IL TRAGICO CONTEMPORANEO: MIKLÓS HUBAY
RITRATTO DEL DRAMMATURGO UNGHERESE
di Luigi
Tassoni*
Miklós Hubay arriva da molto lontano: e
non solo dall’Europa poliglotta dei viaggiatori quanto dal cuore della tragedia
greca che tocca il mistero, il segreto, il cataclisma, la disumanità
dell’umanità. In un suo intenso saggio su un padre e un figlio, i due Szondi,
Lipót lo psicanalista, e Péter l’ermeneuta, si legge un brano che si attaglia
al drammaturgo di oggi (ne traggo una scheggia): «Circa i geni latenti che
definiscono il destino dell’uomo, Lipót Szondi è stato il primo a notare [...]
il loro possibile ruolo di sicari. Nel momento in cui anche i più grandi eroi
si coprivano gli occhi alla vista della propria fine, lui, Lipót Szondi, con
grande disinvoltura ammiccava alla paralizzante testa di Medusa, frugava fra le
chiome di serpenti». (Le teorie dei due Szondi sul destino tragico, «Il
cannocchiale», n. 3, 1998, p.7)
Anche le mani di Miklós continuano a
frugare nella testa di Medusa. La sua monumentale opera teatrale, già quasi
tutta edita in italiano e oggi annunciata in edizione unica da Rubbettino,e
rappresentata in mezza Europa, può essere distinta all’incirca in tre filoni
portanti: 1) i testi ispirati alla drammaturgia greca e latina, 2) i testi orecchiati
dal teatro ottocentesco, specie francese (per sfuggire alla censura), 3) i
testi ispirati a temi ed eroi contemporanei. E a chi dovesse sfuggire
l’infelice domanda di Geofonte nel dramma Addio ai miracoli, «Hai
scritto un dramma d’occasione?», io risponderei come il Sofocle di Miklós: «Per
meglio precisare: è l’occasione che è divenuta dramma».
Al centro della scena di Hubay vi è il
conflitto: fra padri e figli, fra io e alterità, dell’io con se stesso. E quale
maggior mistero poteva essere sperimentato sulla scena? Per parlare di uno dei
maggiori drammaturghi d’oggi, ho scelto dunque la strada più breve: la chiave
di lettura offertami dal dramma Freud ultimo sogno, nella versione
italiana di Umberto Albini.
Freud, motore e indagatore di conflitti
e contraddizioni, e non risolutore, si addormenta sul sofà prima di fuggire a
Londra, e sogna di trovarsi, ancora una volta seminudo come fa spesso, faccia a
faccia con l’Imperatore Francesco Giuseppe, che come sappiamo mai si sarebbe
sdraiato sul lettino dello sciamano. Non a caso una delle prime domande di
Freud al vecchio Franz Josef ricalca Shakespeare: «Che sogni si fanno dopo la
morte?» , chiede. A questa domanda paradossale vorrei aggiungerne altre non
mie, ma di Derrida, egualmente utili al nostro intento: «Qual è la differenza
tra sognare e credere di sognare? E innanzitutto, chi ha il diritto di porre
questa domanda? [...] Un sognatore, d’altra parte, sarebbe in grado di parlare
del suo sogno senza risvegliarsi? [...] Sarebbe capace di analizzarlo in modo
appropriato, e anche solo di servirsi con consapevolezza della parola ‘sogno’,
senza interrompere e tradire, sì, tradire ilsonno?» (J. Derrida, Il
sogno di Benjamin, Milano, Bompiani 2003, p. 9).
Il filosofo risponde no, oppure: forse
sì. Il drammaturgo risponde decisamente sì, e designa la scena come luogo degli
avvenimenti, come occasione senza mediazione altra che non sia la parola e
l’azione drammatica.
