IN TENGA BITHNUA. LA LINGUA DEGLI ANGELI
a cura di Melita Cataldi
In Tenga Bithnua è un testo irlandese composto probabilmente
tra il IX e il X secolo, età di piena fioritura della cultura
iberno-cristiana. Questa datazione è possibile su base linguistica
e comparativa, ma la redazione più antica ci è stata
tramandata soltanto da un codice del XV secolo: il Libro di Mac
Carthaig Riabbhach, noto come Book of Lismore, conservato
oggi nella biblioteca di Chatsworth nel Derbyshire. Se ne dà
qui la traduzione riportando in appendice il testo irlandese secondo
l'unica edizione a stampa esistente curata da Whitley Stokes e pubblicata
sul periodico "Eriù" nel 1905. Dell'opera si conoscono due
redazioni più tarde, rispettivamente del XII e XV secolo,
che sono state trovate in numerosi codici, poiché essa a
lungo conservò una vasta notorietà. È plausibile
l'ipotesi che l'anonimo autore di questo apocrifo biblico abbia
avuto presente e in qualche misura utilizzato una Apocalissi
di Filippo di provenienza siriaco-egiziana, giunta in Irlanda
attraverso la Spagna visigota attorno al VII secolo, poi andata
perduta. È anche possibile che una prima versione del testo
fosse stata composta in latino.
Nel ricco corpo degli apocripha iberno-cristiani, scritti
sia in latino sia in irlandese tra il VII e il XII secolo, In
Tenga Bithnua è forse quello letterariamente più
compiuto. Qui si intrecciano immaginazione e dottrina, fantasmagorica
invenzione e speculazione cosmologica e teologica. Vi incontriamo
incantevoli ingenuità e sorprendenti raffinatezze, figurazioni
delicate, immagini violente, abissali prospettive sul tempo e sul
cosmo, repertori grotteschi di cose che destano stupore, visioni
ora estatiche e abbaglianti, ora sgomentevoli e tenebrose. Come
nelle più elaborate illustrazioni sulle pagine degli evangeliari
alto-irlandesi, una complessa trama si disegna di fronte ai nostri
occhi: scorgiamo ovunque circolarità, specularità,
iterazioni, figure metamorfiche e soprattutto insistenti tripartizioni
e triadi, velata metafora della Trinità.
Continui ricorrono i riferimenti biblici, classici, patristici,
ma non marginali sono anche i temi gnostici e quelli che sembrano
strettamente legati a tradizioni culturali irlandesi. Autoctoni
sembrano essere infatti la grande curiosità verso i mirabilia,
il forte sincretismo, il gusto per gli elenchi, e motivi antichi
come quello della 'mutilazione funzionale' (la lingua mozzata dell'apostolo
predicatore, che rinasce portatrice di un potere soprannaturale)
e della 'eliminazione sacrificale' dell'estraneo (la morte dell'empio
Giuda per salvare la coesione del gruppo). Nell'episodio che al
centro dell'architettura narrativa, divide in due parti l'exameron,
il dialogo perde ogni residuo aspetto catechistico per farsi drammatico
e porre la questione del rapporto tra vedere e credere, di cui è
proposta in termini perentori una dura versione, impietosa verso
l'esercizio del dubbio e della critica.
Dominante, onnipresente è il grande tema della tensione
tra la molteplicità dispersa e l'unità salvifica.
Quell'unità si realizza, in modo eminente, nella originaria
'massa circolare', primissima opera del Creatore; poi nel corpo
fisico di un Salvatore: che riassume tutti gli elementi del creato;
infine, per l'azione dello Spirito che diffonde una verità
per tutte le genti, nell'escatologico "grande banchetto inebriante"
con il conventus omnium sanctorum.
La pluralità del creato - splendido e minaccioso nei suoi
aspetti incontrollabili, misteriosi, mostruosi - si dispiega lungo
la narrazione e viene di volta in volta affrontata ricorrendo a
'strategie di unificazione': attraverso le figure del cerchio
che tutto raccoglie, del catalogo che ordina in generi, suddivide
in specie, attesta regolarità numeriche, e dell'intreccio
che osa unire ciò che appartiene a realtà del tutto
eterogenee. Ne sono coinvolti lo spazio e il tempo, la terra e il
cielo, la natura e gli uomini e, nella loro varietà, le stesse
lingue umane. Fra le "settantadue specie di idiomi degli uomini"
incontriamo l'irlandese della quotidianità e il latino del
sacro; nominato è anche l'ebraico, in cui qui dialogano i
sapientes. Ma la voce dal cielo parla una lingua non umana,
quella degli angeli. E' un'espressione dolcissima, inventata per
libere associazioni foniche (primo esempio attestato in età
postclassica di 'lingua inesistente'), e porta l'eco di vocalizzi
liturgici e del piacere per il gioco delle assonanze e delle allitterazioni.
