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Comparatistica
"RIVISTA ITALIANA DI LETTERATURA COMPARATA", anno X, n. 13, novembre 1999, Besa Editrice, via Duca Degli Abruzzi 13/15, 73048 Nardò (LE), besa@mail3.clio.it, redazione: gnisci@axrma.uniromal.it, 142 pp., L. 28.000.

Erede de "I Quaderni di Gaia", ne prosegue la numerazione. Due interventi di Gnisci affidano alla letteratura e alla musica la speranza di autentica reciprocita fra un Occidente che scelga il proprio decolonizzarsi e altre culture. La poetica del galego Miro Villar mostra come, dagli anni del realismo socialista, il cambiamento storico abbia permesso di restituire al campo estetico ispanico un'espressione molteplice, ricollocare il tema dell'impegno politico fra gli altri possibili e riconoscere la specificita del linguaggio rispetto all'applicazione. Altri contributi di grande interesse: P. Stanojevic sul ruolo di Dubrovnik nell'"ampliamento del Mediterraneo" letterario; M. L. De Rinaldis sulla teoria della traduzione attraverso un testo poco studiato di Baretti; B. D'Angelo sulla comparatistica russa. Per la "Letteratura dei mondi", l'incisiva esperienza di Claudio Neréo Pellegrini e una scelta da Poesia del Kossovo, a c. di D. Giancane, Besa 1999.

Lucia Valori

 

The transparent life and other poems by LUIGI FONTANELLA, New York, Gradiva Publications-Stony Book 2000, 84 pp.
Angels of Youth by LUIGI FONTANELLA, New York, Xenos Books 2000, 170 pp.

L'uscita quasi simultanea di questi due libri rende omaggio a un autore infaticabile e all'opera poetica da lui prodotta in circa un quarto di secolo. The transparent life raccoglie testi compresi fra il 1978 e il 1996, mentre Angels of Youth riunisce la traduzione della raccolta Ceres, originariamente pubblicata in italiano nel 1996, e di due componimenti inediti del 1999. Il primo libro è tradotto da Michael Palma, poeta in proprio, che qui da prova della sua notevole capacita per far passare da una lingua all'altra risorse e meccanismi poetici, spesso raffinati e apparentemente ancorati alla lingua di partenza. Fra i molti esempi possibili, cito soltanto il ritrovamento di questa rima finale: "Sui rami fioriti / sui rami contorti / perduti nell'eterno verde splendore / la tua viva morta stagione volata, / primavera / non c'era", che diviene: "On flowering branches / on twisting branches / lost in ethereal green brilliance / your living dead disappearing season, / spring / has taken wing".
In particolare nella sua opera giovanile, Fontanella esibisce una grande varietà di forme e di tematiche, ama combinare un registro minimalista con folgoranti sentenze a sfondo filosofico, o con formule di teorica poetica, crea neologismi, spacca i versi e la sintassi con enjambement spietati, ricorre a rime interne e a omofonie di vario tipo. Il risultato è una poesia immediatamente accattivante, dalla musicalità irriverente, che può ritenersi per momenti affine al richiamo operistico di Paolo Ruffilli, o alla consapevole "antipoesia" di Edoardo Sanguineti; ma che mantiene sempre un suo segno molto caratteristico e personale. Forse quello che rende così "diversa" la poesia di Fontanella è proprio il fatto di scrivere in italiano, e di rivivere costantemente il suo passato italiano e la sua cultura italiana, mentre vive a New York da circa 30 anni, la lingua della sua quotidianità è l'inglese, e ha assunto come uno dei suoi compiti fondamentali la diffusione della poesia italiana in America (egli è fondatore e presidente dell'IPSA, Italian Poetry Society of America). E stato detto che le proprie radici si definiscono più vigorosamente quando l'allontanamento dalla terra d'origine sembra metterle in discussione; forse questo è il caso di Fontanella. D'altra parte lui è anche emblematico di quel crogiuolo di razze e culture che è l'America, facendone insieme la sua grandezza. Ecco che allora sembra naturale leggere quei testi in cui lui accenna o descrive la vita quotidiana americana, le ragazze che pattinano sul ghiaccio, le lavanderie a ore, per poi passare quasi insensibilmente a immagini diversissime, riportate dalla memoria, legate al presente da un misterioso filo di affinità visiva o emotiva. Così avviene, ad esempio, nel componimento dedicato all'amico Francesco Paolo Memmo, di Angels of Youth, in cui l'evocazione di un gioco da ragazzi - la palla sfugge, la corsa a prenderla - si trasforma nella misteriosa visione di una pianta gigantesca, in parte ricordo in parte simbolo dell'incontenibile forza della vita. E conclude il poeta: "...e dire che solo di neve avrei voluto parlare / di quella lenta bianca fioccata di stelle".
Il secondo libro, curato e tradotto da Carol Lettieri e Irene Marchegiani Jones, con un'eccellente introduzione di Rebecca J. West, crea un insieme complementare con il primo, in quanto sebbene la traduzione, corretta e gradevole, non abbia lo slancio poetico di quella di Palma, l'apparato critico che accompagna le poesie arricchisce la conoscenza dell'autore e la comprensione della poesia stessa. Di grande conforto per il lettore è scoprire come l'autore, attraverso il canto della perdita e del dolore, raggiunga qui, in questa sua poesia più matura, una serenita che è fatta di accettazione dell'inevitabile, ma non di triste rassegnazione, bens8 di responsabile recupero del possibile e quindi di riconciliazione con quel "qui e ora" che è la sua (la nostra) realtà nuda. Così il canto di Fontanella diviene in ultimo termine esaltazione della vita ed esaltazione della parola/scrittura quale strumento della memoria e della conoscenza, nonché sicura porta verso l'alto: "Vibra la pagina bianca / in quest'aria autunnale / foglia su foglia / che sopra vi scende / come l'albero si spoglia / la pagina si riempie".

Martha L. Canfield

 

EUGENIO MONTALE, Posthumous Diary, edizione bilingue, a cura di Jonathan Galassi, New York, Turtle Point Press 2001, $ 16.95.

