con lo spazio della nascita, con uno
qualunque degli elementi a cui si è soliti aggiungere l’aggettivo «natale»
ovvero «natio».
Sarebbe, però, preferibile
riferirsi in modo più attento al famoso aforisma di Eraclito, secondo il quale:
ethos, il carattere, per l’uomo è daimon, un
demone; aforisma oscuro come oscuro fu Eraclito, colui che pronunciava massime
misteriose e profonde, che neanche Socrate fu in grado di penetrare sino in
fondo; perché oscuro, misterioso e profondo era il modello stilistico
eracliteo, paradossale, formulato in modo sorprendente per coloro, la quasi
totalità, che non erano in grado di percepirne subito il senso. Sorprendente
l’analogia con il modello stilistico brodskiano e seducente per la profonda
convinzione del ruolo fondamentale giocato dalla cultura greca antica nella
poetica e nella metafisica di Brodskij.(34)
Tornando all’aforisma, esso
può essere interpretato in due modi divergenti: gli uomini credono che li guidi
un demone, ma invece è il loro carattere; oppure: quello che gli uomini
chiamano carattere è, in realtà, una forza demoniaca. Questa seconda
interpretazione è il senso tragico, la tragedia che mostra come dietro alla
volontà dell’uomo ci sia la presenza delle decisioni divine, dei progetti degli
dei. Ogni azione umana, ogni atto dell’uomo proviene da lui; traduce il suo
carattere, il suo ethos, la sua maniera interna di
essere; allo stesso tempo, rappresenta il modo in cui gli dei hanno guidata
questa azione, senza che il soggetto umano ne fosse consapevole. Chi è
cosciente di questo, Brodskij il poeta, sa che la sua conoscenza è la
conoscenza di ciò che è già accaduto e, al contempo, l’ignoranza di se stesso.
Eraclito ha scritto che:
Confini (peirata)
all’anima peregrinando non troverai pur se tenti ogni via, a tal punto profondo
è il suo logos.
L’interpretazione potrebbe
essere: non puoi trovare nell’ anima altro che l’anima, non certo mai lo
scontro con i limiti di una cosiddetta realtà, giacché a ogni moto dell’anima
corrisponde precisamente un allontanarsi di tali limiti. Nei pensieri non si
trova mai altro che la necessità del loro concatenarsi, nei sentimenti il modo
del loro associarsi e variare, nelle passioni altro che la natura del loro
impeto.(35)
Brodskij ha ripetutamente asserito
che l’arte è prima di tutto organizzazione; cosa viene dopo cosa; come suoni
parole, immagini si susseguono gli uni agli altri, in un senso che diviene
unico e irripetibile; che il montaggio è stato inventato dall’arte e non dal
cinema e che i più grandi maestri del montaggio sono i musicisti. La parola, il
canto dei greci (melos), non è il solo modo di
esprimere la realtà; qualunque forma di espressione di una società, e in esse
rientra il suo ethos, è però sottesa e sostenuta
dall’impulso della parola, che è impulso di scelta, di ordine e di
comunicazione, di logos. Ma questa è già materia
per un altro studio.
NOTE
(1) Cfr. J. Brodsky, A Poet and Prose, in Less than One, New York 1986, p. 187; J.
Brodsky, A Room and a Half, in Less than One, cit.; S. Pavan, Un poeta e la lingua: Iosif Brodskij, in «Quaderni del
Diaprtimento di Linguistica», 12/2002, pp. 151-167
(2) Cfr. I. Brodskij, Čast’ reči: Stichotvorenija
1972-1976, Ardis, Ann Arbor 1977.
(3) J. Brodsky, On «September 1, 1939» by
W.H. Auden, in Less Than One, cit. p. 305.
(4) Cfr. S. Pavan, About the Concept of «Muse»
in Brodsky’s Poetics. Atti del XIII
Congresso Internazionale degli Slavisti, Ljubljana 2003.