In essa si esprime l'utopia di un linguaggio unico - originario,
soggiacente e finale - che sopravvive alla confusio postbabelica
delle lingue e le tiene legate in una misteriosa unicità
di provenienza e di destino. Sembra sia grazie a questo legame che
esse possono incontrarsi, affiancarsi, comprendersi, tradursi l'una
nell'altra, rimanere vive e farsi portatrici di nuove narrazioni.
Tenga bith-nùa, letteralmente "lingua della vita-nuova",
"dalla vita sempre rinnovata" (bithnua si dice degli alberi
e delle foglie 'sempreverdi'), denota dunque la lingua parlante
dell'apostolo nella sua forza di tornare a testimoniare tra gli
uomini. Ma quel titolo evoca anche l'idea di un impulso a narrare
sempre e di nuovo un racconto esemplare, che sappia unire le molte
genti del mondo, le "centocinquantasette popolazioni sparse su tutta
la terra". Quell'immagine di un perpetuo ciclo vitale richiama infine
la visione di un universo in cui i ritmi della natura - dei giorni,
delle maree, delle stagioni, degli astri - imprimono la loro forma
al tempo degli uomini: al calendario liturgico come all'intero arco
temporale, tra genesi e palingenesi, della 'progenie d'Adamo'.
Sicché il primo e più rozzo racconto delineato all'inizio
del testo - quello che vede solo un perpetuo rincorrersi di
cose ed eventi nel cielo, nella terra e nelle acque - non viene
affatto negato ed escluso dal racconto di una cosmogonia scandita
in sei giorni, né da questo 'nuovo racconto' che
coniuga Antico e Nuovo Testamento: 'Genesi', 'Vangelo',
'Apocalissi'. In alternanze e ritorni il tempo lineare
della Storia si ripiega su se stesso, tra dispersioni e riunificazioni,
tra cadute e redenzioni, tra generazioni e rigenerazioni. Tutta
la narrazione è dunque una meditazione per immagini sul tema
del rinnovamento, meditazione collocata in un luogo e un momento
privilegiati: sul monte Sion che è il centro del mondo, dove
tante genti diverse si sono unite, nella notte di Vigilia in cui
si ripete un cosmico ritorno della vita, un rigermogliare di forze.
Propone un messaggio di speranza. Sia per noi oggi augurale.
Tenga Bhith-Nua annso sis
I. In principio fecit Deus caelum et terram
et reliqua.
Airdri domain as treisi cach righ, is ardiu
cach cumhachtai, as feochru
cach ndracoin, as cennsa cach mac, as giliu
grianuibh, as noibiu cach sen,
as diglaigiu feruibh, as boidhi cach màthair
[.i.] OenMac De Athar ro
thidhnaic a scel-sa do iltuatha[ib] domuin .i.
do dheilbh 7 do thustin an
betha. Iarsindi na fes cissi dealb n-atrabhai
nach ret do neoch atcither isin
bith acht Dia nama; ar ba 'cenn i mbolg' 7 ba
'b[u]ith i tigh dhorcha', do
sil Adhuimh iarsindi na fes riam cissi dealbh
ro bai forsin domun, nò cia
dhorigne, co tainic a scel-sa do nim fri erslocud
chelle 7 intliuchta caich,
co nairesta 7 co fogabtha set bethad 7 icce
do anmandaib.
2. Ar ba fordhorcha cach ret do shuilib shil
Adhaim, acht atchitis
tuirthiud na rend .i. ésce 7grene 7 na
rend archena, immateighdis cach
dia cen chumsanad dogrés. Atchitis dano
tiprata 7 aibne in domuin nat
chumsantais do dibairsi dogrés in cach
aimsir. Atchitis dano tobron in
talman 7 cess 7 cotlud inna soilse 7 inna torudh
la tetach ngaimridh.
