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Online reviews |
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Comparatistica |
"RIVISTA ITALIANA DI LETTERATURA
COMPARATA", anno X, n. 13, novembre 1999, Besa Editrice,
via Duca Degli Abruzzi 13/15, 73048 Nardò (LE),
besa@mail3.clio.it, redazione: gnisci@axrma.uniromal.it,
142 pp., L. 28.000. Erede de "I Quaderni
di Gaia", ne prosegue la numerazione. Due interventi
di Gnisci affidano alla letteratura e alla musica la
speranza di autentica reciprocita fra un Occidente che
scelga il proprio decolonizzarsi e altre culture. La
poetica del galego Miro Villar mostra come, dagli anni
del realismo socialista, il cambiamento storico abbia
permesso di restituire al campo estetico ispanico un'espressione
molteplice, ricollocare il tema dell'impegno politico
fra gli altri possibili e riconoscere la specificita
del linguaggio rispetto all'applicazione. Altri contributi
di grande interesse: P. Stanojevic sul ruolo di Dubrovnik
nell'"ampliamento del Mediterraneo" letterario;
M. L. De Rinaldis sulla teoria della traduzione attraverso
un testo poco studiato di Baretti; B. D'Angelo sulla
comparatistica russa. Per la "Letteratura dei mondi",
l'incisiva esperienza di Claudio Neréo Pellegrini
e una scelta da Poesia del Kossovo, a c. di D.
Giancane, Besa 1999.
Lucia Valori
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The transparent life and
other poems by LUIGI FONTANELLA, New York, Gradiva
Publications-Stony Book 2000, 84 pp.
Angels of Youth by LUIGI FONTANELLA, New York,
Xenos Books 2000, 170 pp. L'uscita quasi
simultanea di questi due libri rende omaggio a un autore
infaticabile e all'opera poetica da lui prodotta in
circa un quarto di secolo. The transparent life
raccoglie testi compresi fra il 1978 e il 1996, mentre
Angels of Youth riunisce la traduzione della
raccolta Ceres, originariamente pubblicata in
italiano nel 1996, e di due componimenti inediti del
1999. Il primo libro è tradotto da Michael Palma,
poeta in proprio, che qui da prova della sua notevole
capacita per far passare da una lingua all'altra risorse
e meccanismi poetici, spesso raffinati e apparentemente
ancorati alla lingua di partenza. Fra i molti esempi
possibili, cito soltanto il ritrovamento di questa rima
finale: "Sui rami fioriti / sui rami contorti /
perduti nell'eterno verde splendore / la tua viva morta
stagione volata, / primavera / non c'era", che
diviene: "On flowering branches / on twisting branches
/ lost in ethereal green brilliance / your living dead
disappearing season, / spring / has taken wing".
In particolare nella sua opera giovanile, Fontanella
esibisce una grande varietà di forme e di tematiche,
ama combinare un registro minimalista con folgoranti
sentenze a sfondo filosofico, o con formule di teorica
poetica, crea neologismi, spacca i versi e la sintassi
con enjambement spietati, ricorre a rime interne e a
omofonie di vario tipo. Il risultato è una poesia
immediatamente accattivante, dalla musicalità
irriverente, che può ritenersi per momenti affine
al richiamo operistico di Paolo Ruffilli, o alla consapevole
"antipoesia" di Edoardo Sanguineti; ma che
mantiene sempre un suo segno molto caratteristico e
personale. Forse quello che rende così "diversa"
la poesia di Fontanella è proprio il fatto di
scrivere in italiano, e di rivivere costantemente il
suo passato italiano e la sua cultura italiana, mentre
vive a New York da circa 30 anni, la lingua della sua
quotidianità è l'inglese, e ha assunto
come uno dei suoi compiti fondamentali la diffusione
della poesia italiana in America (egli è fondatore
e presidente dell'IPSA, Italian Poetry Society of America).
E stato detto che le proprie radici si definiscono più
vigorosamente quando l'allontanamento dalla terra d'origine
sembra metterle in discussione; forse questo è
il caso di Fontanella. D'altra parte lui è anche
emblematico di quel crogiuolo di razze e culture che
è l'America, facendone insieme la sua grandezza.
Ecco che allora sembra naturale leggere quei testi in
cui lui accenna o descrive la vita quotidiana americana,
le ragazze che pattinano sul ghiaccio, le lavanderie
a ore, per poi passare quasi insensibilmente a immagini
diversissime, riportate dalla memoria, legate al presente
da un misterioso filo di affinità visiva o emotiva.
Così avviene, ad esempio, nel componimento dedicato
all'amico Francesco Paolo Memmo, di Angels of Youth,
in cui l'evocazione di un gioco da ragazzi - la palla
sfugge, la corsa a prenderla - si trasforma nella misteriosa
visione di una pianta gigantesca, in parte ricordo in
parte simbolo dell'incontenibile forza della vita. E
conclude il poeta: "...e dire che solo di neve
avrei voluto parlare / di quella lenta bianca fioccata
di stelle".
Il secondo libro, curato e tradotto da Carol Lettieri
e Irene Marchegiani Jones, con un'eccellente introduzione
di Rebecca J. West, crea un insieme complementare con
il primo, in quanto sebbene la traduzione, corretta
e gradevole, non abbia lo slancio poetico di quella
di Palma, l'apparato critico che accompagna le poesie
arricchisce la conoscenza dell'autore e la comprensione
della poesia stessa. Di grande conforto per il lettore
è scoprire come l'autore, attraverso il canto
della perdita e del dolore, raggiunga qui, in questa
sua poesia più matura, una serenita che è
fatta di accettazione dell'inevitabile, ma non di triste
rassegnazione, bens8 di responsabile recupero del possibile
e quindi di riconciliazione con quel "qui e ora"
che è la sua (la nostra) realtà nuda.
Così il canto di Fontanella diviene in ultimo
termine esaltazione della vita ed esaltazione della
parola/scrittura quale strumento della memoria e della
conoscenza, nonché sicura porta verso l'alto:
"Vibra la pagina bianca / in quest'aria autunnale
/ foglia su foglia / che sopra vi scende / come l'albero
si spoglia / la pagina si riempie".
Martha L. Canfield
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EUGENIO MONTALE, Posthumous
Diary, edizione bilingue, a cura di Jonathan Galassi,
New York, Turtle Point Press 2001, $ 16.95.