Il Freud di Hubay è eroe nel senso che
Socrate darebbeal personaggio: sempre su un limite tra la vita e la morte, la
morte e la partenza, il finire o il ricominciare, e naturalmente sognare e
vivere. La morte che, dice Hubay, per gli ungheresi è come un trasloco, o
viceversa il trasloco come una morte (elköltözött). In ogni caso, ciò
che accade a Freud sulla scena (come dice la figlia Anna nel testo) non rientra
nelle formule freudiane e forse appartiene alla tragedia greca. Perché? Lo
spiega l’epilogo sulla scena: mentre Freud (che ha con sé le casse dei suoi
famosi reperti archeologici e il testo del suo piccolo Mosè) arriva a
Londra, al giornalista della radio che intende intervistarlo, risponde
semplicemente: «Gli dei [...], questi dei così fragili, questi dei sono qui,
tutti, con noi». Il sipario si chiude, dunque, con la dichiarazione di un ritrovamento:
sono quegli stessi dei che la sorella di Sigmund, Paula, pensa si siano
perduti, mentre lo stesso Freud, padre e divinità della psicanalisi, cerca di
anticipare il proprio destino chiedendo l’eutanasia al giovane medico, Otto,
che così potrebbe guarire completamente dalla giovanile ossessione del
suicidio. Intorno imperversa la follia della storia, il crimine, il cinismo: da
quello del nazismo, il rogo dei libri probiti, la deportazione imminente anche
delle sorelle di Freud, fino alla follia quotidiana e agli enigmi dei viennesi
passati sul lettino dello sciamano, e via via risalendo fino alla follia
dell’Imperatore (distratto e fuori dalla storia come un imperatore romano), a
quella del giovane Rodolfo, e persino di Sissi e della propria famiglia, e
all’imbecillità delle guerre.
Ma il ritrovamento finale è un falso:
gli dei, lo avete sentito, sono fragili, essi ci sono, e nella loro stessa
fragilità c’è l’io contemporaneo.
Non per nulla questa figura di Freud
viene definita da un altro personaggio, l’amante dell’Imperatore, Katharina
Schratt, come medico degli orologi, taumaturgo degli orologi: è
il tempo che viene manipolato dall’eroe della tragedia contemporanea, in
un’epoca che, come ha detto lo stesso Hubay, conosce il dramma ma non riconosce
il sentimento della tragedia, quello abissale che si delinea lungo il corso
della storia e del tempo, e a volte risulta semplicemente inevitabile. Il tempo
sulla scena di Hubay ha una scansione ossessiva, martella con i rintocchi di un
pendolo, eppure il tempo è l’elemento principalmente sottoposto a
manipolazione: Freud ne è così ossessionato in piccolo tanto da voler arrivare
sempre in anticipo alla stazione ferroviaria, e in grande tanto da dare ai
sogni nel sogno la possibilità di mescolare le cronologie, mettere a confronto
le generazioni, mettere di fronte padri e figli. E qui lo stesso Sigmund Freud
con una maschera, si sostituisce a Rodolfo e uccide il padre.
La figura dello psicanalista è molto
vicina al ruolo del drammaturgo di oggi: un dio dubbioso, che non ha rimedi né
cure, simile a Edipo che si fa condurre da Antigone sul luogo della propria
morte, simile ad Anchise che il giovane medico (come Enea) vorrebbe caricarsi
sulle spalle. Questo personaggio multiplo, così si dichiara nel bellissimo
monologo dell’opera di Hubay (dramma? tragedia?), allorché si risveglia dal
sonno-sogno a cui hanno assistito gli spettatori, e inspiegabilmente appare
ringiovanito ad Anna ed Otto (dunque, il sogno, e l’azione tragica possono
ringiovanire l’eroe?): «Credete di avere solo voi il privilegio di rimanere
sfacciatamente giovani? Io sono il principe Rodolfo, il figlio dell’Imperatore.
Cosa ne dite? Porto sulla terra l’età dell’oro. Sono Giuseppe, l’interprete dei
sogni. Sono un profeta, un conquistatore. Sono Luigi. Sono una celebrità
mondiale che si trova qui in incognito. Sono il proprietario di una casa
chiusa. Da sessant’anni ho la residenza ufficiale a Vienna e sono un ebreo
errante».