Atchitis dano esserge in domuin cona thess 7
a shoilse, cona blathaibh 7 a
torthib la erge samraidh doridissi.
3. Ni fetatar cia dogene colleic co tainic a
scel-sa thusten in domhain
cona dhealbaib 7 a thimthirechtaib [amal] ro[n]da-sudigestar
Dia.
Fordhorcha didu anisiu uili con-eces a scel-sa,
conid erslaic in Tenga
Bithnua labrastair a clethe nimhe uas oenach
Slebhe Sion.
Ar ro teclumad ceti airthir an betha .i. doneoch
bài o slebib Abian
conice trachtu Mara Ruaidh, ocus otha Muir Marb
conici insi Sabairnd.
Ocus ba he lìn in terchomraic .i. coic
escoip .lxxx. ar cethir cétaib ar tri
milib, ocus .ix .rig. .lx. ar .ix. cétaib
ar .iiii. mìlib ar .l. mìlib di rìgaibh an
beatha.
4. Ro boi dano a n-oinach sin co cend .iiii.
miss for bliadain .i. sam,
gam, errach, fogamur, fo noi cétuib seol
findanart co mindaib ordhaibh i
mulluch Slébi Sion. Còica ar nòi
cétaib ar còic milibh do
thuredhchaindlibh 7 lecaib logmaraib adhannaitis
fri fursannad na cete, ar
nach derbanad nach sin in cach aimsir. Coica
ar dib cétuib escop 7 coic
cét sacart 7 teora mile do gradhuib ecailse,
7 .lll. mac n-ennac 7 coic cét
airdrig cona sochraite remib. No thegtis medon
aidche i nHierusalem o
gothaib co taigtis cachoen iarmerghe co ceoluib
inna failti canar isna
noibnellaib .i. Gloria in excelsis Deo et reliqua.
5. Fos-ergitis iarum in tsloigh na cete itir
da mag araciund la tintudh
inna himirce-se 7 inna slogh i Sléib
Sion cosin chiul inna failte co ceolaib
aingel ar gràdaib dligthechaib in airdrìg.
6. Talmaidiu iarsein, intan ba deadh n-aidche
inna casc, co clos ni, a
ndeilm isnaib neluib amal fhogur torainn, nò
ba cosmail re cichnaig
thened dara. Ba tinfisiu thorni colleic, con-acces
in talmaidiu in
grianbruth amal gréin n-etraicht i medon
in delma. Immesoid macuairt in
grianbruth etracht sin, co nach tairthed rosc
sula, ar ba etrachtu fo shecht
innas in grian.
7. Talmaidiu iarsein co clos ni, ar ro bhatar
sella in tsloigh oc frescse in
delma, ar dorumenatar ba hairdhe bratha, co
clos ni, in guth solus
labrastar o bérlu ainglecdha: Hali habia
felebe fa niteia temnibisse salis sal
.i. cluinidsi a scel-sa, a maccu doine, domroidedsa
o Dhia do far n-
acallaimh.
8. Talmaidiu iarsin docorastar cess 7 huamhon
for na sluagho. Ni bu
fubthud cin damna. Astoided fogur in gotha amal
gair sloigh, acht ba
soillsiu 7 ba gleu gothuib doine colleic. Tormaid
uasin ndunad amal gair
ghaeithi moire nad bu aidbliu comrad carut i
cluasaibh caich colleic 7 ba
binne ceoluib [in domain P].
9. Friscartatar ecnaidhi n-Ebraide, et dixerunt:
Findamar uait do ainm
7 do thothacht 7 do dixnugud. Co clos ni: in
Tenga Bithnua labrastar o
ghuth ainglecda: Nathire uimb a o lebi a ua
un nimbisse tiron tibia am biase
sau fimblia febe ab le febia fuan .i. Ba la
tuatha talman em, ar se, genarsa, 7
do coimpert fhir 7 mna cotamaipred. ISSed mo
ainm, Philip Apstal.
Tomraid in Coimdi co tuatha gente do precept
doib. Noi fechtas
imruidbed mo tenga as mo chind la geinte, 7 noi fechtas donarrasar
aitherruch do precept, conidh do sin issed mo
ainm la muinntir nime,
Tenga Bithnua.
