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POESIA ISPANO-AMERICANA


LUIS ALBERTO CRESPO, Tortora che voli alta

«Non considero affatto la foto una “copia” del reale, ma la considero un’emanazione del reale passato: una magia, non un’arte». Così, perentoriamente, si esprimeva Roland Barthes in Camera chiara, il suo saggio del 1980 dedicato alla Fotografia. Oscillando tra la condizione dello studium, del desiderio di chi si applica sull’immagine fotografica, e la condizione del punctum, l’incidenza puntuale con cui quella tecnologia della riproduzione ottica dichiara che quella cosa raffigurata-là «è stata», Barthes cercava di ragionare sullo statuto ontologico dell’immagine fotografica e sul ruolo che l’immaginario ha nella società nostra contemporanea. La conclusione di quel saggio era aperta, lasciando il lettore sulla indecisione tra l’addomesticamento in cui consiste l’«immaginario generalizzato» (per esempio della pubblicità, o dell’intossicazione informativa odierna) e la follia che ci propone «il risveglio dell’intrattabile realtà».
Rappresentare significa infatti anche sempre ri-presentare: presentare di nuovo. Ma significa anche presentare in altra foggia, con altro materiale, dentro un altro codice o comunque dentro un altro sistema di riferimento. Ed è per questo che Barthes amava parlare di Spectrum della Fotografia, rimandando tanto all’etimo dello «spettacolo» tanto a «quella cosa vagamente spaventosa che c’è in ogni fotografia: il ritorno del morto».
Di simili presenze spettrali è abitato il libro di Luis Alberto Crespo, Tórtola de más arriba, tradotto ora in italiano da Andrea Perciaccante col titolo Tortora che voli alta per le Edizioni d’if, la piccola casa editrice napoletana che da anni segue e promuove la poesia italiana e che dal 2007 promette di pubblicare annualmente, in collaborazione con l’Unione Latina, un volume di poesia in lingua non italiana, selezionato all’interno di un premio internazionale. Il primo volume di questa serie è appunto quello di Crespo, autore venezuelano nato nel 1941, scrittore e giornalista, traduttore dal francese. Dalla nota editoriale impariamo anche che Tórtola de más arriba è stato concepito come poemetto unitario, per raccontare l’esilio degli «antenati» dell’autore, «cacciati da Carora e profughi nel deserto del Quibor». E infatti, i protagonisti dei componimenti che si susseguono nel libro sono i componenti della famiglia Crespo Meléndez, dal capostipite Pedro ai rami più recenti.
Questa aggregazione per tasselli progressivi non assomiglia però al tracciato ordinato di un albero genealogico, ma si presenta piuttosto come l’invocazione degli spiriti degli antenati: la loro evocazione. I Crespo Meléndez, al contrario, vengono avanti come in un’unica folla, si direbbe, assembrandosi sulla soglia dell’immaginazione (come le ombre che fanno ressa sul bordo rituale tracciato da Ulisse nell’Odissea). «Che ci fai tu qui nei miei occhi zio Carlo se sei morto?»: il poeta stupito, forse intimorito, si rivolge all’apparizione che bussa alla «sua fronte perché gli apra», e lo invita dicendogli «avanti». «Pasa adelante»: mettiti in mostra, fammiti vedere: alla potenza della figura, alla forza vettoriale dell’antenato che si ripresenta al ricordo, si contrappone allora la ricettività, la disponibilità ad accogliere di chi è colto da questi ricordi.