Tutto succede nella stanza di Freud, in
quella stanza, con la responsabilità di un divano, che il drammaturgo fa
ruotare di 180 gradi davanti agli spettatori: la disseminazione degli io, il
calarsi nella pelle di destini diversi, perfora la coscienza, le sottrae quei
margini duri che altrimenti avrebbero spostato la lancetta della figurina
dell’uomo verso il piccolo dio, e invece ne mettono in luce la straodinaria sua
fragilità. Il drammaturgo come taumaturgo e sciamano non dà altra soluzione che
non sia già nell’interrogazione dei destini, e della loro inevitabilità.Tutto
succede, e ogni vicenda contiene in sé l’insiegabile e il non-senso: come per
la follia di Eracle che, dice Euripide, dopo aver superato le dodici terribili
prove eroicamente, come azione finale uccide i figli e la moglie. Lo spiega a
se stesso e a noi Hubay nel già citato saggio sui Szondi: l’elemento tragico
non bussa, come la dea della follia, dal tetto di casa, ma sconquassa dal di
dentro: «Sembrava davvero che Eracle, diventato un enigma anche a se stesso,
avesse chiesto un incontro con il vecchio ‘sciamano’ Lipót Szondi» (Le
teorie cit., p. 7). E più avanti: «Lipót e Péter, entrambi cercavano di
mascherare l’orrore della faccia della Medusa: il padre, lo psichiatra, per
diminuire le costrizioni e le sofferenze delle vite destinate a sopportarsi,
unite dai legami familiari, e l’altro, il figlio, per capire la tragedia delle
vite legate tra di loro nel dramma [...] Si sono infettati – come devoti medici
– della malattia sconosciuta che cercavano di scoprire» (ibidem).
La stessa infezione, senza
soluzione né guarigione, tocca al drammaturgo di oggi: per Miklós Hubay,
Euripide come Beckett, la percezione del tragico porta, come nell’antica
Grecia, verso un punto di rottura o una esplosione, il conflitto e la catarsi.
E la scena diventa la sperimentazione ad oltranza di questa possibilità. Perché
Hubay è un classico della letteratura e non solo del teatro? Perché nel suo
lavoro la sparizione del soggetto e della psicologia individualizzata sono
sostituiti da una scena che omologa la storia. È la storia il movimento di
ciascun uomo entro la propria vicenda, ciò che con parola difficile qualcuno
chiama destino. Per questo forse nell’opera a cui sta lavorando in questi
giorni, il destino del popolo Csángó in Moldavia, di cultura ungherese, gli sta
molto a cuore: un popolo muto, cattolicissimo, a cui la Chiesa di Roma nega di
professare il proprio credo nella lingua d’origine perché l’ungherese è la
lingua del diavolo. Il canto segreto dei Csángó, se è dramma irrisolto, fa la
storia. E oggi somiglia a un grido.
Perché, come si domanda Péter Szondi al
termine della propria dettagliata analisi del tragico, forse è vero che la
dialettica del tragico consiste nell’insieme di annientamento e salvezza (cfr.
P. Szondi, Saggio sul tragico, Torino, Einaudi 1996, p. 158).
La scena tragica si apre dentro
l’individuo e dentro la storia: la sua enormità e irrevocabilità sgretolano le
certezze, come fa Euripide con Eracle, l’eroe che sa che a nulla vale l’eroismo
se il delitto tragico lo frantuma. La follia è legata alla tragedia perché e se
non ha motivazione. Questa follia dei tragici antichi fino alla letteratura
romantica porta l’uomo a essere «fuori», anche fuori di sé oltre che dalla
storia. La tragedia avviene quando l’uomo rientra in sé, come si dice, e vede
la scena degli effetti di quel suo immotivato esser «fuori». Il dualismo,
l’opposizione a se stesso, la rottura con la storia, sono insanabili. La
tragedia della nostra epoca oggi è infatti tanto piú folle perché e se qualcuno
cerca di motivarla con le guerre e con gli integralismi.
E per finire tre domande: la
potenzialità del dramma e dei suoi nodi non rischiano di metterci la nostra
coscienza in mano? Sapremo anche noi frugare fra le infide chiome della testa
di Medusa? Di questa magnifica infezione come dimostrare gratitudine a
Miklós Hubay?
*
Discorso tenuto all’Istituto italiano di cultura di Budapest, il 9 dicembre
2003, in apertura della giornata in omaggio di Miklós Hubay per i suoi 85 anni.