Quasi in appendice alla sua ammirevole, ormai celebre e giustamente celebrata traduzione dei primi tre libri montaliani uscita nel 1998 col titolo Collected Poems 1920-1954, Galassi pubblica il Diario postumo, curandone da par suo la resa inglese, le note e la bibliografia e offrendo alla curiosità dei lettori americani un sunto delle vicende, tutte extra-letterarie, che hanno proliferato oltre misura intorno a questo volume. Ma il traduttore dà altresì il suo punto di vista su questi testi sui generis di Montale composti nel salotto tutto speciale di Forte dei Marmi e sottolinea il loro carattere ludico e occasionale, l'inatteso tema della paternità che si dispiega nell'affettuosa e giocosa amicizia con la destinataria degli ultimi versi del poeta, complice e traghettatrice post mortem di memorie, di arguti motti e umoristici ritratti di amici. Galassi richiama inoltre l'attenzione sul tono insolitamente intimo di questo Montale in chiave minore, ma pur sempre capace di commuovere e sorprendere tanto da essere letto come libro autonomo, sebbene ancor più apprezzabile come corollario all'opera più alta del suo autore. Come tale si propone questa traduzione, a partire dalla veste editoriale, più dimessa dell'elegante volume del 1998 pubblicato dalla Farrar, Straus & Giroux. Sta anche in questo la virtù di un traduttore: indicare con onestà ai lettori d'altra lingua e cultura il ruolo ed il valore di un libro nella tradizione da cui proviene.

Antonella Francini

 

MASSIMO BACIGALUPO, Grotta Byron. Luoghi e libri, Udine, Campanotto, 2001, nuova ediz. 2002, 206pp. ,€ 15,49.

Abbiamo letto un libro che stimola la voglia di leggere, o di rileggere con occhi nuovi, altri libri. Il titolo è Grotta Byron, il sottotitolo Luoghi e libri, l'autore Massimo Bacigalupo, anglista tra i nostri maggiori. E' una raccolta di scritti brevi degli ultimi vent'anni (soprattutto dell'ultimo decennio), per lo più corrispondenze o "occasioni", europee e americane, della misura adatta alle colonne dei quotidiani. Misura comunque scelta e privilegiata dall'autore come canone per un'informazione discreta, rivolta ai non specialisti, e filtrata attraverso una perfetta padronanza della materia.
Al lettore viene offerta, senza troppo parere, una quantità impressionante di notizie, spesso di prima mano, per procurarsi, tramite i luoghi, una chiave di lettura degli scrittori che li hanno abitati e rievocati nelle loro pagine. Un contributo a capire che l'esistenza di un autore è inseparabile, ma con giudizio, dai suoi libri. Niente "critica pura", preoccupata solo delle Opere, né il contrario predominio del vissuto o tassativi riferimenti a teorie estetico-filosofico-letterarie. Bacigalupo non segue nessuna di queste strade ma preferisce, in un mix ragionevole d'ogni tendenza, i riferimenti allusivi che creano cortocircuiti mentali. Se deve dire qualcosa sulle radici culturali di un poeta raffinato, cerebrale e sorprendente come Wallace Stevens, assicuratore di Hartford, si limita a ricordarci che è "figlio delle epistole di S.Paolo, come tutta la cultura americana", ed è un invito a leggere la corrispondenza dell'evangelizzatore di Tarso e di lì partire per capire non solo Stevens ma anche Faulkner e tanti altri di laggiù.
Il titolo prende spunto dalla Grotta Arpaia di Portovenere e dalla controversa lapide bilingue (con errore di traduzione), dove si ricorda che Byron partì di là per la sua famosa traversata a nuoto (ma chissà se davvero ci fu), fino a Lerici. L'autore ricorda che il luogo fu visitato in seguito da altri scrittori: da un ironico Henry James e da Pound che ironizza su James e scrive alcuni versi per uno dei suoi più celebri Cantos, il 49, poi cancellati e riscoperti da Bacigalupo negli archivi di New Haven.
Ritroviamo nel libro tracce di molti nomi famosi: Joyce, naturalmente a Dublino ma anche a Copenhagen, Yeats a Sligo (pronunciare "Slaigo") in Irlanda ma anche a Rapallo, dove Pound fu di casa, amico della famiglia Bacigalupo e dove Hemingway andava inventando, in un giorno di pioggia, il suo stile. E poi la chiara-misteriosa Dickinson ad Amherst, Lawrence a Spotorno e a Fiascherino, vicino alla Tellaro di Soldati, Singer a Varsavia, Milosz a Cracovia, il sardonico Faulkner nella sua tutt'altro che immaginaria Yoknapatawpha, Michel David a Genova, la Ortese e Bianciardi ancora a Rapallo… Il viaggio è lungo, ciascuna tappa diventa una piccola, godibile, narrazione.
Ripensandoci, è probabilmente sbagliato legare in modo così diretto, come si è appena fatto qui per semplificare, scrittori e pretesti di luoghi. Il libro di Bacigalupo è molto di più, dà spazio agli itinerari della fantasia, guida davvero, con mano lieve, alla lettura e alla comprensione.

Carlo Vita

 

Poesia Spagnola
"CERVANTES", revista del Instituto Cervantes en Italia, anno II, n. 2, marzo 2002, Garamond Editrice, p.zza Sallustio 3, 00187 Roma, c.c.p. 93150001, redazione: via di Villa Albani 14/16, 00198 Roma, cenrom@cervantes.es, 206 pp., € 15, 49 (abb. annuo).