Quasi in appendice alla sua ammirevole, ormai celebre
e giustamente celebrata traduzione dei primi tre libri
montaliani uscita nel 1998 col titolo Collected Poems
1920-1954, Galassi pubblica il Diario postumo,
curandone da par suo la resa inglese, le note e la bibliografia
e offrendo alla curiosità dei lettori americani
un sunto delle vicende, tutte extra-letterarie, che
hanno proliferato oltre misura intorno a questo volume.
Ma il traduttore dà altresì il suo punto
di vista su questi testi sui generis di Montale
composti nel salotto tutto speciale di Forte dei Marmi
e sottolinea il loro carattere ludico e occasionale,
l'inatteso tema della paternità che si dispiega
nell'affettuosa e giocosa amicizia con la destinataria
degli ultimi versi del poeta, complice e traghettatrice
post mortem di memorie, di arguti motti e umoristici
ritratti di amici. Galassi richiama inoltre l'attenzione
sul tono insolitamente intimo di questo Montale in chiave
minore, ma pur sempre capace di commuovere e sorprendere
tanto da essere letto come libro autonomo, sebbene ancor
più apprezzabile come corollario all'opera più
alta del suo autore. Come tale si propone questa traduzione,
a partire dalla veste editoriale, più dimessa
dell'elegante volume del 1998 pubblicato dalla Farrar,
Straus & Giroux. Sta anche in questo la virtù
di un traduttore: indicare con onestà ai lettori
d'altra lingua e cultura il ruolo ed il valore di un
libro nella tradizione da cui proviene.
Antonella Francini
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MASSIMO
BACIGALUPO, Grotta Byron. Luoghi e libri, Udine,
Campanotto, 2001, nuova ediz. 2002, 206pp. ,€ 15,49.
Abbiamo letto un libro che stimola la voglia
di leggere, o di rileggere con occhi nuovi, altri libri.
Il titolo è Grotta Byron, il sottotitolo
Luoghi e libri, l'autore Massimo Bacigalupo,
anglista tra i nostri maggiori. E' una raccolta di scritti
brevi degli ultimi vent'anni (soprattutto dell'ultimo
decennio), per lo più corrispondenze o "occasioni",
europee e americane, della misura adatta alle colonne
dei quotidiani. Misura comunque scelta e privilegiata
dall'autore come canone per un'informazione discreta,
rivolta ai non specialisti, e filtrata attraverso una
perfetta padronanza della materia.
Al lettore viene offerta, senza troppo parere, una quantità
impressionante di notizie, spesso di prima mano, per
procurarsi, tramite i luoghi, una chiave di lettura
degli scrittori che li hanno abitati e rievocati nelle
loro pagine. Un contributo a capire che l'esistenza
di un autore è inseparabile, ma con giudizio,
dai suoi libri. Niente "critica pura", preoccupata
solo delle Opere, né il contrario predominio
del vissuto o tassativi riferimenti a teorie estetico-filosofico-letterarie.
Bacigalupo non segue nessuna di queste strade ma preferisce,
in un mix ragionevole d'ogni tendenza, i riferimenti
allusivi che creano cortocircuiti mentali. Se deve dire
qualcosa sulle radici culturali di un poeta raffinato,
cerebrale e sorprendente come Wallace Stevens, assicuratore
di Hartford, si limita a ricordarci che è "figlio
delle epistole di S.Paolo, come tutta la cultura americana",
ed è un invito a leggere la corrispondenza dell'evangelizzatore
di Tarso e di lì partire per capire non solo
Stevens ma anche Faulkner e tanti altri di laggiù.
Il titolo prende spunto dalla Grotta Arpaia di Portovenere
e dalla controversa lapide bilingue (con errore di traduzione),
dove si ricorda che Byron partì di là
per la sua famosa traversata a nuoto (ma chissà
se davvero ci fu), fino a Lerici. L'autore ricorda che
il luogo fu visitato in seguito da altri scrittori:
da un ironico Henry James e da Pound che ironizza su
James e scrive alcuni versi per uno dei suoi più
celebri Cantos, il 49, poi cancellati e riscoperti
da Bacigalupo negli archivi di New Haven.
Ritroviamo nel libro tracce di molti nomi famosi: Joyce,
naturalmente a Dublino ma anche a Copenhagen, Yeats
a Sligo (pronunciare "Slaigo") in Irlanda
ma anche a Rapallo, dove Pound fu di casa, amico della
famiglia Bacigalupo e dove Hemingway andava inventando,
in un giorno di pioggia, il suo stile. E poi la chiara-misteriosa
Dickinson ad Amherst, Lawrence a Spotorno e a Fiascherino,
vicino alla Tellaro di Soldati, Singer a Varsavia, Milosz
a Cracovia, il sardonico Faulkner nella sua tutt'altro
che immaginaria Yoknapatawpha, Michel David a Genova,
la Ortese e Bianciardi ancora a Rapallo
Il viaggio
è lungo, ciascuna tappa diventa una piccola,
godibile, narrazione.
Ripensandoci, è probabilmente sbagliato legare
in modo così diretto, come si è appena
fatto qui per semplificare, scrittori e pretesti di
luoghi. Il libro di Bacigalupo è molto di più,
dà spazio agli itinerari della fantasia, guida
davvero, con mano lieve, alla lettura e alla comprensione.
Carlo Vita
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Poesia
Spagnola |
"CERVANTES",
revista del Instituto Cervantes en Italia, anno II, n.
2, marzo 2002, Garamond Editrice, p.zza Sallustio 3, 00187
Roma, c.c.p. 93150001, redazione: via di Villa Albani
14/16, 00198 Roma, cenrom@cervantes.es, 206 pp., €
15, 49 (abb. annuo). Al terzo numero (augurale
il n. 0), in sezioni già consolidate, accoglie
una selezione dei risultati dell'attività promossa
dagli I.C. di Roma, Milano e Napoli, consentendo permanenza
e largo accesso a materiale di studio e aggiornamento
di prim'ordine. "Cultura" rispecchia la varietà
del programma Barcelona en Roma: dalla fotografia
(Fontcuberta) all'urbanistica (J. Español), al
Paesaggismo (Bellmunt Chiva), dalla critica letteraria
(C. Riera sulla Escuela de Barcelona, Giralt Torrente
sulla scrittura biografica, M. Escartín Gual
sull'amore nella letteratura spagnola) alla poesia (J.