Punctum e studium, secondo la terminologia di Roland Barthes: l’insistenza di quel che «è stato», la forza che ribadisce dalla Fotografia che quanto vi è raffigurato è stato realmente innanzi agli occhi del mirino, da una parte; dall’altra, la pervicacia del desiderio, della voglia di conoscere, inoltrarsi dentro la grana dell’immagine, ben sapendo che l’esito di questa spinta conoscitiva sarà «il ritorno del morto». Ed è evidente che tale spinta, desiderio o disponibilità (che è passività attiva: disporsi a ricevere), è il volto odierno della pietas degli Antichi: raccogliere le statuine dei Penati e salvarle alla distruzione del saccheggio nemico, riporle al nuovo fuoco della casa che si ricostruisce altrove.
Se questo è vero, il libro di Crespo ha allora un duplice volto. Da un lato, esso è senza alcun dubbio un’operazione della memoria, e dunque un’operazione svolta nel tempo. Dall’altro lato, esso è anche un’operazione realizzata nello spazio. Non a caso il punto di partenza, descritto nel testo di apertura e chiarito dalla bandella editoriale, è l’esilio dei progenitori. Prima dell’esilio non vi è storia che non sia placata; l’esilio segna invece una catastrofe rimasta senza racconto: «Non vi è menzione nel Vecchio Testamento di questo viaggio di derelitti», solo segno, tra la polvere e i dirupi dei canyon, «un’ignota sepoltura».
«Illagrimata sepoltura»: viene quasi da sovrapporre alla tomba anonima nel deserto quella fantasticata da Foscolo come fatale prescrizione che stacca l’uomo dalla sua terra, dai suoi simili, dal gioco di affetti che costituisce l’umana convivenza. È un fatto fondamentale dell’umano su cui, verrebbe da dire “dopo Vico” è tornato qualche anno fa Robert Pogue Harrison in Il dominio dei morti. Ed è fatto che nel nostro mondo repleto d’immagini trova ancora nella Fotografia un possibile innesto per la riapparizione dello spettro, lavorando la nostra immaginazione e consentendo quella contemplazione, quello sforzo interiore che rifaccia davvero «presenti» quelle immagini, quelle persone che sono già state.
Ma lo spettro, si sa, è creatura esigente. Una volta insediatosi in uno spazio tende a saturarlo. Ed è così che certe presenze hanno poi una maggiore capacità d’insistenza, fino a governare la mano di chi scrive, e dettargli, veri dittatori, le frasi da scrivere, le immagini da evocare: «Questa strada è mio padre che va al registro municipale | questa parete è il suo abito chiaro […] | e questa stanza è dove apre un libro e scrive per sempre | sotto una lampada cieca», una volta preso per sempre il posto del sopravvissuto. Il libro di Crespo c’insegna la difficile necessità di mantenersi su più tempi e in più luoghi per accogliere le forze della «otredad», dell’altretà, dell’altrità: dell’altrove.