Al terzo numero (augurale il n. 0), in sezioni già consolidate, accoglie una selezione dei risultati dell'attività promossa dagli I.C. di Roma, Milano e Napoli, consentendo permanenza e largo accesso a materiale di studio e aggiornamento di prim'ordine. "Cultura" rispecchia la varietà del programma Barcelona en Roma: dalla fotografia (Fontcuberta) all'urbanistica (J. Español), al Paesaggismo (Bellmunt Chiva), dalla critica letteraria (C. Riera sulla Escuela de Barcelona, Giralt Torrente sulla scrittura biografica, M. Escartín Gual sull'amore nella letteratura spagnola) alla poesia (J. Barja) alla mostra (la poesia visiva di E. Scala secondo A. Ruffinatto) risaltano adeguatamente le attrattive culturali di una città fra le più dinamiche e poliedriche e quindi più esposte alla fagocitazione massiva. "Didáctica" non ha nulla della freddezza tecnicistica e polverosa che la parola spesso promette e propone effettiva informazione (un es., P. Hernández Mercedes sulla Traduzione Automatica). La monografica "Hispanismo" verte su Garcilaso a cura di rinomati specialisti: A. Gargano, I. Pepe Sarno, M. Rosso Gallo; di N. von Prellwitz due efficaci versioni all'insegna di una modernizzazione anche strutturale del sonetto. Nelle recensioni, F. Antonucci rende omaggio al valente S. Arata, prematuramente scomparso, all'uscita dell'edizione di El acero de Madrid di Lope. Le ultime pagine bandiscono il Premio di Traduzione Letteraria dell'I. C.

Lucia Valori

 

"ÍNSULA", revista de letras y ciencias humanas, n. 652, abril 2001, Ctra. de Irún, Km. 12,200 (Variante de Fuencarral), 28049 Madrid, 32 pp., € 69,40 (abb. annuo).

Fra i numeri dell'annata, la materia poetica di questo richiede un po' di spazio. Grazie all'interdisciplinarità (musicologia e filologia) si può pensare a uno studio evolutivo fino ad oggi della poesia musicata dei villancicos: I. Tomassetti contribuisce con dati inediti al lavoro di Pavia I Simò sul genere. Il saggio-recensione di Molina Damiani riacquisisce Diego Jesús Jiménez quale poeta di rango da un contesto di fraintendimento ed oblio e, fra le nuove uscite poetiche (di Siles, Campos Pámpano, R. Häsler), F. León ci fa notare il terzo libro di Jordi Doce, Lección de permanencia, sia per la proposta controcorrente sia per la magnifica espressione. Centro d'attrazione è però l'inserto sulla controversa e fatidica antologia di Castellet Nueve novísimos poetas españoles (1970): la difesa di T. Blesa circa il presunto voltafaccia di Castellet, da paladino a inumatore del realismo marxista letterario a mezzo dei poeti ascritti a successive antologie, non avrebbe motivo quando si pensasse che atto soggettivo è legittimamente quello di ogni autore di antologie; di cui però in questo caso vengono ripercorsi in modo involontariamente controproducente gli atteggiamenti preconfezionati da una mentalità vivacemente intuitiva ma tutt'altro che realmente duttile alle differenze poetiche che quei maestri, di cui secondo T. Blesa erano deserti gli anni '60, andavano meditando (basterà citare Aleixandre e J.L. Cano). J.J.Lanz opera il bilancio sul caso editoriale con pertinente aggiornamento bibliografico e di prospettiva. Gli elementi circostanziali e strumentali della scelta antologica vengono alla luce, come conclude Lanz, mentre le ragioni il tempo le ha cancellate o mantenute con indiscutibile ovvietà: si ridimensiona quella rottura poetica che appare ora un'evoluzione meno brusca e più profonda di quanto si suggerisse. Oggi è ineludibile riferirsi a quei poeti come novísimos, e non è gran male anche proprio per apprezzare che dal codice ideologico -non solo "mitológico" come preferisce Lanz- di Castellet erano evasi prima di entrarvi; in altre parole la gabbia linguistica funziona non tanto come definizione estetica ma piuttosto storicamente, grazie al lavoro poetico e critico intercorso. Di fatto il fortunato termine, già prestito della storia della letteratura italiana, è stato riutilizzato ed elaborato (si pensi ai "postnovísimos") a più riprese, il che, contrariamente a quanto talvolta è stato osservato, non ha prodotto la sua usura, bensì ha contribuito a chiarirlo, rivitalizzarlo e dotarlo di un certo significato che Castellet paradossalmente gli aveva precluso in quanto assunto aprioristico. Ottima la scelta di riprodurre un articolo lungimirante, dello stesso 1970, di J. O. Jiménez. Questi aveva inaugurato tre anni prima di Castellet per alcuni di quei poeti il termine 'novísimos': sia detto per inciso, non per dare statuto di verba ma per considerare che tra sensibilità critica e lancio letterario può intercorrere una distanza. È saggio, come vuole T·a Blesa, non fare altro processo a Castellet dopo quello su cui egli aveva forse contato e riconoscergli anzi quel merito di priorità e di parole a cui seppe infondere davvero sapore di scoperta e di entusiasmo; e insieme lasciar prendere corpo alla speranza che si plachi il sommovimento che l'antologia pare ancora esigere prima di diventare un classico d'epoca.

Lucia Valori

 

"QUADERNI IBERO-AMERICANI", rivista semestrale, n. 89, giugno 2001, via Montebello 21, 10124 Torino, 112 pp., euro 25, 08 (abb. annuo), $ 50 (estero).

Nucleo di spicco sono tre interventi sull'universo Borges, sempre capace, secondo il disegno del geniale autore, di aprire itinerari affascinanti: M. L. Canfield esamina il nesso tra le figure del Minotauro e del labirinto e riconosce quest'ultimo segno come "chiave dell'ispanoamericanità", avendo già dedicato al tema decisivi scritti; C. Perilli sceglie l'accesso alla geografia alfabetica e metafisica di Borges dalla parte della scrittura e in un gioco esplorativo che, senza mancare al ri-ordine critico, conserva l'incanto della partecipazione di questo creato come Libro; non meno interessante il saggio di J. M. González Álvarez sul motivo epico, di così complessa interpretazione e straordinaria valenza, nella poesia borgesiana; fra le "Segnalazioni" di Soria, infine, uno studio di L. Silvestri sul rapporto dello scrittore argentino con Dante e Cervantes (Bulzoni 2000). Si invita poi a leggere, fra gli altri, A. Barbagallo, che prospetta ulteriori elementi sulla celebre temporalità machadiana, e F. J. Higuero, la cui brillante lettura di A. García Morales costituisce anche una preziosa riflessione di poetica contemporanea sulle strategie del discorso. Fra le recensioni, diverse contano sulla competenza di M. Cipolloni su cinema e letteratura; la poesia è ospite con l'ultima raccolta dell'uruguaiano J. Arbeleche presentata da M. L. Canfield.