10. Ro raidsetar ecnaide na n-Ebraide: Finnamar
uait cia berla no
labraithear frind?
Ro raid-seom: Issed labra s(ù)t aingil,
ar se, 7 uile gradh nimhe a
mbelra-sa no labraimsi dhuibsi. Mad mila mara
7 biastai 7 cethrai 7 eoin 7
nathraig 7 demnai atgenatar-side, 7 issed a
mbelra-sa labartait inna huile i
mbrath.
11. ISsed didu, ol se, immomrachtsa cucaibsi,
do reidigud daib in
sceoil amrai atchuaid in Spirut Nòib
tria Moyse mac Ambra de thustin
nime 7 talman cosnaib hi docuissin indib. Ar
is do denum nime 7 talman
dorime a scel sin. IMtha samlaid 7 is do cruthugad
in domain immoroilged
la essergi Crìst o marbuib isind aidhchi
si na casc, ar cach adbar 7 cach
duil 7 cach aicned atcither isin domun conraircerda
uile isin coluinn i n-
esserract Crìst .i. i colainn cach duine.
12. Ata ann chetamus adbhar de gaeith 7 aer.
Is de forcoemnacair
tinfisiu anala i corpaib doine. Ata dano adbar
tesa 7 chombruithe ann di
then, issed dogni dergthes fola insin i corpaib.
Ata ann dano abdar di
grein 7 rennuibh nimhe oulcena, conid ed dogni
lìen 7 soillsi i suilibh
doine. Ata ann dano adbur di serbai 7 saldatu,
conid ed dogni serbha inna
nder insin, 7 domblas n-o[e] 7 imbud ferga i
cridib doine. Ata ann dano
ad(bar) di clochaib 7 do criaidh thalman, conid
edh dogni comusc feola 7
chnama 7 ball isna doinib. Ata dano ann adbur
di blathaib 7 ligdathaib
talman, conid eadh dogni forbrice 7 eirfhinne
ngnuse 7 dath ngruidib.
13. Asreracht in doman uile leis, uair ro bui
aicnedh na ndula uile isin
choluinn arroet Issu. Ar mani chesad in coimdiu
darceand sil Adhaimh, 7
mani eserighedh iar mbas, dolegfaide in doman
uile la sil nAdaim la
tìchtain in bratho, 7 nocha n-athgigned
nach duil do muir na thalmain,
acht no lasfatis nimhe conice in treas nemh.
Acht tri nimhe ind richidh
uasail namma ni airisfedh ann cin loscud. Nocho
biadh talam na cenél de
biu na marbh isin domun, act iffernd co nem
mani thised in Coimdiu dia
tathcreic. Atbeltais na huili cen athnugud samlaid.
14. IS do dodeochadsa, or Pilip, far ndocumsi
co n-ecius duib a scel-sa,
ar is dall fordorcha duibsi denamh dealbhai
in domuin amal doruirmed o
chein.
Maith didu, olt ecnaidi na n-Ebra, indis dun
dona adamraibh
diairmidib forcoimnacair ann, ar is dall erund
mani ecestar dun doleir.
15. Co closs ni, in Tenga Bithnua labhrustair
o berlu angelacda dicens
La uide fodea tabo abelia albe fab, quod latine
dicitur .i. in principio fecit
Deus caelum et terram; et dicit: Ambile bane
bea fabne fa libera salese
inbila tibon ale siboma fuan. Mall uile a thuiremh
tresan Ebrai a n-aisniter
ann. Nad ro bai ordugud inna ligboth. Nat ro
bai talam cona sleibib 7 a
thuathaibh, na muir cona indsibh, na iffernd
cona phianaibh riasiu
asrobrath no beitis duili. Nad batar cuarta
secht nime, na niuil di
thursitin talman, na crithir, na esruth sin.
Nad batar tire forsa tesimtis,
nad bai fleochadh na snechta. Nad batar lochait
na tinfisiu gaeithe na
thoruind. Nad boi rith ngréne, na imthoiniud
escai, na brechtrad rind.
Nad batar bledmila muiridi. Nad boi muir i snaitis.
Nat batar srotha na
halmai, na biastai, na henlaithe, na dracoin,
na nathraig.
16. Responderunt sapientes Ebreorum: Ceist,
cid ro boi isind aimsir
sin nacan raba nach ret asrobrad co se?