Barja) alla mostra (la poesia visiva di E. Scala secondo
A. Ruffinatto) risaltano adeguatamente le attrattive
culturali di una città fra le più dinamiche
e poliedriche e quindi più esposte alla fagocitazione
massiva. "Didáctica" non ha nulla della
freddezza tecnicistica e polverosa che la parola spesso
promette e propone effettiva informazione (un es., P.
Hernández Mercedes sulla Traduzione Automatica).
La monografica "Hispanismo" verte su Garcilaso
a cura di rinomati specialisti: A. Gargano, I. Pepe
Sarno, M. Rosso Gallo; di N. von Prellwitz due efficaci
versioni all'insegna di una modernizzazione anche strutturale
del sonetto. Nelle recensioni, F. Antonucci rende omaggio
al valente S. Arata, prematuramente scomparso, all'uscita
dell'edizione di El acero de Madrid di Lope.
Le ultime pagine bandiscono il Premio di Traduzione
Letteraria dell'I. C.
Lucia Valori
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"ÍNSULA",
revista de letras y ciencias humanas, n. 652, abril 2001,
Ctra. de Irún, Km. 12,200 (Variante de Fuencarral),
28049 Madrid, 32 pp., € 69,40 (abb. annuo).
Fra i numeri dell'annata, la materia poetica di questo
richiede un po' di spazio. Grazie all'interdisciplinarità
(musicologia e filologia) si può pensare a uno
studio evolutivo fino ad oggi della poesia musicata
dei villancicos: I. Tomassetti contribuisce con
dati inediti al lavoro di Pavia I Simò sul genere.
Il saggio-recensione di Molina Damiani riacquisisce
Diego Jesús Jiménez quale poeta di rango
da un contesto di fraintendimento ed oblio e, fra le
nuove uscite poetiche (di Siles, Campos Pámpano,
R. Häsler), F. León ci fa notare il terzo
libro di Jordi Doce, Lección de permanencia,
sia per la proposta controcorrente sia per la magnifica
espressione. Centro d'attrazione è però
l'inserto sulla controversa e fatidica antologia di
Castellet Nueve novísimos poetas españoles
(1970): la difesa di T. Blesa circa il presunto
voltafaccia di Castellet, da paladino a inumatore del
realismo marxista letterario a mezzo dei poeti ascritti
a successive antologie, non avrebbe motivo quando si
pensasse che atto soggettivo è legittimamente
quello di ogni autore di antologie; di cui però
in questo caso vengono ripercorsi in modo involontariamente
controproducente gli atteggiamenti preconfezionati da
una mentalità vivacemente intuitiva ma tutt'altro
che realmente duttile alle differenze poetiche che quei
maestri, di cui secondo T. Blesa erano deserti gli anni
'60, andavano meditando (basterà citare Aleixandre
e J.L. Cano). J.J.Lanz opera il bilancio sul caso editoriale
con pertinente aggiornamento bibliografico e di prospettiva.
Gli elementi circostanziali e strumentali della scelta
antologica vengono alla luce, come conclude Lanz, mentre
le ragioni il tempo le ha cancellate o mantenute con
indiscutibile ovvietà: si ridimensiona quella
rottura poetica che appare ora un'evoluzione meno brusca
e più profonda di quanto si suggerisse. Oggi
è ineludibile riferirsi a quei poeti come novísimos,
e non è gran male anche proprio per apprezzare
che dal codice ideologico -non solo "mitológico"
come preferisce Lanz- di Castellet erano evasi prima
di entrarvi; in altre parole la gabbia linguistica funziona
non tanto come definizione estetica ma piuttosto storicamente,
grazie al lavoro poetico e critico intercorso. Di fatto
il fortunato termine, già prestito della storia
della letteratura italiana, è stato riutilizzato
ed elaborato (si pensi ai "postnovísimos")
a più riprese, il che, contrariamente a quanto
talvolta è stato osservato, non ha prodotto la
sua usura, bensì ha contribuito a chiarirlo,
rivitalizzarlo e dotarlo di un certo significato che
Castellet paradossalmente gli aveva precluso in quanto
assunto aprioristico. Ottima la scelta di riprodurre
un articolo lungimirante, dello stesso 1970, di J. O.
Jiménez. Questi aveva inaugurato tre anni prima
di Castellet per alcuni di quei poeti il termine 'novísimos':
sia detto per inciso, non per dare statuto di verba
ma per considerare che tra sensibilità critica
e lancio letterario può intercorrere una distanza.
È saggio, come vuole T·a Blesa, non fare
altro processo a Castellet dopo quello su cui egli aveva
forse contato e riconoscergli anzi quel merito di priorità
e di parole a cui seppe infondere davvero sapore di
scoperta e di entusiasmo; e insieme lasciar prendere
corpo alla speranza che si plachi il sommovimento che
l'antologia pare ancora esigere prima di diventare un
classico d'epoca.
Lucia Valori
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"QUADERNI IBERO-AMERICANI",
rivista semestrale, n. 89, giugno 2001, via Montebello
21, 10124 Torino, 112 pp., euro 25, 08 (abb. annuo), $
50 (estero). Nucleo di spicco sono tre
interventi sull'universo Borges, sempre capace, secondo
il disegno del geniale autore, di aprire itinerari affascinanti:
M. L. Canfield esamina il nesso tra le figure del Minotauro
e del labirinto e riconosce quest'ultimo segno come
"chiave dell'ispanoamericanità", avendo
già dedicato al tema decisivi scritti; C. Perilli
sceglie l'accesso alla geografia alfabetica e metafisica
di Borges dalla parte della scrittura e in un gioco
esplorativo che, senza mancare al ri-ordine critico,
conserva l'incanto della partecipazione di questo creato
come Libro; non meno interessante il saggio di J. M.