Lucia Valori

 

«SI MI VOZ MURIERA IN TIERRA». Breve antologia della generazione poetica del '27, a cura di Coral García Rodríguez, Firenze, Alinea 2003, 228 pp., € 18,00

Questa suggestiva antologia nasce dal Corso di Perfezionamento in Traduzione Letteraria aperto a laureati dall'Univ. di Firenze. La scelta degli autori, entro una rosa prestabilita, e dei testi è volutamente lasciata al gusto dei partecipanti e ad essa e ai risultati la curatrice dedica una precisa escussione nell'ultima parte dell'introduzione, che fornisce la necessaria contestualizzazione delle opere e apre una finestra sul laboratorio. Le sillogi, in alcuni casi si concentrano su aspetti o periodi delimitati o seguono un criterio tematico, in altri mirano a dare un'idea della produzione più caratteristica dei poeti, nove dei quali sono fra i più 'canonici' della famosa generazione: Salinas (tradotto da N. Barbieri e F. Princi), Guillén (D. Elisacci), Diego (G. Iandiorio Benelli), Aleixandre, Alonso (entrambi nella versione di G. Tuccini), García Lorca (C. Oliviero), Alberti (R. Giacomelli), Cernuda (M. Michelacci e F. J. García Melenchón) e il geniale Larrea (E. Campani), non sempre ricordato per aver scritto dapprima in francese; meno note le tre figure femminili incluse «a scopo rivendicativo», operazione a più riprese giustamente proposta (ricordiamo il n. 557 di «Ínsula», maggio 1993, dedicato alle Mujeres del 27) e nuova in Italia: Concha Méndez (C. García), Ernestina de Champourcin (E. Borghi) e Josefina de la Torre (Campani); queste poetesse non seguirono la carriera universitaria come i cosiddetti 'poeti-professori' del gruppo forse «per il loro essere donne» anche se furono ad ogni modo personalità poliedriche e di riconosciuto rilievo nella cultura dell'epoca: attrice, doppiatrice della Paramount, soprano J. de la Torre; traduttrice affermata la Champourcin, come la Méndez, che scrisse per il teatro e il cinema e con il marito Altolaguirre svolse un lavoro di tipografia fondamentale per la poesia.
Di grande interesse il contributo dell'introduzione sulla fortuna italiana dei poeti, di cui sono relativamente scarse le singole traduzioni nuove o disponibili (C. García, specialista del settore, è autrice di un volume sulle traduzioni italiane della poesia spagnola del sec. XX (1975-2000) edito dalla Uned, Madrid 2003). L'excursus considera la storia del celebre gruppo, la terminologia stessa che ne fa parte e non è trasparente per i non addetti ai lavori (gen. del '25, proposto da Cernuda, in Italia è preferito da Macrì), la diffusione ad opera dell'ermetismo fiorentino e poi la risonanza di autori visti come simbolo delle conseguenze del franchismo (Lorca per la morte, Alberti per l'esilio e l'impegno politico) a scapito degli altri (es. Aleixandre, nonostante il Nobel). Coral García osserva che l'immagine stessa della Spagna avrebbe potuto essere diversa se il poeta più noto all'estero non fosse stato Lorca, con il mito di gitanería che circonda la sua opera e che tanto infastidiva l'autore per la distorta parzialità. I ritratti dei poeti nei disegni di Seracini sono abbellimento del volumetto che riporta all'attenzione del lettore italiano quello che la curatrice definisce nel modo più appropriato «un gruppo di poeti europei e non solo spagnoli, il cui merito è costituito da un sorprendente e fruttifero amalgama di tradizione e avanguardia, legato all'individualità e varietà di registri poetici».
Libro ricco e disuguale, realizza il suo duplice intento scientifico e divulgativo nel riannodare le fila della ricezione anche rinnovando e incrementando traduzioni classiche e prestigiose come quelle di Macrì e di Tentori Montalto nelle rispettive antologie poetiche sul sec. XX; a questo riguardo, la non uniformità dei campioni testuali può apparire l'aspetto debole dell'antologia, ma qui sta anche la peculiare attrattiva e l'utilità specifica del lavoro complessivo come proposta di lettura che sollecita l'approfondimento e la riflessione traduttologica. La gamma di risposte data ai problemi testuali rispecchia la costruzione di una lettura apprezzabile anche nelle soluzioni meno condivisibili o nelle classiche sviste a cui il traduttore è sempre esposto e al di là della sensibile differenza di esiti. Desideriamo ricordare almeno la traduzione di Guillén, impeccabile per tutto l'insieme dei requisiti desiderabili (scelta, interpretazione, tenuta metrica), nonché considerando il precedente di Macrì; lo spicco di Cernuda nella versione di alta qualità, questa volta sul versante del metro più libero e non meno impegnativo nella ricreazione, e nell'eccellente scelta testuale che avvicina il lato meno terso e forse il più eluso e importante di questo grande poeta; l'incantevole poesia di J. de la Torre, servita da adeguata lettura, è una rivelazione di questa antologia.
Iniziativa felice tanto quella del Corso quanto quella della pubblicazione che concretizza le fatiche di coloro che si sono cimentati in questo compito, a confermare quale complesso lavoro di studio e di sintesi sia tradurre, il cui risultato è sempre un contributo interpretativo e quindi - non ultima delle sue bellezze - non definitivo.