(5) E. Livorni, Dall’ emigrazione
all’esilio: il paradosso dell’esodo,
Yale University
(6) Cfr. J. Brodsky, A Condition We Call Exile, in On Grief and Reason, New York 1995, pp. 22-34.
(7) A. Genis, Brodskij i Dovlatov,
Petropol’, pp. 234.
(8) Cfr. Ja. Gordin, Delo Brodskogo, «Neva», n. 2, 1989, pp. 134-166.
(9) I. Brodskij, Sočinenija, Sankt-Peterburg
2000, tom VI, p. 66.
(10) Cfr. L.Losev, La Venezia di Iosif
Brodskij, in I Russi e l’ Italia, Milano 1995, pp. 217-226.
(11) I. Brodskij, Ninety Years Later, in On Grief and Reason, cit., p. 423; cfr. S.Pavan, About the Concept of Muse..., cit.
(12) Cfr. I. Brodskij, Razgovor s nebožitelem, del 1978; Ja.Gordin, žizn’ na vozdušnom potoke, in Razgovor..., Sankt-Peterburg 2001, pp.
435-441.
(13) F. Stella, «La Repubblica», 18 marzo
1995.
(14) Cfr. S. Pavan, About the Concept..., cit.
(15) «La Repubblica », 22 marzo 1995,
intervista di Lorenza Pampaloni.
(16)L. Pampaloni, «La
Repubblica», 23 marzo 1995.
(17) R. Carifi, Il destino
schiacciante del poeta, l’«Unità», 23
marzo 1995.
(18) I. Brodskij, Sulla poesia di W.H.
Auden, in Lezioni di poesia, Le Lettere, Firenze 2000, pp. 35-54; Sulla poesia di
Robert Frost, ibidem, pp. 55-83.
(19) F. Stella, Joseph Brodsky a
Firenze, «Poesia», maggio 1995, p. 37.
(20) Cfr. S. Pavan, About the Concept of
Muse...,
cit.
(21) I. Brodskij, Lettera a Orazio, in Dolore e ragione, Milano
1998, pp. 80-81.
(22) J. Brodsky, On Grief and Reason, in On Grief and Reason, New York 1995, pp. 223-266.
(23) Cfr. J. Brodsky, Profile of Clio, in On Greaf and Reason, cit., pp. 114-137.
(24) I. Brodskij, Sulla poesia di Robert
Frost, cit., p. 69.
(25) J. Brodsky, On «September 1, 1939» by W.H. Auden, in Less Than One, cit., pp. 304-356; I. Brodskij,
Jork, Babočki Severnoj Anglii Plauto nad lebedoju, del 1976; J.
Brodsky, Selected Poems, New York 1973,
forward by W.H. Auden.
(26) Cfr. I. Brodskij, Sulla poesia di W.H.
Auden, cit., p. 50.
(27) «La Nazione», 29 novembre 1977.
(28) J. Brodsky, Derek Walcott, il saggio, scritto in inglese, fu pubblicato per la
prima volta come prefazione alla traduzione svedese di alcune poesie di D.
Walcott, Vinterlampor, Stockholm,
1991.
(29) Si cita dalla traduzione russa del
saggio, I. Brodskij, O Dereke Uolkotte, in Sočinenija, vol.
VII,
Sankt-Peterburg 2001, pp. 166-169.
(30) I. Brodskij, Poèzija kak forma
soprotivlenija real’nosti, in Sočinenija, tom
VII, cit., pp. 119-128.
(31) I. Brodskij, Pisatel’ – odinokij
putešestvennik, ibidem, pp. 62- 71.
(32) «Inostrannaja literatura», n. 6, 1997.
(33) Roma 1996.
(34) Cfr. S. Pavan, About the Concept of Muse..., cit.
(35)
Cfr. Nicola Chiaromonte, Il tarlo della
coscienza, Il Mulino, Bologna 1992.