González Álvarez sul motivo epico, di
così complessa interpretazione e straordinaria
valenza, nella poesia borgesiana; fra le "Segnalazioni"
di Soria, infine, uno studio di L. Silvestri sul rapporto
dello scrittore argentino con Dante e Cervantes (Bulzoni
2000). Si invita poi a leggere, fra gli altri, A. Barbagallo,
che prospetta ulteriori elementi sulla celebre temporalità
machadiana, e F. J. Higuero, la cui brillante lettura
di A. García Morales costituisce anche una preziosa
riflessione di poetica contemporanea sulle strategie
del discorso. Fra le recensioni, diverse contano sulla
competenza di M. Cipolloni su cinema e letteratura;
la poesia è ospite con l'ultima raccolta dell'uruguaiano
J. Arbeleche presentata da M. L. Canfield.
Lucia Valori
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«SI
MI VOZ MURIERA IN TIERRA». Breve
antologia della generazione poetica del '27, a cura di
Coral García Rodríguez, Firenze, Alinea
2003, 228 pp., € 18,00
Questa suggestiva antologia
nasce dal Corso di Perfezionamento in Traduzione Letteraria
aperto a laureati dall'Univ. di Firenze. La scelta degli
autori, entro una rosa prestabilita, e dei testi è
volutamente lasciata al gusto dei partecipanti e ad
essa e ai risultati la curatrice dedica una precisa
escussione nell'ultima parte dell'introduzione, che
fornisce la necessaria contestualizzazione delle opere
e apre una finestra sul laboratorio. Le sillogi, in
alcuni casi si concentrano su aspetti o periodi delimitati
o seguono un criterio tematico, in altri mirano a dare
un'idea della produzione più caratteristica dei
poeti, nove dei quali sono fra i più 'canonici'
della famosa generazione: Salinas (tradotto da N. Barbieri
e F. Princi), Guillén (D. Elisacci), Diego (G.
Iandiorio Benelli), Aleixandre, Alonso (entrambi nella
versione di G. Tuccini), García Lorca (C. Oliviero),
Alberti (R. Giacomelli), Cernuda (M. Michelacci e F.
J. García Melenchón) e il geniale Larrea
(E. Campani), non sempre ricordato per aver scritto
dapprima in francese; meno note le tre figure femminili
incluse «a scopo rivendicativo», operazione
a più riprese giustamente proposta (ricordiamo
il n. 557 di «Ínsula», maggio 1993,
dedicato alle Mujeres del 27) e nuova in Italia: Concha
Méndez (C. García), Ernestina de Champourcin
(E. Borghi) e Josefina de la Torre (Campani); queste
poetesse non seguirono la carriera universitaria come
i cosiddetti 'poeti-professori' del gruppo forse «per
il loro essere donne» anche se furono ad ogni
modo personalità poliedriche e di riconosciuto
rilievo nella cultura dell'epoca: attrice, doppiatrice
della Paramount, soprano J. de la Torre; traduttrice
affermata la Champourcin, come la Méndez, che
scrisse per il teatro e il cinema e con il marito Altolaguirre
svolse un lavoro di tipografia fondamentale per la poesia.
Di grande interesse il contributo dell'introduzione
sulla fortuna italiana dei poeti, di cui sono relativamente
scarse le singole traduzioni nuove o disponibili (C.
García, specialista del settore, è autrice
di un volume sulle traduzioni italiane della poesia
spagnola del sec. XX (1975-2000) edito dalla Uned, Madrid
2003). L'excursus considera la storia del celebre gruppo,
la terminologia stessa che ne fa parte e non è
trasparente per i non addetti ai lavori (gen. del '25,
proposto da Cernuda, in Italia è preferito da
Macrì), la diffusione ad opera dell'ermetismo
fiorentino e poi la risonanza di autori visti come simbolo
delle conseguenze del franchismo (Lorca per la morte,
Alberti per l'esilio e l'impegno politico) a scapito
degli altri (es. Aleixandre, nonostante il Nobel). Coral
García osserva che l'immagine stessa della Spagna
avrebbe potuto essere diversa se il poeta più
noto all'estero non fosse stato Lorca, con il mito di
gitanería che circonda la sua opera e che tanto
infastidiva l'autore per la distorta parzialità.
I ritratti dei poeti nei disegni di Seracini sono abbellimento
del volumetto che riporta all'attenzione del lettore
italiano quello che la curatrice definisce nel modo
più appropriato «un gruppo di poeti europei
e non solo spagnoli, il cui merito è costituito
da un sorprendente e fruttifero amalgama di tradizione
e avanguardia, legato all'individualità e varietà
di registri poetici».
Libro ricco e disuguale, realizza il suo duplice intento
scientifico e divulgativo nel riannodare le fila della
ricezione anche rinnovando e incrementando traduzioni
classiche e prestigiose come quelle di Macrì
e di Tentori Montalto nelle rispettive antologie poetiche
sul sec. XX; a questo riguardo, la non uniformità
dei campioni testuali può apparire l'aspetto
debole dell'antologia, ma qui sta anche la peculiare
attrattiva e l'utilità specifica del lavoro complessivo
come proposta di lettura che sollecita l'approfondimento
e la riflessione traduttologica. La gamma di risposte
data ai problemi testuali rispecchia la costruzione
di una lettura apprezzabile anche nelle soluzioni meno
condivisibili o nelle classiche sviste a cui il traduttore
è sempre esposto e al di là della sensibile
differenza di esiti. Desideriamo ricordare almeno la
traduzione di Guillén, impeccabile per tutto
l'insieme dei requisiti desiderabili (scelta, interpretazione,
tenuta metrica), nonché considerando il precedente
di Macrì; lo spicco di Cernuda nella versione
di alta qualità, questa volta sul versante del
metro più libero e non meno impegnativo nella
ricreazione, e nell'eccellente scelta testuale che avvicina
il lato meno terso e forse il più eluso e importante
di questo grande poeta; l'incantevole poesia di J. de
la Torre, servita da adeguata lettura, è una
rivelazione di questa antologia.
Iniziativa felice tanto quella del Corso quanto quella
della pubblicazione che concretizza le fatiche di coloro
che si sono cimentati in questo compito, a confermare
quale complesso lavoro di studio e di sintesi sia tradurre,
il cui risultato è sempre un contributo interpretativo
e quindi - non ultima delle sue bellezze - non definitivo.