Giancarlo Alfano

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POESIA ISPANO AMERICANA

EUGENIO MONTEJO, La lenta luce del tropico.
Antologia poetica,
a cura di Martha Canfield

Firenze, Le Lettere 2007, 147 pp., € 18,00

Il 44% di tutte le specie volatili sudamericane solca i cieli del Venezuela: azulejos, gorriones, alcatrices, ibis, gufi e tordi neri. Ed ora, spiccano il volo da La lenta luce del tropico, antologia poetica di Eugenio Montejo, ed invadono anche il nostro cielo italiano grazie a un volume curato da Martha Canfield e tradotto da Luca Rosi.
Montejo, studioso, critico e membro del famoso gruppo letterario venezuelano legato alla rivista «Poesía», offre al lettore una raccolta intensa ed originale, il cui tema fondante è il rapporto dell’uomo con la natura, e della natura con l’eternità: la sacralità della natura (l’antico desiderio celebrato dal poeta) si traduce nel divenire simbolo del tropico, luogo dell’immanenza e allo stesso tempo parabola di trascendenza per gli esseri che lo abitano, manifestazione di una divinità nostalgica, appena intravista da un io poetico che è tale in quanto percepisce il canto sommesso delle creature animate.
Una poesia, quella di Montejo, che corre a svegliare gli dei, addormentati e custoditi nel petto dei passerotti, e li desta scherzosamente come fa il tordo che ci sveglia nelle mattine estive, pigolando dai rami dell’albero dirimpettaio. I versi di Eugenio Montejo presentati al pubblico italiano in questa preziosa antologia, ci aiutano a riconoscere la divinità che giace nella gola vibrante del gallo e nella gioia segreta che fa esplodere le cicale.
Interessante e degno di nota è il costante riferimento dell’autore venezuelano all’arte dello scrivere, l’intertestualità e la metaletterarietà che ritorna in questa selezione antologica, così come un aspetto non trascurabile: sono poesie, quelle presentate nella collana «Latinoamericana», di una straordinaria serenità, di un accordo con l’armonia del mondo, un’ode all’imperituro e alla trascendenza. Si respira, in queste pagine, la profonda gioia di sentirsi circondato da una natura che l’uomo inutilmente cerca di sopprimere con il suo cemento e con le mura anguste della città: inutilmente poiché anche se il gracile corpo della cicala soccombe ai suoi effimeri giorni di vita, il suo canto diviene immortale, echeggia nel tempo e nello spazio a dismisura, rompendo le barriere del hic et nunc.
Una poesia dunque che si stacca dal consueto sfondo del dolore e della disperazione per approdare invece alla fiducia e a un sentimento di piena comunione con il creato: «Credo nella vita sotto forma terrestre […] dappertutto piena di orizzonti» afferma con forza Montejo in Credo alla vita ed afferma orgoglioso di essere ateo solo nei riguardi della morte. Morte che appare fugacemente come il coltello d’un incubo o forse solo come perdita di un passato mitico, come abbandono dell’infanzia e del paradiso vegetale ad essa legato, che purtuttavia si recupera nel sogno, nella quimera. La leggenda e l’amore sono il luogo adibito al recupero di quanto perduto: un tesoro custodito tra torri ed arcobaleni, come la pentola d’oro conficcata nella terra, perché è dalla terra che sboccia la vita e il suo ricordo. Perché è nella terra che si costudisce il passato: ed è così che, parlando dei propri antenati, l’autore s’identifica con le sue zolle e dice «Io sono il campo dove sono sepolti».
E la terra di Montejo è il fertile humus del Tropico, topografia del suo destino e geografia spirituale del suo peregrinare (metaforico e non) nei territori venezuelani così come in quelli oltreoceano. La patria del poeta è la poesia stessa, l’unico luogo di appartenenza che, tuttavia, in Montejo viene fondata nel suo Venezuela natale che è al tempo stesso origine e fine della sua poetica: «Niente porto con me / (chi va nei llanos sa che non può riportare / nulla che sopravviva nelle città) / salvo sensazioni, / stupori, / poesia / e lo sguardo diretto degli uomini […]».
Il Venezuela natio è il luogo «lontano dalla neve, / laddove la terra gira più lentamente […]» (p. 81) e allo stesso tempo una «terra fertile, sentimentale, amara, / che non si lascia possedere, / non sarà nostra né di nessuno / ma perfino nell’ombra noi le apparteniamo» (p. 67).
La riflessione sulla metaletterarietà è costante: la pagina è bianca come la neve e le parole su di essa scritte sono corvi neri, che volano ubriacando la vista del poeta. E la poesia stessa, «attraversa la terra in solitudine, / appoggia la sua voce sul dolore del mondo / e niente chiede / - nemmeno parole».
   Gli alberi sono creature vive, spirituali e carnali, mentre gli uomini sono involucri vuoti, «come vestiti che si tolgono, come le ombre cadute dai loro numi». Dalle pagine di questa nuova antologia le pietre ululano nella notte, «ebbre, folli», mentre l’autore non riesce a «decifrare l’alfabeto del mondo». Ma noi, attraverso lui, decifriamo il canto raggiante della poesia ispanoamericana, che da oggi ci offre un nuovo grande autore tradotto in lingua italiana.


Silvia Favaretto

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