Ro frecair in Tenga Bithnua: Bai la hamrai
cach duil .i. Dia cen tosach,
cen fhorcenn, cen bron, cen aes, cen erchra.
Ni rabi uair na haimser na re
nad ro bai. Nocho n-oo, nochon sinu in cétnu,
nach nochon robai ni ba
decmaic do denam. Imroraid imradud. Nicon rabai
tosach dond imradhud
sin. Imroraid ni bad shairiu ara n-aiciste a
chumachta 7 a mhiadamla
diasnese nad bai in nacha reduibh ailib, cenud
bai-sium fadesin.
17. Talmaidiu didu asennad inna imrati dogene
soilsi. Ba si soilsi
degene .i. cuairt ind richid co noi ngradaib
aingel. Sechtmoga a llìn do
thuathaib cosna cetheora[ib] grian [brug]uib
.xx. ar se ceduib, co ceoluib 7
ligbothaib amal rongab fo[r]na .uii. ndealba
ind richid. Doroine dano isind
oenlo cuairt inna ndealb .i. domna dia ndernad
in doman. Ar is delb
chuairt-chruind ceta-dernai Dia do deilb in
domain.
18. Adubradar ecnaidi na n-Ebraide annsin. Innis
duinn anois, cindus
atat suidighthi fil for[s]in domun colléir,
uair atàm 'na n-anfhis 7 'na n-
aineolus cech neich dibh.] R.
19. Friscart in Tenga Bithnua: cenco accid-si,
ol se, is i cruinne
dorraladh cach duil cid iar ndelbuib domain.
Ar is i torachta chruinne
doralta na nime, 7 is i torachta doronta na
secht muire immacuairt, 7is i
torachta dorònad in talam. Ocus i torachta
cruinne doimchellat na renda
roth cruinn in domuin, 7 iss i cruinde dhelbha
atchiter na hanmand iar n-
escumluth a corpaib. 7 is i cruinde atchither
cuairt in richidh uasail, 7 iss
i cruinne atcither cuairt gréne 7 esca.
IS deithbeir uile sein, ar is toruchta
cen tosach cen forcend in Coimde ro bhithbhai
7 bhithbias 7 dorighne na
huili sin. Is aire is i ndeilb chruind ro damnaiged
in doman.
20. Dixit pleps Ebreica: Ceist, cid ro boi isin
chruind chuairt
ildelbhaig ba damna domhain?
21. Ro fhrecair in Tenga Bithnua: Ro boi, ar
se, isin chuairt toruchta
domna domain .i. uacht 7 tes, soilsi 7 dorcha
trom 7 etrom, lind 7 tirim,
ard 7 isiul, serba 7 ailgine, sonarte 7 enairte,
esgal mara 7 fua[i]m toraind,
bolud blatha 7 andord aingel [7] tuirith tenedh.
22. Rabatar na huili-se, tra, ol se, issind
dluim chruind, ildealbhach
doronad do domna domain, 7 is ann ro thusmed
adbar iffirnd, ar ni
dernard in t-iffern focetair co ndeochaid in
t-archaingel dar reir 7 co n-erlai
a rrecht ind rig dodrigne cosinn arbar diairmidi
na n-aingel. Ocus co sin,
ol se, ni dernad iffernd acht ro bui a damna
i fusmiud isin mais chruinn
idealbaig as terpard in domun cosnaibh uilib
chenelaibh docoissin isin
domun. Ocus dia fedligtis ind aingil ro imorbosaigsetar
isind aicniudh i
ndernta 7 isin etrachta angelacdai, ro soifide
damna ind iffirn i flaith
ligaig luachtidi amal in flaith na n-aingel
noeb.
23. IS e, tra, inso gnìmh in cetna lai
i tindscan Dia denamh in domuin,
licet scriptum est: qui vivit in aeternum creavit
omnia simul.
La lingua sempre nuova
In principio fecit Deus coelum et terram (et
reliqua).
Il re supremo del mondo, più potente di ogni re, più
eccelso di ogni potere, più terribile di ogni drago, più
tenero di ogni bambino, più fulgido del sole, più
venerabile di ogni anziano, più vendicatore di tutti gli
uomini, più amorevole di ogni madre, l'unico figlio di Dio
Padre, ha donato alle molte genti del mondo questo racconto della
forma della creazione dell'universo.