Lucia Valori
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ELOY
SANTOS, donde nadie dice, Presentación de Luis
Sepúlveda, Gijón, Literastur 2003, I Premio
Alonso de Ercilla, 54 pp., € 10,00
Eloy Santos è al suo primo libro, vincitore
del premio internazionale di poesia di Gijón;
è nato a Salamanca ma vive fuori di Spagna come
Juan Vicente Piqueras, dedicatario della bellissima
oda al caracol, con il quale ci sono affinità
di temi e di sentire (il tempo, Roma come luogo di esilio,
lo sradicamento che il mare significa, il mondo apparentemente
piccolo della carta da scrivere che si rivela sterminato,
la solitudine) entro un'espressione e uno stile completamente
diversi. Il legame principale, infatti, parte proprio
dal dato biografico: Sepúlveda nella presentazione
parla di una poesia che ha «perduto il suo lare»
e accoglie il proprio europeismo affrontando l'incertezza
della situazione oggettiva e i sentimenti contradditori
che suscita. Il problema culturale del riconoscimento
di un'identità e del luogo di appartenza è
il nucleo centrale sviluppato con grande originalità
in questa poesia, di cui è immagine il «caracol»,
la chiocciola, che si affaccia cauto e timoroso a un
mondo ostile dalla sua casa divenuta fragile veliero.
La figura di Ulisse, cui alludono titolo e seconda epigrafe,
corretta da quella del Crusoe di Valéry nella
prima, è emblema di quest'odissea estranea all'altisonanza
del mito: il celebre stratagemma nominale dell'eroe
è assunto nella verità più dimessa
e umana, maestro il Vallejo de Los heraldos negros:
questo nessuno con la minuscola, privato di ogni speranza
di ritorno perché la vita non ha salpato e scorre
alla deriva sul fiume di un altro parallelo (volver),
attende piuttosto la salvezza. La pazienza è
il suo carattere; il volto è quello del «niño
arcano» presente nell'adulto ma misterioso come
parte del presente e futuro che sono una pagina abbozzata
fuori luogo: «estos cuadernos vagabundos narran
/ las playas que tardé en hablar la lengua /
fértil del desconsuelo» (nadie). Non parlerei
di anonimato per l'identità oscura, quanto di
radicale solidarietà con il dolore, quei «golpes
en la vida» di cui parla Vallejo, e le sconfitte
che la parola ha patito nel nostro tempo ostile, assunti
consapevolmente in questa poesia. Il viaggio non avviene
sul mare avventuroso perché è tempo di
silenzio e della terra desolata di un Lazzaro che nessuno
chiama, mentre le parole sono invece ferocia cieca che
divora restando incoercibili a esprimere un appello
(si vedano la espera, botella sin mensaje, reloj de
ocaso). nadie, poesia di apertura, propone un ossimoro
di fondo: «nadie se oculta tras el nombre esquivo.
/ nadie espera respuestas. / nadie os habla»;
l'enunciato duplice, letto con il senso corrente o dando
al soggetto indefinito la funzione di nome proprio,
si rispecchia nella poesia finale, alguien dice: «por
decir, digo también que es poesía / la
rítmica vigilia de las manos ciegas / y que el
alba prefiere a los que callan, / los que aman sin decir,
/ pero no sé quién dice lo que digo».
La negazione è strutturante e conclusiva, ma
nell'obliquità del 'nessuno' che mette in relazione
presente e assente, va letto anche il messaggio di una
parola muta che pretende da chi l'alberga di farsi voce
(la penumbra desde un sillón, vigía) e
il penare del pensiero per trarre alla riva del giorno
i frammenti di un sogno: «a veces el mistral trae
voz y pájaros / de tierra firme que no veo. antes
/ de que se pierdan los imito aquí, / y en el
perfil que implora su existencia / la noche me parece
menos ardua, / y el corazón se finge faro, orfeo,
/ pulsa cuerdas de un arpa submarina / con mis dedos
de luz hasta mañana» (esperando la ola).
Poesia anche del virtuale, che sente il peso dell'epoca
della dissolvenza e del mai attuabile, l'esilio dell'irrelato:
in fondo un paradosso tipico della condizione contemporanea
in cui la velocità del tempo reale contrasta
e convive con la lentezza del pensare, invece, l'esistenza.
Per il resto l'ironia ha spine che non lasciano scampo
alla bugia pietosa del «miracolo»: il naufragio
o fallimento è sempre in atto, né è
chiesta tregua perché tutto è già
perduto (si ricordi lo splendido romanzo La tregua di
Benedetti) per gli «arenados» in un tempo
stagnante (aguas de bajura), che disertano la vita dediti
invano a scrivere (aquí). Assurde allora anche
la resistenza alle tempeste e l'attesa sterile e ostinata?
Se non fosse che questa è la «voce»,
fatta di un silenzio che nasconde continenti incompiuti
e pagine vietate (de este lado), e questa è la
«vita», una «selva innocente»
in cui il male del dolore non si finisce mai di espiare
(tristes trópicos). Questa voce viene infatti
dalla terra dei non sopravvissuti, «carne desangelada»
come i bambini morti senza grazia né tutela di
nome (piazza del limbo, firenze) e, per aver condiviso
la pena degli assenti, ha imparato suo malgrado a restare
dove nessuno dice («así aprendimos a gastar
la vida / y nunca lo olvidamos, ya pase lo que pase»:vigía)
e sa vegliare e leggere «le parole che non ci
sono».
Che cosa ci dice questa poesia «del lado azul
de la verdad» che noi ‘ipocriti lettori’
non conosciamo bene nella sua miseria di mani vuote,
labbra senza parole, corpo disabitato, candide bestemmie
e colpe irredimibili? Forse il nonsenso e nel suo rovescio
il senso che l'attraversa sfuggente come un lampo di
ferite o come un brivido che annuncia terremoti (recinto
de la piel, la gran explosión), ma proprio per
questo indubitabile come tutte le cose che sono sisma
dell'essere, del «bambino arcano», come
lo ha chiamato ES, che ha superato in incognito l'ultima
spiaggia salvato senza che si sappia come.