Lucia Valori


ELOY SANTOS, donde nadie dice, Presentación de Luis Sepúlveda, Gijón, Literastur 2003, I Premio Alonso de Ercilla, 54 pp., € 10,00

Eloy Santos è al suo primo libro, vincitore del premio internazionale di poesia di Gijón; è nato a Salamanca ma vive fuori di Spagna come Juan Vicente Piqueras, dedicatario della bellissima oda al caracol, con il quale ci sono affinità di temi e di sentire (il tempo, Roma come luogo di esilio, lo sradicamento che il mare significa, il mondo apparentemente piccolo della carta da scrivere che si rivela sterminato, la solitudine) entro un'espressione e uno stile completamente diversi. Il legame principale, infatti, parte proprio dal dato biografico: Sepúlveda nella presentazione parla di una poesia che ha «perduto il suo lare» e accoglie il proprio europeismo affrontando l'incertezza della situazione oggettiva e i sentimenti contradditori che suscita. Il problema culturale del riconoscimento di un'identità e del luogo di appartenza è il nucleo centrale sviluppato con grande originalità in questa poesia, di cui è immagine il «caracol», la chiocciola, che si affaccia cauto e timoroso a un mondo ostile dalla sua casa divenuta fragile veliero. La figura di Ulisse, cui alludono titolo e seconda epigrafe, corretta da quella del Crusoe di Valéry nella prima, è emblema di quest'odissea estranea all'altisonanza del mito: il celebre stratagemma nominale dell'eroe è assunto nella verità più dimessa e umana, maestro il Vallejo de Los heraldos negros: questo nessuno con la minuscola, privato di ogni speranza di ritorno perché la vita non ha salpato e scorre alla deriva sul fiume di un altro parallelo (volver), attende piuttosto la salvezza. La pazienza è il suo carattere; il volto è quello del «niño arcano» presente nell'adulto ma misterioso come parte del presente e futuro che sono una pagina abbozzata fuori luogo: «estos cuadernos vagabundos narran / las playas que tardé en hablar la lengua / fértil del desconsuelo» (nadie). Non parlerei di anonimato per l'identità oscura, quanto di radicale solidarietà con il dolore, quei «golpes en la vida» di cui parla Vallejo, e le sconfitte che la parola ha patito nel nostro tempo ostile, assunti consapevolmente in questa poesia. Il viaggio non avviene sul mare avventuroso perché è tempo di silenzio e della terra desolata di un Lazzaro che nessuno chiama, mentre le parole sono invece ferocia cieca che divora restando incoercibili a esprimere un appello (si vedano la espera, botella sin mensaje, reloj de ocaso). nadie, poesia di apertura, propone un ossimoro di fondo: «nadie se oculta tras el nombre esquivo. / nadie espera respuestas. / nadie os habla»; l'enunciato duplice, letto con il senso corrente o dando al soggetto indefinito la funzione di nome proprio, si rispecchia nella poesia finale, alguien dice: «por decir, digo también que es poesía / la rítmica vigilia de las manos ciegas / y que el alba prefiere a los que callan, / los que aman sin decir, / pero no sé quién dice lo que digo». La negazione è strutturante e conclusiva, ma nell'obliquità del 'nessuno' che mette in relazione presente e assente, va letto anche il messaggio di una parola muta che pretende da chi l'alberga di farsi voce (la penumbra desde un sillón, vigía) e il penare del pensiero per trarre alla riva del giorno i frammenti di un sogno: «a veces el mistral trae voz y pájaros / de tierra firme que no veo. antes / de que se pierdan los imito aquí, / y en el perfil que implora su existencia / la noche me parece menos ardua, / y el corazón se finge faro, orfeo, / pulsa cuerdas de un arpa submarina / con mis dedos de luz hasta mañana» (esperando la ola). Poesia anche del virtuale, che sente il peso dell'epoca della dissolvenza e del mai attuabile, l'esilio dell'irrelato: in fondo un paradosso tipico della condizione contemporanea in cui la velocità del tempo reale contrasta e convive con la lentezza del pensare, invece, l'esistenza. Per il resto l'ironia ha spine che non lasciano scampo alla bugia pietosa del «miracolo»: il naufragio o fallimento è sempre in atto, né è chiesta tregua perché tutto è già perduto (si ricordi lo splendido romanzo La tregua di Benedetti) per gli «arenados» in un tempo stagnante (aguas de bajura), che disertano la vita dediti invano a scrivere (aquí). Assurde allora anche la resistenza alle tempeste e l'attesa sterile e ostinata? Se non fosse che questa è la «voce», fatta di un silenzio che nasconde continenti incompiuti e pagine vietate (de este lado), e questa è la «vita», una «selva innocente» in cui il male del dolore non si finisce mai di espiare (tristes trópicos). Questa voce viene infatti dalla terra dei non sopravvissuti, «carne desangelada» come i bambini morti senza grazia né tutela di nome (piazza del limbo, firenze) e, per aver condiviso la pena degli assenti, ha imparato suo malgrado a restare dove nessuno dice («así aprendimos a gastar la vida / y nunca lo olvidamos, ya pase lo que pase»:vigía) e sa vegliare e leggere «le parole che non ci sono».
Che cosa ci dice questa poesia «del lado azul de la verdad» che noi ‘ipocriti lettori’ non conosciamo bene nella sua miseria di mani vuote, labbra senza parole, corpo disabitato, candide bestemmie e colpe irredimibili? Forse il nonsenso e nel suo rovescio il senso che l'attraversa sfuggente come un lampo di ferite o come un brivido che annuncia terremoti (recinto de la piel, la gran explosión), ma proprio per questo indubitabile come tutte le cose che sono sisma dell'essere, del «bambino arcano», come lo ha chiamato ES, che ha superato in incognito l'ultima spiaggia salvato senza che si sappia come.
Il limbo che è distanza dalla vita (tema di molta poesia contemporanea, si veda A debida distancia di Álvaro Valverde), scissione fra corpo e psiche, tempo, luogo e senso è anche ciò che rende possibile l'arcano, proprio perché negato dalla memoria, inesistente, quando tornare allo spazio dell'origine rimontando la corrente era stato il primo proposito del poeta. Allora la fatica si dirige verso quanto non si può recuperare, il mistero di questo presente 'sempre ipotetico', dove appunto «nessuno [...] rimonta quella corrente»: mettendo in ombra il soggetto è possibile sentire le parole di qualcuno attraverso il soggetto, cancellato perché vi sia il palinsesto per la lettura e scrittura in negativo, la nascita di qualcosa che conta più della cosa, il regalo de cumpleaños para el niño arcano che, corretto fino alla fine dal «si pudiera» (se potessi), non perde nulla del pensiero. «nadie» nell'ultima poesia è «alguien», 'qualcuno' con le dovute correzioni di questo caso, ancora un pronome indefinito di lettura duplice e la traduzione di una ritrosia dal soggetto forte (si veda retraso: l'arrivo in ritardo a scuola, con i compiti, restati per sempre, da fare), che è qualcosa di più coraggioso e generoso del soggetto debole, perché persevera nel non sapere, nella vocazione di annullamento disponibile allo stupore come un araldo che resta di vedetta nell'oscurità - il guscio della chiocciola o i «laberintos de caligrafía» - solo perché con l'alba vi si illumini la presenza dell'invisibile. I nomi qui non hanno più come per i simbolisti e i poeti puri il potere di creare, l'io non è più padrone di un mondo, mentre la poesia riflette piuttosto nella depersonalizzazione un carattere psicologico del nostro tempo; ma ci sono anche l'ospitalità, tutelare delle figure tutelari (accanto a madre e padre, i giocattoli per una razza estinta), quella che con un prestito da Cesare Viviani si può chiamare preghiera del nome (vd. oración para mí, plegaria de las manos) e la speranza disperata comune a tutti i nessuno che hanno viste bruciate le loro illusioni. Non il sapersi salvare, ma essere salvati dal tavolo su cui si scrive: è emblematico che, abbandonato il navigare a vuoto del pc, la scrittura avvenga con una «estilográfica indolente», sobre la mesa che ha avuto un tempo felice di albero e ora lascia che il canto della poesia vi si annidi addormentato o vegeti di «hojas blancas». La pagina bianca non sa cercare riempitivi dove la semplice parola è stata mortificata. In fondo una ragione dell'inefficacia delle parole di questo secolo, giovane e già segnato dalla fine del precedente, dai suoi tragici eventi e dal carattere disumanizzante inapparente: ne sono metafore il «secreto diluvio de las horas» (aguas de bajura) o, altrettanto inavvertita, la glaciale inondazione metropolitana di enero 1998. Alla poesia non resta che ricominciare da questo punto zero, dalla coscienza dell'assoluta fragilità (ne è figura il «soldadito de plomo» in juguetes de antaño) sull'unica tavola di salvezza di un quaderno in bianco sulla spuma che porta l'annuncio: non del ritorno però, né della terra promessa bensì delle promesse fatte al «bambino arcano» solo a fede, con parole mai pronunciate. È la terra di nessuno divenuta di qualcuno che, perso tutto, può riconoscervisi e rendere il mistero augurale: «y entrar en el paisaje donde un hombre / esculpe su palabra más allá de la sed, / y no se pertenece, / y su pasión se parece a la vida, / y nada le avergüenza» (anuncio por palabras). È questo anche il riscatto dell'entusiasmo infantile possibile alla poesia che oltrepassa i confini dell'io per dare forma ai sogni umani. Sono versi che Sepúlveda cita nella presentazione annoverando Eloy Santos fra i grandi poeti contemporanei che rendono la loro esperienza di esodo culturale visione cosmopolita e generoso metodo per ordinare l'universo e aiutare a comprendersi.