La forma di ogni cosa visibile nel mondo non era conosciuta se
non a Dio e la condizione della progenie di Adamo era quella di
chi ha la testa in un sacco, di chi si trova in una casa buia. Prima,
infatti, non si sapeva quale figura avesse il mondo o chi l'avesse
fatto, fino a quando dal cielo venne questo racconto affinché
si aprisse la mente e l'intelletto di ciascuno e si potesse
scoprire e conoscere la via per la vita e per la salvezza delle
anime.
Ogni cosa era oscura agli occhi della progenie di Adamo, se non
che essi vedevano il corso dei corpi celesti, cioè la luna
e il sole e le altre stelle che ogni giorno girano attorno senza
sosta. E vedevano le sorgenti e i fiumi del mondo fluire in ogni
condizione del tempo, senza arrestarsi. E vedevano, con il sopraggiungere
dell'inverno, l'astinenza della terra e la sua debilitazione.
E vedevano, al ridestarsi dell'estate, il risorgere del mondo
con il suo calore e la sua luce, con i suoi fiori e i suoi frutti.
Non sapevano tuttavia chi avesse fatto il mondo - finché
non venne questo racconto della creazione, con le forme e gli agenti
che Dio aveva stabilito. Ogni cosa dunque era del tutto oscura finché
questa narrazione fu data. La rivelò la Lingua Semprenuova,
che parlò dall'alto del cielo sull'assemblea del
monte Sion.
Si erano infatti radunate in assemblea genti che venivano dalla
parte orientale del mondo, cioè tutti quelli tra le montagne
di Abia e le sponde del Mar rosso, e tra il Mar Morto e le isole
di Sabairn.
Questo era il numero di coloro che si erano radunati: tremilaquattrocentottantacinque
vescovi e cinquantaquattromilanovecentosessantasei tra i re del
mondo.
Quell'assemblea sulla sommità del monte Sion durò
quattro mesi e un anno, estate e inverno, primavera e autunno. Stavano
sotto novecento grandi tende di lino bianco decorate con insegne
d'oro. C'erano cinquemilanovecentocinquanta torce a colonna e pietre
preziose per illuminare quella moltitudine, in modo che nessuna
intemperie potesse essere loro di ostacolo.
Ogni giorno, a mezzanotte, duecentocinquanta vescovi, tremila sacerdoti
dei diversi ordini, cinquecento diaconi, centocinquanta giovani
innocenti e cinquecento tra i grandi re preceduti dalla loro scorta
entravano cantando in Gerusalemme e ne uscivano ogni mattina con
l'inno di giubilio che si canta in cielo, il Gloria in excelsis
Deo (et reliqua). Allora, mentre questa processione con
il seguito ritornava al monte Sion intonando quel canto di gioia,
le genti dell'assemblea si alzavano per andare loro incontro tra
le due piane levando le grida proprie di ogni re.
Ma d'improvviso, quando si era al termine della Vigilia di
Pasqua, si udì qualcosa: un suono nelle nuvole come il rombo
di un tuono e come il crepitìo di un grande fuoco. E c'era
anche un vento impetuoso.
Subito, in mezzo a quel fragore, si vide una massa incandescente,
come un sole radioso. Roteava su se stessa, quella massa ardente,
e l'occhio non poteva fissarla perchè era sette volte
più abbagliante del sole.
Subito dopo, mentre avevano gli occhi rivolti verso quel rombo
e pensavano fosse un segno del Giudizio, si udì improvvisamente
una limpida voce che parlava nella lingua degli angeli: Haeli
habia felebe fae niteia temnibisse salis sal, cioè: "Ascoltate
questo racconto, figli degli uomini. Sono stato mandato da Dio per
dialogare con voi".
Paura e debolezza calarono immediatamente su quelle schiere, e
non era terrore senza causa. La voce risuonava potente come l'urlo
di un'armata, eppure allo stesso tempo, era più chiara
e limpida di una voce umana. Rumoreggiava su quella moltitudine
come l'urlo di un grande vento e, allo stesso tempo, non era,
all'orecchio di ciascuno, più forte della voce di un
amico, ed era più dolce di una melodia.
I sapienti tra gli Ebrei risposero et dixerunt: "Facci sapere
quale è il tuo nome e il tuo intento e la natura del tuo
essere".