Il limbo che è distanza dalla vita (tema di molta
poesia contemporanea, si veda A debida distancia di
Álvaro Valverde), scissione fra corpo e psiche,
tempo, luogo e senso è anche ciò che rende
possibile l'arcano, proprio perché negato dalla
memoria, inesistente, quando tornare allo spazio dell'origine
rimontando la corrente era stato il primo proposito
del poeta. Allora la fatica si dirige verso quanto non
si può recuperare, il mistero di questo presente
'sempre ipotetico', dove appunto «nessuno [...]
rimonta quella corrente»: mettendo in ombra il
soggetto è possibile sentire le parole di qualcuno
attraverso il soggetto, cancellato perché vi
sia il palinsesto per la lettura e scrittura in negativo,
la nascita di qualcosa che conta più della cosa,
il regalo de cumpleaños para el niño arcano
che, corretto fino alla fine dal «si pudiera»
(se potessi), non perde nulla del pensiero. «nadie»
nell'ultima poesia è «alguien», 'qualcuno'
con le dovute correzioni di questo caso, ancora un pronome
indefinito di lettura duplice e la traduzione di una
ritrosia dal soggetto forte (si veda retraso: l'arrivo
in ritardo a scuola, con i compiti, restati per sempre,
da fare), che è qualcosa di più coraggioso
e generoso del soggetto debole, perché persevera
nel non sapere, nella vocazione di annullamento disponibile
allo stupore come un araldo che resta di vedetta nell'oscurità
- il guscio della chiocciola o i «laberintos de
caligrafía» - solo perché con l'alba
vi si illumini la presenza dell'invisibile. I nomi qui
non hanno più come per i simbolisti e i poeti
puri il potere di creare, l'io non è più
padrone di un mondo, mentre la poesia riflette piuttosto
nella depersonalizzazione un carattere psicologico del
nostro tempo; ma ci sono anche l'ospitalità,
tutelare delle figure tutelari (accanto a madre e padre,
i giocattoli per una razza estinta), quella che con
un prestito da Cesare Viviani si può chiamare
preghiera del nome (vd. oración para mí,
plegaria de las manos) e la speranza disperata comune
a tutti i nessuno che hanno viste bruciate le loro illusioni.
Non il sapersi salvare, ma essere salvati dal tavolo
su cui si scrive: è emblematico che, abbandonato
il navigare a vuoto del pc, la scrittura avvenga con
una «estilográfica indolente», sobre
la mesa che ha avuto un tempo felice di albero e ora
lascia che il canto della poesia vi si annidi addormentato
o vegeti di «hojas blancas». La pagina bianca
non sa cercare riempitivi dove la semplice parola è
stata mortificata. In fondo una ragione dell'inefficacia
delle parole di questo secolo, giovane e già
segnato dalla fine del precedente, dai suoi tragici
eventi e dal carattere disumanizzante inapparente: ne
sono metafore il «secreto diluvio de las horas»
(aguas de bajura) o, altrettanto inavvertita, la glaciale
inondazione metropolitana di enero 1998. Alla poesia
non resta che ricominciare da questo punto zero, dalla
coscienza dell'assoluta fragilità (ne è
figura il «soldadito de plomo» in juguetes
de antaño) sull'unica tavola di salvezza di un
quaderno in bianco sulla spuma che porta l'annuncio:
non del ritorno però, né della terra promessa
bensì delle promesse fatte al «bambino
arcano» solo a fede, con parole mai pronunciate.
È la terra di nessuno divenuta di qualcuno che,
perso tutto, può riconoscervisi e rendere il
mistero augurale: «y entrar en el paisaje donde
un hombre / esculpe su palabra más allá
de la sed, / y no se pertenece, / y su pasión
se parece a la vida, / y nada le avergüenza»
(anuncio por palabras). È questo anche il riscatto
dell'entusiasmo infantile possibile alla poesia che
oltrepassa i confini dell'io per dare forma ai sogni
umani. Sono versi che Sepúlveda cita nella presentazione
annoverando Eloy Santos fra i grandi poeti contemporanei
che rendono la loro esperienza di esodo culturale visione
cosmopolita e generoso metodo per ordinare l'universo
e aiutare a comprendersi.
Lucia Valori
|
Poesia
Statunitense |
EZRA
POUND, Canti Postumi, a cura di Massimo Bacigalupo,
Milano, Mondadori 2002, pp. 298, € 9.40.
While Massimo Bacigalupo will not be new to readers
of Pound, his selection from manuscripts for The
Cantos brings welcome news in the form of choice
passages from papers at Yale’s Beinecke Library
and several other sources, arranged in eight phases
of the poem’s composition, including the Italian
cantos from 1944-1945. Pound’s way of piling up
drafts for his ongoing harvest of gists was abundant
and practical, but seismic shifts of the historical
ground beneath him made of his granary a grand array
of ruptures. Not only did World War I and its aftermath
largely erase the cultural context for the first thirty
cantos; the collapse of Mussolini’s regime in
World War II, the detention at Pisa, the de facto
incarceration in Washington, and the prolonged twilight
after Pound’s return to Italy, made even his witness
as ego scriptor an affair of fresh starts and
geological renewals. Therefore the beauty of an augmented
view of this discontinuous poem, the Alps in Basil Bunting’s
phrase, which by the same token embraced perforce the
synclines of uncontrollable upheaval. Pound’s
text as printed incorporates these; his workshop shows
their finer jumble, and indeed a huge talus rock slide
of stuff he wanted to pick through on his re-ascents
of the slopes. As someone who has looked at the Beinecke’s
manuscripts for the first thirty cantos, I can attest
to Bacigalupo’s acumen in picking out good stones.
The early, supplanted Three Cantos appear here--posthumous
in that they were reprinted only after Pound’s
death-- as do telling selections from the global, aborted
paradiso of 1944-1945, Scotus Eriugena and
Cunizza consorting with Gautama and Confucio -<<Il
Sole grande ammiraglio conduce la sua flotta / nel suo
gran péripolo, / conduce la flotta sotto i nostri
scogli>> - bits of their phrasing soon to be jolted
by trauma into the English of the Pisan Cantos.