Lucia Valori

Poesia Statunitense
EZRA POUND, Canti Postumi, a cura di Massimo Bacigalupo, Milano, Mondadori 2002, pp. 298, € 9.40.

While Massimo Bacigalupo will not be new to readers of Pound, his selection from manuscripts for The Cantos brings welcome news in the form of choice passages from papers at Yale’s Beinecke Library and several other sources, arranged in eight phases of the poem’s composition, including the Italian cantos from 1944-1945. Pound’s way of piling up drafts for his ongoing harvest of gists was abundant and practical, but seismic shifts of the historical ground beneath him made of his granary a grand array of ruptures. Not only did World War I and its aftermath largely erase the cultural context for the first thirty cantos; the collapse of Mussolini’s regime in World War II, the detention at Pisa, the de facto incarceration in Washington, and the prolonged twilight after Pound’s return to Italy, made even his witness as ego scriptor an affair of fresh starts and geological renewals. Therefore the beauty of an augmented view of this discontinuous poem, the Alps in Basil Bunting’s phrase, which by the same token embraced perforce the synclines of uncontrollable upheaval. Pound’s text as printed incorporates these; his workshop shows their finer jumble, and indeed a huge talus rock slide of stuff he wanted to pick through on his re-ascents of the slopes. As someone who has looked at the Beinecke’s manuscripts for the first thirty cantos, I can attest to Bacigalupo’s acumen in picking out good stones. The early, supplanted Three Cantos appear here--posthumous in that they were reprinted only after Pound’s death-- as do telling selections from the global, aborted paradiso of 1944-1945, Scotus Eriugena and Cunizza consorting with Gautama and Confucio -<<Il Sole grande ammiraglio conduce la sua flotta / nel suo gran péripolo, / conduce la flotta sotto i nostri scogli>> - bits of their phrasing soon to be jolted by trauma into the English of the Pisan Cantos. The selection of drafts for Rock-Drill preserve Pound’s own title for their appearance in Italian, <<Prosaic Verses>> or <<Versi Prosaici.>>
Texts appear in English and Italian on facing pages, with care for the niceties of bilingual navigation (for example, the inverted commas added on p.141 in translating Pound’s comment on an 1815 account in the Gazzetta di Genova of Napoleon’s fall and return, paralleling Mussolini’s in 1943, which alert Italian readers to Augustan allusion: <<which to the genovese mind showed zeal; but / scant knowledge of the ways of the human heart>>). The endnotes and introduction guide readers, whether poundisti or curious visitors, over this crevasse-rich terrain with a sure hand. [438]
A personal note, which some of my readers may register as communal. Working through these selected drafts, I found spiky addresses to the current USA Metternich-like war to impose order willy-nilly on others, and impose it while being carried on the backs of other nations to the tune of an astounding debt and selling the world most of its weaponry. The ignorance of such facts and their precedents was Pound’s subject. Some of these gists, then. From the years in Rapallo and Venice, 1928-1937, on the effects of debt commercialism or ‘Geryon’: <<under his shadow is quiet, cometh their stupor, / then death of the spirit>> (p.102); from the war years: <<all that we know of things is their sequence / what precedes and what follows>> (p.128, which one may stitch to the non-thing poetic of p.166, <<Dante / sense / not the thing but the time>>); from Pisa in 1945: <<as some Jersey City by Lethe ... / the continuity of the gun sales>> (p.204); and finally from the Rock-Drill phase in Washington: <<a bad thing to have an abstract idea of a senator, / worse for a writer, but a bad thing for anyone>> (p.226). While Bacigalupo did not set out to underline such relevancies, his selection lets anyone find them for themselves, and in so doing know more than one sequence at time. He has opened a new trail into the Alps.