Si udì qualcosa era la Lingua Semprenuova che parlava con
voce angelica: Nathire uimbae o lebiae ua un nimbisse tiron tibia
am biase sau fimblia ab le febia fuan, cioè: "Sono nato
tra i popoli della terra, concepito dall'unione di un uomo e una
donna. Ecco il mio nome: sono l'apostolo Filippo. Il Signore mi
mandò a predicare alle tribù pagane. Dai pagani nove
volte mi fu mozzata la lingua nella bocca, e nove volte ripresi
a predicare. Per questo sono chiamato dalla comunità del
cielo: la Lingua Semprenuova".
I sapienti tra gli Ebrei dissero: "Svelaci in quale lingua
ci parli".
Rispose: "La lingua in cui io vi parlo è la lingua
in cui parlano gli angeli e ogni ordine celeste. E le creature marine,
gli animali selvatici e domestici, gli uccelli, i serpenti e i demoni
la comprendono. Ed è la lingua in cui tutti parleranno nel
giorno del Giudizio.
Questa è la ragione che mi ha condotto a voi: rendere manifesta
la storia mirabile che lo Spirito Santo riferì attraverso
Mosé figlio di Amram sulla formazione del cielo e della terra
e di tutte le cose visibili. Di come cielo e terra furono fatti
narra quella storia, e anche della creazione del mondo portata a
compimento della resurrezione di Cristo dai morti in questa Vigilia
di Pasqua. Perchè ogni sostanza, ogni elemento, ogni natura
visibile nel mondo erano unificati nel corpo con cui Cristo è
risorto, cioè nel corpo di ogni essere umano".
"Vi è innanzitutto la sostanza dell'aria e del
vento, da cui deriva nel corpo dell'uomo la respirazione. Vi
è la sostanza del fuoco, che è ciò che forma
nel corpo dell'uomo il rosso calore del sangue. Vi è
la sostanza del sole e delle stelle del cielo, che è ciò
che forma la luminosità degli occhi, il loro brillare. Vi
è la sostanza degli elementi amari e salati, che è
ciò che forma l'amaro delle lacrime e la bile del fegato
e l'abbondanza di collera nel cuore degli uomini. Vi è
la sostanza delle pietre e dell'argilla della terra, che forma
nelle persone la connessione della carne e delle ossa. Vi è
la sostanza dei fiori e dei colori vivaci, ed è questa a
formare il vario colorito e pallore dei volti, il colore delle guance".
"Poiché la natura di ogni elemento era nel corpo che
Gesù assunse, con lui è risorto tutto il mondo. Se
il Signore infatti non avesse concepito questo, se non avesse patito
per la progenie di Adamo e non fosse risorto dopo la morte, al sopraggiungere
del Giudizio l'universo intero verrebbe annientato insieme
alla progenie di Adamo, e nessuna creatura della terra e del mare
sarebbe rigenerata ma i cieli stessi si incendierebbero. Nulla si
salverebbe dal fuoco della distruzione, tranne i tre ultimi cieli
dell'alto Regno. Se il Signore non fosse venuto a redimere,
non ci sarebbero più nell'universo né la terra
né le razze dei vivi e dei morti, ma soltanto inferno fino
al cielo. Tutte le cose sarebbero distrutte così, senza rinnovamento.
Per questo sono venuto da voi - disse Filippo -: per potervi
raccontare questa storia. Perché la costituzione della forma
del mondo, così come è stata narrata dai tempi antichi,
è per voi opaca e oscura".
"Bene, - dissero i sapienti tra gli Ebrei - parlaci
allora delle innumerevoli meraviglie accadute, perché tutto
ciò rimane nell'oscurità per noi se non ci viene
narrato con chiarezza".
Si udì qualcosa, era la Lingua Semprenuova che parlava
nel linguaggio degli angeli e diceva: Lae uide fodea tabo abelia
albe fab, quod latine dicitur: "In principio fecit Deus coelum et
terram", et dicit: Ambile bane bea fabne fa libera salese inbila
tibon ale siboma fuan.