The selection of drafts for Rock-Drill preserve
Pound’s own title for their appearance in Italian,
<<Prosaic Verses>> or <<Versi Prosaici.>>
Texts appear in English and Italian on facing pages,
with care for the niceties of bilingual navigation (for
example, the inverted commas added on p.141 in translating
Pound’s comment on an 1815 account in the Gazzetta
di Genova of Napoleon’s fall and return,
paralleling Mussolini’s in 1943, which alert Italian
readers to Augustan allusion: <<which to the genovese
mind showed zeal; but / scant knowledge of the ways
of the human heart>>). The endnotes and introduction
guide readers, whether poundisti or curious
visitors, over this crevasse-rich terrain with a sure
hand. [438]
A personal note, which some of my readers may register
as communal. Working through these selected drafts,
I found spiky addresses to the current USA Metternich-like
war to impose order willy-nilly on others, and impose
it while being carried on the backs of other nations
to the tune of an astounding debt and selling the world
most of its weaponry. The ignorance of such facts and
their precedents was Pound’s subject. Some of
these gists, then. From the years in Rapallo and Venice,
1928-1937, on the effects of debt commercialism or ‘Geryon’:
<<under his shadow is quiet, cometh their stupor,
/ then death of the spirit>> (p.102); from the
war years: <<all that we know of things is their
sequence / what precedes and what follows>> (p.128,
which one may stitch to the non-thing poetic of p.166,
<<Dante / sense / not the thing but the time>>);
from Pisa in 1945: <<as some Jersey City by Lethe
... / the continuity of the gun sales>> (p.204);
and finally from the Rock-Drill phase in Washington:
<<a bad thing to have an abstract idea of a senator,
/ worse for a writer, but a bad thing for anyone>>
(p.226). While Bacigalupo did not set out to underline
such relevancies, his selection lets anyone find them
for themselves, and in so doing know more than one sequence
at time. He has opened a new trail into the Alps.
John Peck
|
A
comment on small non-profit presses in the United States
by Richard Deming, the founder of Phylum Press (http://www.Phylumpress.com)
Phylum Press, Poesis, and the Present Tense
Innovation, by and large, comes from two conditions—desire
and dissatisfaction. Three years ago Nancy Kuhl and
I had come to feel that there weren’t enough outlets
for the kind of poetry and poetics we felt most committed
to and so we started up Phylum Press. Our ideal was
to create a forum where certain elective affinities
could coalesce. Those affinities center around the possibilities
of lyric poetry not only after Auschwitz, but after
Ronald Reagan. To be is to be in conflict—certainly
a condition not limited to poets in the U. S.—and
the poetry that interests us is that which enacts and
embodies that conflict and tension. Thus, the hope of
Phylum Press is to mark out the possibilities of a community
of poets, ones coming into their own sense of place
and moment.
We felt that in beginning a small press devoted to publishing
younger, emergent poets, ones steeped in—paradoxically—an
avant-garde ‘tradition’ that we were finding
ourselves a place in what is a long and rich history,
both in terms of ‘pamphleteering,’ and in
literary cultural production, beneath the radar of what
American poet Charles Bernstein describes as <<official
verse culture.>> Indeed, the recent A Secret
Location on the Lower East Side—a sourcebook
edited by Steven Clay and Rodney Phillips and published
by Granary Books providing a definitive overview of
the vast array of presses and magazines that were part
of the “mimeo revolution” in America during
the sixties and seventies—gives ample testimony
that there have long been editors and poets in the U.S.
doing similar things. A more specific example would
be the Angel Hair Anthology, also published
by Granary and edited by Anne Waldman and Lewis Warsh,
which collects the various publications of one such
publishing project from that era centered around New
York City and responsible for producing inexpensive
books by key poets of that particular generation. Going
further back, one need only point to Walt Whitman’s
self-publishing and Emily Dickinson’s fascicles
to see the roots of this history. The commitment evidenced
by such productions provides us with the imagination
of what is possible if one thinks of alternatives to
mainstream books.
At the beginning we were motivated by what we perceived
to be a lack. There seems to be ample (all things being
relative of course) outlets or venues for those who
are “mainstream” as well as for those who
are dogmatically experimental. We felt (and of course
still do) that there are far fewer houses that were
participating in the kind of work we most value. The
aesthetic values that we are most interested have yet
to coalesce as a school or a movement in the ways that
one can discern with prior generations. The writers
we publish are young and fugitive and are prime examples
of this aesthetic that we find compelling—that
is, poets who are revisiting in vastly different ways
the questions of lyric subjectivity after its various
problems have been brought to light. We see ourselves
as suggesting certain elective affinities among poets
who are pursuing lyric poetry as a text of negotiations—as
Cathy Eisenhower does in blurring poetry and travel
writing, academic footnote notes and the personal essay—whether
the negotiations be with self, history, or culture,
or something else entirely. This is less a school or
movement than a sensibility. In fact I am more comfortable
in talking about aesthetic tendencies or similarities
amongst the poets of this generation than suggesting
a clear program. Part of that is largely historical,
as this generation, my own, comes after and resists
the ascendancy of American political and cultural neo-conservatism,
and after the exhaustion of Marxism. These poets are
attuned to the materiality of poems—as in the
example of Kristin Prevallet’s or Michael Kelleher’s
work; they are skeptical but not antagonistic to lyric
subjectivity, and yet profoundly aware of Wittgenstein’s
claim that aesthetics and ethics are one. It is poetry
after “the end of history” so to speak.
So this avant-garde rejects totalizing concepts,
is made uncomfortable even by the kind of generalizing
I am doing on their behalf, is circumspect of narrative
because of its potential for ideological compliciticies.
<<In the dream our tribe was called Equivocal
Irreparable,>> Tejada writes in Exedra,
and the poets of this present generation that is laying
claim to its own present tense seem largely to be negotiating
this problem, this condition of a culture that is equivocally
irreparable. Yet despite the skepticism and suspicion
there is the sense that things do in fact hang together.
And what we receive back is what poetry affords us generally—conversation,
to begin with, and the opportunity to participate in
a network of thinking about poetry, of thinking about
thinking, and what are these but motivated encounters
with the world. To realize one is not alone is no small
thing and we hope that Phylum offers occasions, no matter
how fugitive, for contact to be made. We can’t
lay claim to any real change that has come from our
efforts but we can point to a map of sympathies, of
interchanges and chance meetings. The dream of making,
of poesis, is that one reappears to others,
surely, but to oneself, mainly, through work, through
activity. Thus, the making of books and poems are ways
to participate, to engage the materials of the world
where, daily, we find ourselves.
Richard Deming
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SAM
HAMILL (cur.), Poets Againsts the War, New York,
Thunder Mouth Press 2003, pp. 263, $ 12,95.