John Peck

 

A comment on small non-profit presses in the United States by Richard Deming, the founder of Phylum Press (http://www.Phylumpress.com)
Phylum Press, Poesis, and the Present Tense

Innovation, by and large, comes from two conditions—desire and dissatisfaction. Three years ago Nancy Kuhl and I had come to feel that there weren’t enough outlets for the kind of poetry and poetics we felt most committed to and so we started up Phylum Press. Our ideal was to create a forum where certain elective affinities could coalesce. Those affinities center around the possibilities of lyric poetry not only after Auschwitz, but after Ronald Reagan. To be is to be in conflict—certainly a condition not limited to poets in the U. S.—and the poetry that interests us is that which enacts and embodies that conflict and tension. Thus, the hope of Phylum Press is to mark out the possibilities of a community of poets, ones coming into their own sense of place and moment.
We felt that in beginning a small press devoted to publishing younger, emergent poets, ones steeped in—paradoxically—an avant-garde ‘tradition’ that we were finding ourselves a place in what is a long and rich history, both in terms of ‘pamphleteering,’ and in literary cultural production, beneath the radar of what American poet Charles Bernstein describes as <<official verse culture.>> Indeed, the recent A Secret Location on the Lower East Side—a sourcebook edited by Steven Clay and Rodney Phillips and published by Granary Books providing a definitive overview of the vast array of presses and magazines that were part of the “mimeo revolution” in America during the sixties and seventies—gives ample testimony that there have long been editors and poets in the U.S. doing similar things. A more specific example would be the Angel Hair Anthology, also published by Granary and edited by Anne Waldman and Lewis Warsh, which collects the various publications of one such publishing project from that era centered around New York City and responsible for producing inexpensive books by key poets of that particular generation. Going further back, one need only point to Walt Whitman’s self-publishing and Emily Dickinson’s fascicles to see the roots of this history. The commitment evidenced by such productions provides us with the imagination of what is possible if one thinks of alternatives to mainstream books.
At the beginning we were motivated by what we perceived to be a lack. There seems to be ample (all things being relative of course) outlets or venues for those who are “mainstream” as well as for those who are dogmatically experimental. We felt (and of course still do) that there are far fewer houses that were participating in the kind of work we most value. The aesthetic values that we are most interested have yet to coalesce as a school or a movement in the ways that one can discern with prior generations. The writers we publish are young and fugitive and are prime examples of this aesthetic that we find compelling—that is, poets who are revisiting in vastly different ways the questions of lyric subjectivity after its various problems have been brought to light. We see ourselves as suggesting certain elective affinities among poets who are pursuing lyric poetry as a text of negotiations—as Cathy Eisenhower does in blurring poetry and travel writing, academic footnote notes and the personal essay—whether the negotiations be with self, history, or culture, or something else entirely. This is less a school or movement than a sensibility. In fact I am more comfortable in talking about aesthetic tendencies or similarities amongst the poets of this generation than suggesting a clear program. Part of that is largely historical, as this generation, my own, comes after and resists the ascendancy of American political and cultural neo-conservatism, and after the exhaustion of Marxism. These poets are attuned to the materiality of poems—as in the example of Kristin Prevallet’s or Michael Kelleher’s work; they are skeptical but not antagonistic to lyric subjectivity, and yet profoundly aware of Wittgenstein’s claim that aesthetics and ethics are one. It is poetry after “the end of history” so to speak. So this avant-garde rejects totalizing concepts, is made uncomfortable even by the kind of generalizing I am doing on their behalf, is circumspect of narrative because of its potential for ideological compliciticies. <<In the dream our tribe was called Equivocal Irreparable,>> Tejada writes in Exedra, and the poets of this present generation that is laying claim to its own present tense seem largely to be negotiating this problem, this condition of a culture that is equivocally irreparable. Yet despite the skepticism and suspicion there is the sense that things do in fact hang together. And what we receive back is what poetry affords us generally—conversation, to begin with, and the opportunity to participate in a network of thinking about poetry, of thinking about thinking, and what are these but motivated encounters with the world. To realize one is not alone is no small thing and we hope that Phylum offers occasions, no matter how fugitive, for contact to be made. We can’t lay claim to any real change that has come from our efforts but we can point to a map of sympathies, of interchanges and chance meetings. The dream of making, of poesis, is that one reappears to others, surely, but to oneself, mainly, through work, through activity. Thus, the making of books and poems are ways to participate, to engage the materials of the world where, daily, we find ourselves.

Richard Deming

 

SAM HAMILL (cur.), Poets Againsts the War, New York, Thunder Mouth Press 2003, pp. 263, $ 12,95.