Sarebbe lungo riferire in ebraico tutto quello che lì venne
detto: che non esisteva ordine né luce, che non esisteva
la terra con le sue montagne e le sue genti, il mare con le sue
isole, l'inferno con i suoi tormenti, prima che fosse detto
che questi elementi dovevano esistere; che non c'erano le sfere
dei sette cieli, né nubi per bagnare la terra, perturbazioni
e scatenamento di tempeste; che non c'erano terre su cui potessero
riversarsi; che non c'era pioggia o neve, lampi, tuoni o raffiche
di vento; che il corso del sole non esisteva, né le fasi
della luna, né il variare delle stelle; che non c'erano
mostri marini, né mari in cui potessero nuotare; che non
c'erano ruscelli né animali domestici o selvatici, né
stormi di uccelli, draghi o serpenti.
Responderunt sapientes Ebreorum: "Ma allora, ti domandiamo,
quando non esisteva nessuna delle cose nominate finora, che cosa
esisteva?".
La Lingua Semprenuova rispose: "C'era colui che è
più mirabile di ogni creatura: Dio senza inizio e senza fine,
senza dolore, senza età né decadenza. Non v'era
stata ora, tempo, momento in cui egli non fosse esistito. Egli non
è né più giovane né più vecchio
di quanto fosse all'inizio. Non c'era nulla che gli fosse
impossibile fare. Aveva un pensiero: un pensiero che non aveva avuto
inizio. Pensava che sarebbe stato più magnanimo se il suo
potere e la sua gloria fossero stati visibili - perché
ciò non era manifestabile, e non esisteva in nessun'altra
cosa se non in lui.
A questo pensiero allora d'improvviso egli fece la luce.
Questa è la luce che fece: la sfera del Regno con i nove
ordini di angeli. Erano questi suddivisi in settantadue schiere
con i settemilaseicentoventiquattro soli, con melodie e sedi radiose
come esistono nelle sette configurazioni del Regno. Creò
in quel giorno la circolarità delle forme, cioè la
sostanza con cui venne formato l'universo. Perché è
la perfetta forma sferica ciò che Dio all'inizio creò
come forma per l'universo".
[Dissero allora i sapienti tra gli Ebrei: "Dicci il modo
in cui è disposto l'universo, perché non ne siamo
a conoscenza, ignoriamo ogni cosa"].
La Lingua Semprenuova rispose: "Sebbene voi non lo vediate,
ogni cosa creata è stata stabilita nella sua circolarità.
Così i sette cieli furono stabiliti in sfere perfette; e
i sette oceani che li circondano furono creati circolari; e le terre
furono fatte circolari; ed è in cerchi perfettamente rotondi
che le stelle girano attorno alla rotonda ruota del mondo; ed è
in forma circolare che le anime si mostrano dopo essersi separate
dal corpo; e il cerchio dell'alto Regno appare rotondo, e la
forma del sole e della luna appare agli occhi rotonda. Tutto questo
ha un senso, perché il Signore, che è sempre stato
e sempre sarà e che fece tutte quelle cose, è egli
stesso un cerchio senza inizio e senza fine. Tale è dunque
la ragione per cui all'universo è stata data forma circolare".
Dixit pleps Ebraica: "Che cosa c'era dentro quella molteplice
circolarità che era la sostanza dell'universo?".
La Lingua Semprenuova rispose: "Nel cerchio perfetto della
sostanza dell'universo c'erano il freddo e il caldo, la
luce e l'oscurità, la pesantezza e la leggerezza, l'umido
e il secco, l'alto e il basso, l'amaro e il dolce, la
forza e la debolezza, il tumulto del mare e il profumo dei fiori,
il rombo del tuono e il canto degli uccelli e le colonne di fuoco".
"Tutte queste cose erano nell'informe magma circolare
della sostanza dell'universo - disse - ed è
allora che venne creata la materia per l'inferno, perché
questo non fu formato finché l'arcangelo non sfidò
la volontà e infranse la legge del Re che lo aveva creato
con l'innumerevole comunità degli angeli. Fino ad allora
- disse - l'inferno non era ancora stato fatto ma
la sua essenza era dall'inizio nella molteplice massa circolare
da cui è stato tratto l'universo insieme a tutte le
specie in esso esistenti. E se tutti gli angeli avessero perseverato
nella natura in cui erano stati creati e nella loro angelica radiosità,
la materia per l'inferno sarebbe stata trasformata in un regno
fulgidamente luminoso".
Questo, dunque, è ciò che venne fatto il primo giorno
in cui Dio intraprese la creazione dell'universo licet scriptum
est: "Qui vivit in aeternum creavit omnia simul".
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