La first lady americana non deve aver certo
gradito l’omaggio poetico che decine di autori
hanno voluto offrirle con questa antologia a lei dedicata,
un imprevisto, seppur minore, incidente di percorso
nella routine culturale della Casa Bianca. Il curatore
Sam Hamill riassume nella prefazione i fatti che all’inizio
dell’anno diedero avvio alla protesta di un sostanzioso
numero di poeti americani contro l’intervento
Usa in Iraq e che, via internet, hanno fatto il giro
del mondo. In gennaio Laura Bush invita esponenti della
poesia statunitense ad un simposio intitolato “Poetry
and the American Voice” da tenersi nella residenza
presidenziale il 12 febbraio 2003, una celebrazione
ufficiale dell’opera di Whitman, Dickinson e Langston
Hughes. Gli inviti raggiungono i destinatari proprio
nei giorni in cui il marito dell’ingenua signora
e la sua amministrazione annunciano l’attacco
“Shock and Awe” in Iraq. Voci di dissenso
da parte di alcuni poeti, intenzionati a declinare l’invito,
raggiungono la casa Bianca dove si provvede immediatamente
a cancellare il progetto perché, comunica il
portavoce della Sig.ra Bush, la first lady
crede “che sia inopportuno trasformare un evento
letterario in un forum politico”. Con una tempestiva
lettera ai colleghi poeti, Hamill invita a costituire
un movimento Agaist the War come quello dei
tempi del Vietnam e a trasformare il 12 febbraio in
una giornata della poesia contro la guerra facendo veramente
sentire alla Casa Bianca ‘la voce della poesia
americana’. Si invita anche a produrre testi per
un’antologia di protesta da presentare a Washington
proprio nel pomeriggio in cui il simposio avrebbe dovuto
aver luogo affinché fosse chiaro a quella amministrazione
che la voce dei poeti non può essere zittita
da nessun atto politico. Nel giro di poco è necessario
istituire uno specifico website (poetsagainstagainstthewar.org)
per far fronte alla marea di poesie che arrivano a Hamill
da ben 11.000 autori, poeti di spicco di ogni generazione
come pure dilettanti ed occasionali versificatori. Il
12 febbraio si registrano negli Stati Uniti oltre 200
poetry readings; il 17, l’associazione
Not in Our Name organizza un secondo round
al Lincoln Center di New York a cui partecipano, fra
gli altri, Galway Kinnell, Stanley Kunitz e Arthur Miller.
Quello stesso giorno il movimento acquista uno spazio
sull’edizione nazionale del "New York Times"
per “Un appello alla riflessione” firmato
da 24 poeti, fra cui Adrienne Rich, W.S. Merwin, Robert
Creely, Ferlinghetti, Robert Bly e Yusef Komunyakaa,
dove si chiede all’amministrazione Bush “di
fermare la sua avventata corsa verso la guerra, di tener
conto delle voci della gente del mondo, e di cercare
modi pacifici per risolvere i conflitti in collaborazione
con la comunità internazionale”. Si dichiara
inoltre che il loro dissenso si inscrive nella lunga
e ricca tradizione di opposizione morale dei poeti e
degli artisti americani alle politiche criminali e insensate,
inclusa quella del loro attuale governo. Il 5 marzo
viene indetta la giornata internazionale della poesia
contro la guerra e si hanno oltre 120 readings
in varie parti del mondo;13.000 poesie di protesta vengono
presentate ai vari governi, inclusi quello americano,
inglese e italiano, mentre il sito dell’organizzazione
è visitato da decine di migliaia di persone.
A documentare tutto questo fermento e dissenso interno
agli Stati Uniti, ora che tutto sembra essersi improvvisamente
attutito, rimarrà l’antologia Poets
Against the War, la quale induce a due riflessioni,
una politica ed una estetica.
Il volume testimonia che non tutta l’America dell’era
Bush ha supinamente sostenuto le strategie egemoniche
del suo presidente come i sondaggi e i media, controllati
dalla politica, hanno fatto credere impedendo agli stessi
americani di valutare le alternative alla guerra preventiva.
Eppure il dibattito sulla guerra creata in Iraq non
si è mai fermato: c’è stata e c’è
un’America diversa da quella ufficiale, poco visibile
da questa sponda dell’oceano perché non
rappresentata dai mezzi informativi, che in momenti
di crisi come quello attuale si dà una struttura
e fa sentire la sua voce. Dalla necessità di
riscattare ed affermare i valori della democrazia americana
è nato appunto poetsagainstthewar.org, come pure
lo straordinario movimento MoveOn.org fondato dal giovane
newyorkese Eli Pariser, un forum permanente che raccoglie
opinioni ed informa attraverso Internet con l’obiettivo
di sollecitare la coscienza pubblica su eventi politici
di rilievo internazionale.
Quanto ai circa 200 testi di antologia, si dovrà
ricordare che si tratta di poesia dettata da una causa,
di un manifesto politico in forma poetica da leggere
secondo parametri extra-letterari. Unico il tema - la
condanna di quella che viene definita nella prefazione
un’immorale guerra d’aggressione -, spesso
espresso in lettere aperte al Presidente e alla sua
signora o in note di sostegno a Hamill. Si apprezza
la democratica sequenza che vuole gli autori in ordine
alfabetico, cosicché si passa dalla voce di alcuni
grandi della poesia americana a quella, ad esempio,
di un bambino di 7 anni, di un ingegnere informatico
dell’Indiana, di un falegname dello stato di Washington,
di uno studente in vena rap, di una “persona normale
di un posto normale”, come si presenta una signora
texana. C’è insomma tutta l’America
con tutte le sue varietà umane. Ma ci si chiede
se la stessa operazione non potesse essere fatta senza
il mezzo poetico perché la poesia, anche nei
casi migliori, qui non è che un pretesto per
esprimere un dissenso. <<La poesia>>, ha
scritto Montale, <<sia o non sia impegnata nel
senso richiesto dalla momentanea attualità, trova
sempre la sua rispondenza. L’errore è di
credere che la rispondenza debba essere fulminea, immediata>>.
Ed ancora: <<L’engagement del poeta
è totale […] ma il poeta non è certo
obbligato a scrivere versi ‘politici’…>>.
In quest’antologia i contributi più attraenti
non sono infatti, a mio avviso, i versi, ma i cosiddetti
“Statement of Conscience”, ovvero quelle
dichiarazioni morali ed appelli alla pace che alcuni
autori, come Pinsky, Snodgrass, Kunitz, Merwin ed altri,
offrono in luogo di tradizionali poesie. E le dichiarazioni
di un poeta sono tanto più efficaci quanto più
grande è il peso culturale di chi le firma.
Antonella Francini |
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