La first lady americana non deve aver certo gradito l’omaggio poetico che decine di autori hanno voluto offrirle con questa antologia a lei dedicata, un imprevisto, seppur minore, incidente di percorso nella routine culturale della Casa Bianca. Il curatore Sam Hamill riassume nella prefazione i fatti che all’inizio dell’anno diedero avvio alla protesta di un sostanzioso numero di poeti americani contro l’intervento Usa in Iraq e che, via internet, hanno fatto il giro del mondo. In gennaio Laura Bush invita esponenti della poesia statunitense ad un simposio intitolato “Poetry and the American Voice” da tenersi nella residenza presidenziale il 12 febbraio 2003, una celebrazione ufficiale dell’opera di Whitman, Dickinson e Langston Hughes. Gli inviti raggiungono i destinatari proprio nei giorni in cui il marito dell’ingenua signora e la sua amministrazione annunciano l’attacco “Shock and Awe” in Iraq. Voci di dissenso da parte di alcuni poeti, intenzionati a declinare l’invito, raggiungono la casa Bianca dove si provvede immediatamente a cancellare il progetto perché, comunica il portavoce della Sig.ra Bush, la first lady crede “che sia inopportuno trasformare un evento letterario in un forum politico”. Con una tempestiva lettera ai colleghi poeti, Hamill invita a costituire un movimento Agaist the War come quello dei tempi del Vietnam e a trasformare il 12 febbraio in una giornata della poesia contro la guerra facendo veramente sentire alla Casa Bianca ‘la voce della poesia americana’. Si invita anche a produrre testi per un’antologia di protesta da presentare a Washington proprio nel pomeriggio in cui il simposio avrebbe dovuto aver luogo affinché fosse chiaro a quella amministrazione che la voce dei poeti non può essere zittita da nessun atto politico. Nel giro di poco è necessario istituire uno specifico website (poetsagainstagainstthewar.org) per far fronte alla marea di poesie che arrivano a Hamill da ben 11.000 autori, poeti di spicco di ogni generazione come pure dilettanti ed occasionali versificatori. Il 12 febbraio si registrano negli Stati Uniti oltre 200 poetry readings; il 17, l’associazione Not in Our Name organizza un secondo round al Lincoln Center di New York a cui partecipano, fra gli altri, Galway Kinnell, Stanley Kunitz e Arthur Miller. Quello stesso giorno il movimento acquista uno spazio sull’edizione nazionale del "New York Times" per “Un appello alla riflessione” firmato da 24 poeti, fra cui Adrienne Rich, W.S. Merwin, Robert Creely, Ferlinghetti, Robert Bly e Yusef Komunyakaa, dove si chiede all’amministrazione Bush “di fermare la sua avventata corsa verso la guerra, di tener conto delle voci della gente del mondo, e di cercare modi pacifici per risolvere i conflitti in collaborazione con la comunità internazionale”. Si dichiara inoltre che il loro dissenso si inscrive nella lunga e ricca tradizione di opposizione morale dei poeti e degli artisti americani alle politiche criminali e insensate, inclusa quella del loro attuale governo. Il 5 marzo viene indetta la giornata internazionale della poesia contro la guerra e si hanno oltre 120 readings in varie parti del mondo;13.000 poesie di protesta vengono presentate ai vari governi, inclusi quello americano, inglese e italiano, mentre il sito dell’organizzazione è visitato da decine di migliaia di persone. A documentare tutto questo fermento e dissenso interno agli Stati Uniti, ora che tutto sembra essersi improvvisamente attutito, rimarrà l’antologia Poets Against the War, la quale induce a due riflessioni, una politica ed una estetica.
Il volume testimonia che non tutta l’America dell’era Bush ha supinamente sostenuto le strategie egemoniche del suo presidente come i sondaggi e i media, controllati dalla politica, hanno fatto credere impedendo agli stessi americani di valutare le alternative alla guerra preventiva. Eppure il dibattito sulla guerra creata in Iraq non si è mai fermato: c’è stata e c’è un’America diversa da quella ufficiale, poco visibile da questa sponda dell’oceano perché non rappresentata dai mezzi informativi, che in momenti di crisi come quello attuale si dà una struttura e fa sentire la sua voce. Dalla necessità di riscattare ed affermare i valori della democrazia americana è nato appunto poetsagainstthewar.org, come pure lo straordinario movimento MoveOn.org fondato dal giovane newyorkese Eli Pariser, un forum permanente che raccoglie opinioni ed informa attraverso Internet con l’obiettivo di sollecitare la coscienza pubblica su eventi politici di rilievo internazionale.
Quanto ai circa 200 testi di antologia, si dovrà ricordare che si tratta di poesia dettata da una causa, di un manifesto politico in forma poetica da leggere secondo parametri extra-letterari. Unico il tema - la condanna di quella che viene definita nella prefazione un’immorale guerra d’aggressione -, spesso espresso in lettere aperte al Presidente e alla sua signora o in note di sostegno a Hamill. Si apprezza la democratica sequenza che vuole gli autori in ordine alfabetico, cosicché si passa dalla voce di alcuni grandi della poesia americana a quella, ad esempio, di un bambino di 7 anni, di un ingegnere informatico dell’Indiana, di un falegname dello stato di Washington, di uno studente in vena rap, di una “persona normale di un posto normale”, come si presenta una signora texana. C’è insomma tutta l’America con tutte le sue varietà umane. Ma ci si chiede se la stessa operazione non potesse essere fatta senza il mezzo poetico perché la poesia, anche nei casi migliori, qui non è che un pretesto per esprimere un dissenso. <<La poesia>>, ha scritto Montale, <<sia o non sia impegnata nel senso richiesto dalla momentanea attualità, trova sempre la sua rispondenza. L’errore è di credere che la rispondenza debba essere fulminea, immediata>>. Ed ancora: <<L’engagement del poeta è totale […] ma il poeta non è certo obbligato a scrivere versi ‘politici’…>>. In quest’antologia i contributi più attraenti non sono infatti, a mio avviso, i versi, ma i cosiddetti “Statement of Conscience”, ovvero quelle dichiarazioni morali ed appelli alla pace che alcuni autori, come Pinsky, Snodgrass, Kunitz, Merwin ed altri, offrono in luogo di tradizionali poesie. E le dichiarazioni di un poeta sono tanto più efficaci quanto più grande è il peso culturale di chi le firma.

Antonella Francini

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